Alcune etimologie sulle maschere del Carnevale, tra le altre MAMMUTHONE

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MAIMÒNE. Nel Carnevale di Oniferi è un fantoccio trasportato da un asino e munito di ampie corna caprine, maschera ricavata da una pala di ficodindia. Un corteo di maschere vestite a lutto, il volto tinto di nero, accompagna il fantoccio portando con sé, in genere, un animale vivo ingabbiato. A Sarùle, Maimòne è una maschera indossata da un uomo, vestito di nero, volto coperto da una pala di ficodindia (scelta apposta perché zeppa d’acqua) da cui sono ricavati occhi e bocca. La base etimologica si ritrova nell’ebr. maim ‘acqua’, documentato nell’Oristanese e nell’Iglesiente fino all’età moderna. Cfr. akk. māmū ‘acqua’. Una variante è Mamòne, nome del sito dove sorge il Tirso, il fiume più lungo della Sardegna.

MAMMUTHONE, mummuttòne, mamussòne, malmuntòne, mamuntòmo, notissima maschera orrida dei Carnevali barbaricini, viene intesa in Sardegna anzitutto come ‘spauracchio’. Ma, come successe per tutte le demonizzazioni del Medioevo, anche questa demonizzazione (nonché la stessa storpiatura della mostruosa maschera facciale) fu indotta, come vedremo, dai preti bizantini durante i “secoli bui” della Sardegna.

Non c’è dubbio che una radice di questo nome “diabolico” sia abbinata al cognome sardo Mu, Mou, Moi, Mua < akk. mû ‘acqua’. In origine, quindi, Mum-mu-thòne (radice reduplicata in termini sacrali) + sum. tun ‘contenitore, nuvola’, indicò la ‘grande nuvola di pioggia’. Confronta al riguardo anche la radice etimologica di Maimone, da maim ‘acqua’, una variante di mû.

Però non è soltanto l’Acqua Primordiale a saturare il significato di questa maschera. Purtroppo l’epiteto Mammuthone, Mummuthone rientra tra i pochi nomi della civiltà sarda la cui interpretazione diviene complessa quante più sono le radici linguistiche comparabili. Il cognome Mu < mû ‘acqua’ è soltanto una delle componenti che occhieggiano in Mumuthone.

L’abbondanza di radicali (e nomi) concorrenti facilitò i denigratori cristiani a indurre il popolo nel privilegiare in Mammuthone la base ugaritica Motu, indicante un dio demoniaco che poneva fine alle attività vitali: era ‘la Morte’. Da Motu prese piede nel Mediterraneo un nome con varie sfumature fonetiche, che in Sardegna divenne Mommoti (voce raddoppiata in superlativo per indicarne la terribilità). Certamente i mamoiadini col Carnevale celebravano sin dalle origini non solo il valore dell’Acqua Rigeneratrice ma, assieme ad essa – componente inestricabile – anche il mito di Adone Morto, la cui immersione nell’Acqua ne determinava la Resurrezione. Immagino che l’incastonamento di Motu nell’epiteto Mu-muth-one abbia favorito i preti bizantini, 1400 anni fa, ad istigare i fedeli di Mamoiada a rendere orrida la maschera del proprio Dio, imbonendoli con l’ideologia pretesca del macabro e del funesto.

L’abbondanza di radicali disponibili suggerisce anche una terza opzione, la quale rimena ai riti iniziali del Carnevale, alle cerimonie di Purificazione collettiva mediante il fuoco (Sant’Antoni e su fogu, sa Candelora, e pure il finale rogo del pupazzo, usuale in quasi tutta l’Isola, a memoria di più brutali usanze quando al fuoco andava un uomo o una donna, scelti quali vittime sacrificali). In tal guisa è possibile leggere Mamuthone come agglutinazione di ma ‘bruciare’ + mu ‘far rumore’ + tu ‘leader’, nu ‘creatore’. In tal guisa il significato complessivo sarebbe ‘Dio Creatore da bruciare con frastuono’.

MARTISBERRI personaggio di Ulàssai < akk. martu ‘palo (sacro)’ + berû ‘essere in penuria d’acqua; essere affamato, in carestia’: martiberû = ‘palo sacro delle carestie, delle piogge’. Il palo fu ovviamente effigiato in forma di fallo. Martisberri è uno dei tanti nomi coi quali fu appellato il Dio della Natura. Che i Gairesi (v. infra) immaginassero Martiperra-Martisberri come un grosso gatto, la dice lunga: gattu = ‘statua fallica, immagine del Dio’ (da portare in processione).

MARTIPERRA personaggio carnevalesco di Gairo. «S’immaginava Martiperra come un grosso gatto, pronto a graffiare e lacerare le carni di coloro che il martedì grasso se la passavano a lavorare, anziché a godersi la sua festa». Il nome ricorre in tante preghiere per la siccità, quando la statua del santo protettore è portata in processione e immersa nel corso d’acqua cantando:

Abba a terra a sos laores, Acqua ai campi di grano

pizzu e perra a sos minores una sfoglia e mezzo pane per i piccoli

e unu cantu da azzanta e un pezzo in aggiunta (ai grandi)

Misericordia Santa. Misericordia santa. Recita senza senso. (Martiperra è corruzione di Martisberri)

SANDRIPERRA (Esterzili) “re” del Carnevale, pagliaccio portato al rogo < akk. sādu ‘pascolo’ + berû ‘penuria d’acqua’: sā(n)diberû = ‘pascoli in siccità’ (epentesi).

NARCÍSU è un personaggio-fantoccio del Carnevale di Fonni destinato al rogo = gr. Νάρκισσος < akk. nārum ‘fiume’ + kissu ‘stelo’: nār-kissu = ‘stelo delle acque’. Tutto un programma.

TURCOS, truccos, a Ollolái oggi sono sas màscaras nettas (ossia le maschere carnevalesche senza alcuna copertura di nero e con la faccia non celata). Basta poco a ricordare che proprio a Ollolái, borgo appollaiato sulle montagne al centro della Sardegna, i Turchi (i musulmani che tentarono per un millennio d’invadere l’isola) non arrivarono mai. E nemmeno si può parlare di trucchi, perché appunto le maschere sono “castamente” addobbate, senza facciale, con abiti semplici, banali, bianchi (linde tovaglie). Che l’arcaico Carnevale barbaricino sia sparito da Ollolai e non se ne abbia nemmeno memoria, la dice lunga su quanto successe al finire del VI secolo dell’Era volgare, allorché l’esercito bizantino costrinse Ospitone, re di Barbagia, residente a Ollolai, a convertirsi al cristianesimo e a far convertire l’intera Barbàgia. La conversione forzata giunse al punto che persino al monte sacro di Ollolái fu dato il nome del Santo degli invasori, san Basilio. Colonizzazione integrale, dunque, e coartamento totale del rito fertilistico rappresentato dal Carnevale.

Ma noi siamo ancora in grado di testimoniare che Turcos è una paronomasia, una parola senza senso che nasconde il sum. tul ‘pozzo, laghetto, canale’ + ku ‘rafforzare, far crescere’ = ‘far aumentare il livello dell’acqua’. Che invece Turcos possa provenire dall’akk. turku ‘dark marking’ (macchia nera), sarebbe una contraddizione ancora più cocente, visto il colore degli abiti.

SANT’ANTÒNI (de su porcu), il santo cristiano che s’accompagna al porco inaugurando tutti i Carnevali della Sardegna, indica una patente paronomasia < akk. šatû(m) ‘bere’ + antu ‘spiga d’orzo’. Sant’Antòni è il Dio della Natura, il quale in origine, quando soltanto l’orzo cominciava ad essere piantato mentre il grano era ignoto (fine Paleolitico), indicava colui che – proprio al momento della semina dell’orzo – dava avvio alla rinascita della Natura.

SANT’ANDRÌA è il Santo del vino. In Sardegna è chiamato così anche il mese di Novembre, perché in quel periodo si sturano le botti. Santu < akk. šātû ‘grande bevuta’, šatû(m) ‘to drink’ + epentesi; il campo semantico del ‘bere’ è pure in relazione ai campi. Andrìa < sum. an ‘Cielo’ + dirig ‘accumulare nubi’.

SANTU ANTIÓGU < akk. šatû(m) ‘bere’ + antu ‘spiga d’orzo’ + ugu ‘potenza, forza’ = ‘(Dio) che ha il potere di abbeverare le spighe d’orzo’. La festa di sant’Antioco (non a caso è il Patrono della Sardegna) cade quindici giorni dopo Pasqua, stabilita in epoca spagnola per celebrare la data del ritrovamento delle reliquie. Ma è ovvio che in origine la ricorrenza corrispondeva a quella di Santu Antòni e su fogu, all’inizio del Carnevale.

LISÉI. Santu Liséi è il nome di un nuraghe di Nule < akk. šātû ‘grande bevuta’, šatû(m) ‘to drink’ (epentesi -n-) + sum. li ‘ramo, virgulto’ + se ‘vivere’. L’invocazione, l’epiteto, è riferito al Dio della Natura portato in processione: šā(n)tûlise = ‘(Dio) che irriga e fa vivere le piante’. Come si vede, anche i nuraghi (che furono gli altari del Dio Sole) venivano nominati con le invocazioni più consone all’epifania fertilistica del Dio Sommo.

AQUA MADÁLLIA è l’acqua benedetta contro il malocchio. Quando la parola prevalse, la metallurgia era ancora in mente Dei, e le pietre preziose prendevano nome dall’akk. madallu(m), matallu(m) ‘pietra preziosa’: nome poi dato ai metalli al momento della scoperta della metallurgia, visto l’altissimo pregio del nuovo prodotto.

AQUA LICÒRNIA è parimenti ‘acqua contro il malocchio’ < akk. leqû(m) ‘prendere potere’; ‘accettare una preghiera, un desiderio’ + nê’u(m) ‘far tornare indietro, respingere’: leqûn-nê’u = ‘potere di respingere’, apotropaico.

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