MEAZZA, Meàza cognome che Pittau DCS crede equivalente al log. meàza ‘misura di capacità’ (1/4 dello starello logudorese e 1/8 di quello cagliaritano), e lo ritiene derivato da un supposto lat. *medialia. Per Puddu meàza, mearza, mialla è una misura che prende 1/4 di un quarto (6 litri = 1/8 del quarto cagliaritano).
Dolores Turchi1 ricorda però anche l’esistenza di questo strano appellativo riferito alla Luna. Scrive che ad Orgòsolo le spose desiderose di un figlio recitavano: Sa luna noa, sézidi in coa / sézidi in sinu, cálighe e inu / cálighe e abba, sa mea meàza ‘O Luna nuova, pòsati sul mio grembo, pòsati sul mio seno, o calice di vino, o calice d’acqua, o mia meaza!’.
La Turchi non capisce il significato di meàza, ma ripropone per fortuna questa invocazione, la quale su base accadica si risolve facilmente. Il versetto sa mea meaza è una paronomasia, e va tradotto per intero: akk. ša pron. femm. + -mê ‘hey!’ enclitico dopo pronome + ma’dû ‘gran quantità, abbondanza’, miādu(m), mâdu(m) ‘essere o diventare molto numeroso’. Possiamo tradurre il versetto così: ‘(dico) a te (ša), hey! (-mê), o Luna Nuova, per averla (la prole) numerosa (miādu)’.
NERBIÀTTSA camp. ‘spazzaforno’ (Thymelaea irsuta Hendl.). Nerbiattsa è composto sardiano con base nell’akk. nēru (a tree) + biatum ‘stare svegli di notte per preparare farmaci’, col significato di ‘pianta degli alchimisti, delle streghe’.
NORCULÁNU. Dolores Turchi2 narra la leggenda di Norculánu, un pastore il cui ovile stava presso Fumái (Supramonte di Orgòsolo). Poichè Trullío, il noto diavolo del Supramonte, si divertiva a tramutare le formiche in vacche e poi le riduceva nuovamente a formiche, Norculánu riuscì con un inganno a rubare le vacche a Trullío e farle vivere come tali per parecchi anni, diventando ricco.
Il nome sembra un classico composto sardiano, con base nel sum. nu ‘creatore’ + ru ‘architettura; architettare’ + ku ‘propagare’ + la ‘allungare, estendere’ + nu ‘un genere di armento, specialmente pecore’. Il significato del composto sumerico sembra essere, a un dipresso, ‘(chi) architetta di generare e propagare gli armenti’.
OCCI IN CURU locuzione apotropaica sassarese (e logudorese) che viene tradotta, letteralmente, come ‘occhi in culo!’ (sottinteso: méttimi). Viene pronunciata contro il malocchio, quale brevissima formula magica, molto spesso espressa davanti a colui che si ritiene possa provocare il male o portare sfortuna. Oggi purtroppo la formula viene sentita così. Ma un tempo questa breve catena fonica era nient’altro che il verso finale di un brevi o brebu (vedi), la strofe cantilenante, verseggiata e rimata, recitata contro il malocchio. Wagner registra che la frase può cominciare con orci, urci…, e ciò offre il destro per dipanare il busillis. La base etimologica del versetto occi in curu si ritrova nell’akk. urḫu ‘Luna, Dea Luna’ + ukullûm ‘sovrintendente, sorvegliante, assistente’ (stato costrutto urḫī-ukullûm), col senso di ‘la Luna mi difenda!’. Invocazione veramente arcaica.
OCCI LI… è una locuzione dell’Oristanese (citata dal Cossu) recitata in segno di sbeffeggiamento verso una persona che ha difetti fisici. Ad esempio, se uno cammina claudicante, rischia di sentirsi urlare dietro dai giovinastri Occi li pè!, che Cossu 236 traduce con ‘Ahi i piedi!’. Risalta anzitutto il fatto che occi, stranamente, non è interpretato come ‘occhio’ ma come ‘ahi’; e risalta pure il fatto che li venga tradotto come it. i al posto del sardo is (art. det. pl.). Insomma, in questa locuzione non c’è nulla al proprio posto. Risulta persino difficile comparare questa locuzione col sass. Occi-in-curu (vedi). Dubito che Cossu abbia fatto una oculata registrazione.
Sembrerebbe di poter leggere in occi li… un’antichissima locuzione accadica ukkuliš ‘very dark(ly)’, ‘assai tetro, buio’, col significato, a proposito dei piedi, di ‘(la vedo) molto buia per i piedi!’. Ma è più probabile che occi li… sia un frustulo di una locuzione ormai smembrata che un tempo aveva senso compiuto, a un dipresso come succedeva per la locuzione sass. occi in curu! (vedi).
PINDÀCCIU sd. ‘che mette il malocchio, che porta sfortuna’, ‘uomo di malaugurio’ detto di certe persone considerate nefaste; pindacciáre, pindacciái ‘mettere il malocchio, portare sfortuna’.
Wagner per questi termini trova un’origine inverosimile. Collegandosi specialmente al gall. pinnone ‘spauracchio, pupazzo di cenci usato per scacciare i passeri dai campi’ (equivalente al log. pazzàghe ‘uomo di paglia’), Wagner ritiene che alla base di tutto ci sia il lat. pinna ‘penna’ (sic!), anche se poi, con fare ondìvago, chiarisce che gall. pindàculu ‘cencio’ deriva dal lat. pendere.
In realtà pindácciu ha base etimologica nell’akk. pīdu, pâdu(m) (con successiva epentesi eufonica di -n-) che significa ‘imprigionare, confinare’, ‘mettere in catene’, ‘tenere al confino, alla quarantena’ + aḫu(m), aḫiu ‘straniero; anormale, estraneo, non-canonico’. L’evoluzione etimologica che porta al sardo attuale pindácciu (da pīd-aḫiu) è chiara e lineare, intendendosi per ‘straniero’ uno che, dal difuori del nostro essere, è capace di condizionarlo, per evidenti capacità soprannaturali.
PINNADEḌḌU o sabéggia o sebézi ‘pietra nera contro il malocchio’ che s’appendeva al collo. Sembra che l’etimo si basi sull’akk. pinnu ‘bottone’ + telu(m) ‘pronunciare esattamente’. Il concetto di bottone riguarda la pietra in sé, mentre il concetto di pronunciare con esattezza riguarda il brébu, che è il contenuto spirituale del bottone. In Sardegna su brebu è lo ‘scapolare’ che s’appende al collo. Esso è fatto di stoffa ripiena di erbe benedette, mentre su pinnadeḍḍu è di pietra. Il concetto di brebu è confrontabile col lat. verbum, che è la parola sacra per antonomasia. La parola anticamente fu sempre considerata sacra, e nei momenti in cui bisognava ribadire la sua sacralità, perché connessa agli oggetti sacri, essa veniva pronunciata con attenta solennità.
PITTÌMA ‘ricetta di lunga vita’ (Sulcis). Orlando sostiene che è conosciuta ma non più praticata dai guaritori. Era un decotto di cose aromatiche mescolate a buon vino, applicato sul petto a mo’ di cataplasma, in modo da risvegliare le energie vitali. La formula è sconosciuta. Wagner non registra il termine. La base etimologica sta nello stato-costrutto akk. pītu, pittu ‘fagotto, involto’ + immu ‘calore’ (del giorno, contrapposto al freddo della notte). Ma il secondo membro può essere anche immû ‘tavoletta, ricordo’ (riferito a quello che in log. è su brévi, lo scapolare che s’appende al collo per allontanare i mali). Potrebbe essere proprio sa pittìma il nome sardo di quel largo “scapolare” che appare sul petto di molti bronzetti nuragici e nelle statue di Monti Prama.
RUSCIÁRE, rušare log., rusciá(ni) sass.; Puddu dà il significato di ‘sbuffare’: su caḍḍu s’est pesadu a crabitinos ruscende che dimoniu ‘il cavallo s’è messo a saltare piroettando, sbuffando come un diavolo’; sass. mè fradeḍḍu si nn’è andadu ruscendi fogu ‘mio fratello è andato via esalando fuoco (dalle narici per la rabbia)’. La base etimologica è il bab. ruššu(m) ‘dissolvere’ la terra, la persona, il territorio nemico’. A Babilonia lo riferiscono anche alle streghe ed ai loro incantesimi negativi (magia nera).
SABÉGGIA, saléggia ‘pietra nera contro il malocchio’ (Oristanese). Chiamata anche pinnadeḍḍu (vedi). Il termine non è registrato nei dizionari. Sembra di poter individuare l’etimo nell’akk. šâlu ‘to ask’, ‘domandare (salute)’ + egû(m) ‘essere negligente’ verso gli dei (con riguardo agli obblighi morali e religiosi). Sembra di capire che questo genere di scapolare nell’alta antichità, per quanto considerato un mezzo per ottenere salute, fosse visto come ipocrita scorciatoia per non osservare gli obblighi pubblici e privati, trascurati i quali si cadeva comunque nel peccato. Ma per l’importanza della questione è meglio abbinare a questo il termine Sebézi e considerare assieme le due etimologie.
SANTAḌḌI. Dolores Turchi3 scrive che i bimbi venivano protetti, sino al momento del battesimo, «dal demone della sùrbile con il conferimento di un nome particolare. Quando nasceva un bambino si preparava un camicino che doveva essere confezionato rapidamente. Si chiedeva del lino in elemosina e questo veniva filato, tessuto e cucito in un solo giorno. L’indumento ricavato, chiamato camicia “Santaddi”, veniva subito messo indosso al neonato». La studiosa non accenna ad alcuna etimologia. Questa si basa sull’akk. šatû(m) ‘tessere’ un capo di vestiario + adû(m), addû ‘il lavoro compiuto durante una giornata’. Col passare dei secoli ha operato la paronomasia che accomuna questo lemma a quello del paese Santádi.
TUBU. La locuzione sassarese mi fazzi un tubu ‘non mi fa proprio niente, mi fa un baffo’, non tzi véggu un tubu ‘non ci vedo affatto’, e simili, sembra ai linguisti una formazione dello slang, quindi inadatta ad entrare nei dizionari. Per capirne la semantica esatta, nonché l’etimologia, occorre dislocare la nostra comprensione ai tempi antichissimi in cui una persona odiata o mal vista da altri rischiava di riceverne pure il malocchio, con tutti gli strascichi negativi che sappiamo. I nostri avi a tal fine facevano il possibile per non contrariare il prossimo, e se si trovavano nelle condizioni di poter subire il malocchio dovevano per tempo prendere contromisure, ivi compresa la recita di versetti scaramantici. Mi fazzi un tubbu (o tubu) è infatti un versetto scaramantico, che non poteva essere rivolto contro il “nemico” ma invece doveva servire ad ingraziarselo, o almeno a neutralizzarne le cattive intenzioni. Oggi che la religiosità popolare è perduta per sempre, mi fazzi un tubbu equivale, nella semantica attuale, a una frase di sfida, quasi come dire ‘mi fa un cazzo!’. Invece un tempo significava ‘mi rende felice, opera una bontà, mi rende prospero, mi porta benessere’ e simili. Ha base etimologica nell’akk. ṭūbu(m) ‘bontà, felicità, prosperità, contentezza, benessere’. Le frasi del tipo non tzi veggu un tubbu ‘non ci vedo nulla!’ sono nate quando si era già perduto l’antico significato religioso-scaramantico.
UMBRA E FIGU camp. ‘iettatore, menagramo’. I dizionari non riportano tale epiteto, considerandolo un incontrollabile effetto di slang. Ma invece sembra di poter ritrovare la base etimologica nell’akk. umurru (una malattia) + pīgu ‘menzogna, inganno’; come dire che questa persona è ‘malata d’inganni’, o addirittura arreca con sè ‘malattie e inganni’.
UNGUENTU KÍU ‘preparato a base di feci rosse di gallina’ per la cura del cancro epiteliale, chiamato frommigheḍḍas (Cossu 215). Kίu, ghìu, ghìo è termine comune in Sardegna; è persino cognome. Indica il ‘nocciolo polposo di frutto: es. noce’, ‘parte più interna della polpa dell’albero’. Il cognome Ghίo sembra a prima vista incrociarsi con kíu riferito al fico di Kìa (Chia: vedi); ma la sua origine primaria è dal bab. qību ‘comando, affermazione, istruzioni, pronunciamento’ del divinatore, dell’esorcista. Probabilmente è questa la chiave di lettura di unguentu kíu, da intendere come medicamento sciamanico o comunque magico.
Scapolari. Possiamo ben dire che l’uso di un qualsivoglia tipo di scapolare s’accompagna alla stessa nascita ed evoluzione dello spirito religioso, e risale dunque a moltissimi millenni. Dal Medioevo furono i frati carmelitani ad averlo usato consciamente come segno distintivo (un lungo pezzo di stoffa sopra la tonaca, con un buco per la testa), ed assieme ad essi gli altri ordini minori cominciarono a usarlo allo stesso scopo, mutandone il colore. Ma i piccoli scapolari legati al collo, pietruzze, corni, sagome di membri virili, o altro, furono sempre appesi sul petto della gente, sul sterno, in segno apotropaico, e ciò fin dal Paleolitico.
Tra i Cattolici lo scapolare (un rettangolino di stoffa o una medaglia) ha ripreso particolare vigore con l’apparizione della Madonna di Fatima che lo teneva in mano, e i papi non mancano occasione per raccomandarne l’uso, poiché chi muore con esso non patirà le pene dell’Inferno. Esso infatti, per i cattolici, è uno strumento di salvezza, un salvacondotto per relazionarsi con la Madonna (refugium peccatorum), uno spazza-peccati, un redentore pret-a-porter delle masse credenti.
Anche in Sardegna gli scapolari di vario tipo sono sempre in uso dalla notte dei tempi, come attesta la sequela delle etimologie che propongo o ripropongo di seguito.
ANIMÈḌḌA. Ho già analizzato questo lemma nell’elenco precedente.
BELLÉI DE CAḌḌU. Idem.
BRÀIA (perda). Idem.
BRÉBU. Idem.
CORREDDU. Chi l’ha mai detto che il cgn Corréddu corrisponda tout court al sost. correḍḍu ‘cornetto’? I cognomi in -eḍḍu, -ellu non sottintendono alcun diminutivo; è la loro antichità a far presupporre un composto sardiano, il quale autorizza ad esaminare corréddu da un altro punto di vista generativo, ossia dalla base akk. qarnu ‘corno’ + ellu ‘puro, santo’, ‘(ritualmente) puro’: stato costrutto qarn-ellu > *cornellu > corréddu.
Il corno fu sempre un simbolo apotropaico mediterraneo. Anche nell’antichità mesopotamica il corno era raffigurato nelle statuette, nei templi, ed era riferito generalmente alla divinità; ma si ricercava il corno pure nelle forme “a corno” lasciate dall’olio sull’acqua (lecanomanzia). Come traslato indicò pure la ‘forza’ degli umani. In Corréḍḍu dobbiamo vedere il classico “corno” o “cornetto” usato nella scaramanzia, che ovviamente era ‘(ritualmente) puro’.
In Sardegna questo cognome la dice lunga sul vasto uso che si fece di corna sacre fin dal Paleolitico. Molte domus de janas ne sono adorne. Così accadde pure in Oriente. A Çatal Hüyük (Anatolia) – strato VI B, ca. 5900 a.e.v. – fu ritrovata una casa-tempio con decorazioni in rilievo di protomi taurine.4 Non intendo parlare dei numerosi bronzetti nuragici col casco sormontato da lunghe corna, le quali sono l’emblema dell’esercito Shardana impegnato tra i Popoli del Mare.
CURRÙDU. Col passaggio dalle religioni antiche al Cristianesimo, ecco arrivare il capovolgimento di tutti gli aspetti della sacralità. A cominciare dal sass.-log. currùdu ‘cornuto’. Sembra che l’etimo sia legato a quello di groḍḍe ‘volpe’, uno dei tanti nomi apotropaici dell’animale, dai Sardi immedesimato tout court nell’innominabile Diavolo. Ha la base etimologica nell’akk. gurrudu(m), qurrudu ‘mangy, rognoso’, onde *gruddu a seguito di ammutimento della -u-: vedi groḍḍe e grollòri. Sono in forte dubbio se il sardo currùdu (= it. cornuto) derivi direttamente da questo lemma accadico, o se sia più congruo vederci, seguendo la tradizione, un bue, considerato che il bue è castrato e le vacche “lo tradiscono” perché vengono montate esclusivamente dal toro.
DÒM(M)INA log. ‘medaglia, abitino, scapolare’; (Laconi) dòmena; it. dial. dòmini m. ‘breve, involto che contiene reliquie’; sic. dòmina ‘medaglia’. Di queste voci mediterranee s’ignora l’origine, la cui base è il sum. du = ra ‘Dio’, ‘Purezza, Luce immensa’ + mi ‘praise, preghiera, invocazione’ + na ‘stone, pestle; pietra, pestello, piccola stele’. Il composto du-mi-na in origine significò ‘pietra che invoca Dio’. Occorre ricordare che anche gli Egizi parteciparono a questi frasari e s’interposero col loro dio Minh (il dio della Natura, della fertilità). Quindi possiamo tradurre la parola sarda anche come du-Minh-na ‘pietra del Dio purissimo Minh’.
FERRU E CUAḌḌU. Ho già trattato questo lemma.
FICCA, fìga, sicca è la ‘vulva’, ed è pure un segno apotropaico a forma di vulva. La base etimologica sta nell’akk. pīqu o, indifferentemente, sīqu ‘essere stretto’, sūqum ‘stretta via di penetrazione, apertura’, ma principalmente peḫû(m), paḫû ‘chiudere ermeticamente, sigillare’. Da quest’ultimo lemma accadico abbiamo anche la forma sarda raddoppiata pacciόcciu ‘vulva’ (vedi). Ma vedi, per la complessità socio-religiosa del lemma, anche friscas e Siccu.
FRISCAS orist. ‘ficche’ (Cossu 306). Sappiamo che le ‘ficche’, ossia l’inserimento dei pollici tra gli indici e i medi, chiudendo il pugno, erano segno apotropaico. Ancora oggi in Sardegna vengono fatte quale segno scaramantico, per evitare un possibile malocchio o altre sventure. I linguisti italianisti affermano che la ficca viene fatta in senso di ingiuria e di scherno, e che deriva dal lat. ficus ‘fico’. Ma sbagliano in ambo i casi, intrisi come sono di mera cultura recente, e per giunta esclusivamente latineggiante.
Per ficca, vedi comunque il lemma a suo luogo (ed vedi anche sicca). Quanto a friscas, la base etimologica è l’akk. per’u, perḫu ‘bud, shoot, gemma, germoglio’, scion, rampollo, descendant’ + isḫu(m) ‘assegnazione’ di offerta. I due termini accadici, uniti in stato costrutto e soggetti a metatesi, dànno un quadro tenebroso e allucinante per noi moderni, ma sembra che lo stato costrutto per’-isḫu > fr-isca sia da interpretare nell’unico senso consentito, ossia come ‘assegnazione, destinazione del primogenito (bud, shoot, scion) alla divinità’. Questa è una delle tante dimostrazioni, ottenuta per via linguistica, del fatto che gli antichi Semiti destinavano i primogeniti alla divinità. Però non è affatto detto che la destinazione del bimbo fosse cruenta. Poteva essere soltanto considerato un nazireo.
A parte il grossolano errore dei linguisti italianisti, resta il fatto che oggi la Sardegna mostra, col significato e la gestualità delle ficcas, delle siccas e delle friscas, un grado conservativo notevole delle sue tradizioni, tuttavia non bastevole a collegarci più chiaramente ai tempi del sacrificio dei bambini. Sembra che il modo attuale di manifestarsi della tradizione sarda possa essere interpretato alla luce dell’intervento repressivo dei Romani, che già per proprio conto in tempi storici avevano cancellato dai riti il sacrificio dei bambini. Ovviamente, la memoria storica della Sardegna al riguardo fu vie più cancellata dalla predicazione cristiana. Ma vedi ficca.
GIUÀLE PICCÁDU. Ho già analizzato questo lemma nell’elenco precedente.
GUÁITA. Ho già analizzato questo lemma.
LICÒRNIA. Ho già analizzato questo lemma nell’elenco precedente.
MADÁLLIA. Idem.
PINNADEḌḌU. Idem.
PUNGA ‘amuleto’, anche pungheḍḍa ‘amuleto, talismano’. È un minuscolo cuscinetto contenente varie specie di erbe utili contro il malocchio. Si può cucire o appendere al vestito, o appendere al collo. Wagner, considerando che l’amuleto sardo così chiamato è contenuto in una piccolissima sacchetta rettangolare, lo collega all’it. ponga ‘borsetta’. Il collegamento sembra valido, ma non in termini di dipendenza. Ambo i termini sardo e italiano hanno base etimologica nell’akk. pūgu(m) ‘rete’, oppure nell’agg. pungulu, puggulu ‘molto forte, massivo’ (con riferimento al loro effetto magico). Si noti che il termine fu noto pure ai Bizantini.5
SABÉGGIA. Ho già analizzato questo lemma nell’elenco precedente.
SANTAḌḌI. Idem.
SINICÙRZIS ‘amuleto’: «a Gavoi alcuni amuleti erano chiamati sinicurzis, con evidente richiamo alla luna» (Turchi 82). La Turchi ha ragione. Infatti l’etimologia del termine è da individuare in un composto dall’akk. sînu ‘luna’ + kurṣû(m) ‘catena’, col significato complessivo di ‘catena della Luna’.
1 Lo sciamanesimo in Sardegna 135
2 Maschere, Miti e feste della Sardegna, 118-9
3 Lo sciamanesimo in Sardegna 215
4 Mario Liverani, Antico Oriente storia società economia, p. 73
5 vedi Paulis NPPS 106-107