Carnevale in Sardegna : Il turpiloquio, la prostituta, la maschera, il riso, le traccas

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«Le donne ateniesi, mentre si recavano su dei carri a celebrare i misteri, si scambiavano ingiurie, e queste erano dette le ingiurie del carro. Si ingiuriavano l’una con l’altra in quanto si credeva che, quando Demetra giunse per la prima volta ad Eleusi in preda all’angoscia cercando Kore, Iambe, la serva di Celeo e Metanira, coprendola di vituperi, la spinse a sorridere, facendole anche condividere il cibo, che era il ciceone, ovvero farina macinata fine, impastata con acqua e bollita».1 Altri scoli antichi ad Aristofane (Pluto 1014) scrivono quasi le identiche parole.2

KORE, Κόρη, è inteso come secondo nome di Perséfone, figlia di Demetra; invece è soltanto un appellativo. Il nome comune kόρη indica una ‘fanciulla, donzella, figlia’ collegata al masch. κόρος ‘bambino, fanciullo, figlio’; il corrispettivo verbale è rappresentato dal lat. creo, cresco. La fase più antica del termine è nelle lingue semitiche, da cui ricaviamo l’akk. ḫūru ‘son’. Ma è assurdo che Kore significhi per antonomasia ‘bambina, figlia’. In realtà, Kore non corrisponde a questi radicali. La base etimologica sta nel sum. kur ‘oltretomba’ + e ‘entrare’, e significa ‘Colei che entra nell’Oltretomba’.

CICEÓNE. Si capirà il significato profondo di questo lemma se prima indaghiamo il log. cicciones, ciucciones, sass. ciggiòni sing. e pl. ‘specie di gnocchi’. La sapiente manualità delle donne sarde consente di creare uno gnocco ogni secondo (tempo impiegato tra strappare un pezzetto dalla massa impastata, e imprimergli un colpetto di pollice su una superficie ruvida o rigata), una velocità straordinaria e una calibratura artigianale che fanno invidia all’attuale industria meccanizzata dei “bottoncini” (malloreḍḍus).

A quanto pare, la base etimologica riguarda proprio la velocità di strappo ed il rotolamento, esaltate dal raddoppiamento sumerico ḫiḫ-ḫum (< ḫum ‘to snap off, to run, to be in motion; rompere con un colpo secco, correre, essere in movimento’). I minuscoli gnocchi sortiti dalle mani muliebri rotolano lontani sulla tavola, essendo di forma ovoide.

La rivelazione di questa etimologia obbliga però a supplementi di riflessione sul gr. κυκεών. Su di esso si sono impegnati numerosi esegeti, senza giungere a soluzioni convergenti; talché ancora oggi si propende a immaginarlo come bevanda generica (droga? lassativo? corroborante?; con quale composizione?: contiene pasta? o segale cornuta? od olio di ricino?).

I Greci antichi scrivevano κϋκεών e intendevano il vino di Pramno cui sopra grattavano formaggio di capra ed aggiungevano un pugno di farina (Iliade XI, 624-641); talora aggiungevano altro (Ippocrate, 390). Gli indoeuropeisti affiancano il nome greco al verbo κυκάω ‘mescolo’, non sapendo che corrisponde al bab. ḫīqu ‘mixed, diluted’. Non abbiamo dubbi che la base babilonese fu produttiva, e non è casuale che riappaia in Giona 4, 6-7, dove è intesa però come Ricinus communis: kīkaiòn, קִיקָיוֹן. E così siamo già a tre miscugli, l’uno rafforzante (cicciones, con base sumerica), l’altro rafforzante-esilarante (v. Iliade), il terzo purificante (v. Giona). A quanto pare, la terza forma del miscuglio fu peculiare probabilmente ai soli Ebrei. La Sardegna del nord è interessata al primo prodotto, quello dal nome sumerico, il quale riceve più lumi se confrontiamo il pasto offerto ai pellegrini dei Misteri Eleusini col pasto offerto ai pellegrini sardi, es. a quelli di S. Francesco di Lula, anche se qui il miscuglio è chiamato filindéu, una pasta (detta altrove fidelínos, ‘cibo dei fedeli’) composta da finissimi fili prodotti con celere arte manuale dalle pie donne dedite al servizio novenale del santuario campestre. Su filindéu, come sos fidelínos (o findelínos), ma suppongo pure il ciceone, è servito immerso in brodo di pecora o d’altro. Pare evidente che fidelinos (findelinos) e filindéos siano l’identico prodotto, ma a nord, causa le solite divisioni tribali dell’antichità, sono detti cicciònes (nome conservato anche in Grecia).

È singolare che gli antichi scrittori greci ci abbiano lasciato le testimonianze dei Misteri senza però riuscire a restituirci le ragioni profonde di quelle azioni. È ancora Aristofane (Rane 372-5; 383-93) a riagganciare il mito di Demetra:

«Ognuno dunque s’avanzi da uomo / nel fiorito grembo / dei prati battendo il piede / e beffando / e scherzando e motteggiando… …Suvvia, nuova forma di inni levate adornando con canti divini / la dea Demetra, regina feconda delle messi. / Demetra sovrana dei sacri / riti, sta’ qui insieme a noi / e proteggi questo coro che è tuo; / fa’ che al sicuro tutto il giorno / io possa scherzare e danzare. / E che io dica molte cose ridicole [a Demetra] / e molte altre serie, e che / dopo le risa e le beffe / dovute alla tua festa / io sia coronato vittorioso».

Aristofane insiste sulla componente beffarda e ridanciana, sapientemente gestita nelle processioni muliebri dei misteri; ed Esichio introduce persino una figura fissa, la maschera, anzi le maschere chiamate Ghefiristaί (‘coloro che deridono dal parapetto’) perché durante la processione dei misteri si siedono in veste di prostitute sul parapetto del ponte; «…per altri non si tratta di una donna, ma di un uomo incappucciato che, standosene là seduto nel corso dei misteri di Eleusi, indirizza battute grossolane verso i cittadini illustri, indicandoli per nome». Pertanto la γεφυρίς è per antonomasia la ‘prostituta dell’argine (γέφυρα)’.

Nelle contumelie della prostituta ridanciana ritroviamo le caratteristiche delle prostitute che compaiono come maschere del Carnevale sardo (Maria Burra, Maria Burraja, Maria Fresada, Maria Lettolada).

Altra componente delle processioni eleusine sono i carri, come abbiamo visto. Essi non erano propriamente necessari alla processione, poiché la distanza tra Atene ed Eleusi era meno di 8 km pianeggianti. Ma la presenza dei carri era imprescindibile quale componente scenografica fissata da tempi arcaici. Mentre dai ponti le “prostitute” deridevano gli optimates; entro il carro le donne – e soltanto le donne – s’ingiuriavano a vicenda, rispettose di un copione mordace di botta-risposta sul modello dagli antichissimi canti amebei. Oggi in Sardegna i carri (is traccas) risaltano quale quinta scenica delle processioni in onore dei santi locali (vedi per tutte le processioni di S.Efisio e di S.Antioco, dove le donne trascorrono il tempo cantando a trallalléra, forma edulcorata dei canti amebei che entro le traccas dovettero vigoreggiare fino a tempi recenti); queste traccas non sono altro che la variante del grande carro allegorico fulcro di tutti i carnevali sardi ed italici, sul quale oggi salgono vari personaggi mascherati, per provocare il riso mediante l’imitazione caricaturale e triviale di alcuni aspetti degli uomini potenti. Is traccas (e lo stesso carro di carnevale) si ritrovano già nell’antico Egitto, una nave carica di attori chiamata in latino Navigium Isidis, antesignana dei carri allegorici italici, seguita da gruppi mascherati (Apuleio, Metamorfosi XI). Si tramandava che tale nave venisse messa in mare l’8 marzo per festeggiare l’inizio primaverile della navigazione; ma in verità la navigazione iniziava dopo; il navigium perpetuava invece un rito orfico sempre uguale a se stesso, dove la nave replica per certi versi la barca di Caronte che traghetta i dannati, ed anche la barca che traghetta in Cielo l’anima del faraone, del re, degli optimates, nonché le anime pie. Insomma, la barca era il ponte del trapasso, quello che segna il confine tra la vita e la morte, il limes dove si celebra l’eterno rito della morte e resurrezione, la palingenesi che fa risorgere il corpo (Teopompo, Eraclito) quale nuovo recetto dell’anima che, una volta risalita all’Unità Cosmica (il Noũs), tosto se ne stacca per discendere in altro corpo (metempsicosi), un corpo umano od animale, secondo i meriti.

1 Giovanni Tzetzes, ad Aristofane, Pluto 1013.

2 Vedi Scarpi RM I 135.

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