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BATTILÉḌḌU. Nel carnevale di Lula è la vittima pungolata, torturata dai suoi guardiani. Tra le corna porta il rumine capovolto del caprone. Il volto tinto di nero e rosso. Appeso al collo un omaso pieno di sangue misto ad acqua che un tempo veniva punto con lesine, affinché il sangue scaturisse lentamente. La base etimologica è l’akk. (w)atû(m) ‘trovare, scoprire’ qualcosa di perduto + ilittu ‘nascita, scaturigine, origine’ (cfr. lat. Ilitia, dea dei parti): wat-ilittu = ‘che ricerca la rinascita (della natura)’.
BUTTÙDOS. Nel carnevale di Fonni sono i guardiani di s’Urtzu (vedi), la vittima sacrificale che indossa la pelle di caprone che ricopre anche la testa. Sos Buttùdos lo tengono al laccio e lo sospingono pungolandolo e facendolo soffrire usque ad mortem; essi portano il gabbano nero abbottonato ed il cappuccio calato sulla fronte: qualcuno dice che mimano gli spiriti maligni che tramano la morte della Natura. Base etimologica in tal caso è il sum. utte ‘mondo infero’ + ud ‘demone della tempesta’ = utt-ud ‘demone della tempesta che conduce agli Inferi’. Invero sos buttùdos non sono lì per una processione luttuosa, ma mimano gli spiriti dell’abbondanza che conducono a morte una Natura non più produttiva. Si noti che bottùdu a Nuoro è il ‘montone non castrato’ (Spano). Quindi la base etimologica è l’akk. bu’’û ‘ricercato’ + ṭuḫdu ‘plenty, abundance’. Il composto in origine significò ‘(montone) ricercato per l’abbondanza’.
COINTROTZA. È la tipica danza carnevalesca di Aidomaggiòre. La sua melodia è sinonimo di Carnevale. Viene suonata dalla fisarmonica (che intona la melodia), dal triangolo (che dà i toni alti) e dal tamburo (che ritma i tempi). Questi tre personaggi già nel primo pomeriggio di Giovedì e Martedì Grasso iniziano a muoversi per le vie del villaggio, trascinando via via con sé le varie maschere che escono dalle case, creando in poco tempo una fiumana di gente mascherata guidata dal trio. Il trio rimane attivo per tutta la sera, animando le danze e i canti sino al momento notturno in cui il pagliaccio di Carnevale viene arso sul rogo.
La base etimologica di cointrotza sembra il composto akk. ḫūdu ‘happiness, pleasure’ + in (valori uguali a quelli sardi e mediterranei) + tūrtu ‘rovesciamento’. Col passare dei secoli il composto ḫūd-in-tūrtu ‘attuare il Carnevale in giocondità’ è divenuto cointrotza.
La traduzione qui data si relaziona all’akk. tūrtu intendendolo proprio come Carnevale (nel suo senso arcano di rovesciamento dei valori sociali). Affinché si capisca meglio, invito a leggere l’etimologia di Carnevale, Carrasegare, Carrasciale. In tal senso, cointrotza risulta essere un termine molto arcaico.
COLONGANOS. Maschere carnevalesche di Austis ricostruite dalla descrizione del gesuita B.Licheri (1700). Avevano alle spalle un carico di ossi, anziché campanacci, e sospingevano s’Urtzu. Base etimologica il sum. ḫul ‘to rejoice’ + gana ‘field’: ḫul-gana ‘godimento dei campi’ (l’epentesi della sonante è fenomeno tipico dell’evoluzione dei vocaboli sardi non più compresi nella versione originale). Oppure base etimologica sembra il sum. ḫulu ‘distruggere’ + ungal ‘re, despota’: ḫul-ungal significherebbe ‘annientatore del despota’.
GRÁSTULA. Parca che tesse il filo dell’esistenza e s’appresta a tagliarlo. Presente nel Carnevale normalmente come Filonzàna ‘colei che fila’, anzi, ‘Fata che fila’ (Giana, Zana è la fata). Nel Carnevale di Gadòni è chiamata Grástula < akk. ḫarāṣu(m) ‘tagliare di netto’, ‘rompere con un colpo’ + tulû(m) ‘capezzolo, mammella’ = ‘(colei che) stacca il nutrimento’ (stato costrutto ḫ[a]rāṣ-tulû).
Grástula non è da confondere con cràstula ‘pettegola’ < akk. karṣu ‘calunniare’ (sum. kar ‘insultare’) + sum. tul ‘pozzo’ = ‘ruffiana del pozzo’, così detta perché in origine le donne convergevano al pozzo del villaggio, dove potevano scambiarsi le informazioni.
ISÉRI. È il nome dell’antica maschera carnevalesca di Orani. Il nome è tutto un programma. In accadico significava ‘penis’ (išarum), il quale, confuso con l’aggettivo išeru ‘giusto, legale’, indicò proprio il grande fallo che veniva portato a spalla nelle processioni fertilistiche per ripristinare gli equilibri naturali.
MARCHI è cognome, anche nome personale: Marcu. L’etimologia di Marcu, Marchi ha la base sum. mar ‘vagliare, spulare, separare dal grano’ + ku ‘arare’. Mar-ku raffigura quindi il Dio della Produttività, sovrintendente all’aratura dei campi di grano e alla trebbiatura del cereale. Non è un caso se a santu Marcu in mezza Sardegna, a cominciare dal Marghine, si dedicano i pani più belli ed elaborati dell’anno (che sono benedetti dal prete), e che tale “santo” sia celebrato all’inizio del Carnevale, segno inequivocabile che un tempo era identificato tout court col Dio della Natura.
MARIA BURRA. È una variante logica, non fonetica, di Maria Farranca, nota come tale in qualche paese della Sardegna. Per comprendere bene la questione invito a leggere più oltre al lemma Maria Farranca, nel quale si nasconde, sotto varie metamorfosi, la qualifica di un’alta sacerdotessa preposta a intonare, in epoca precristiana, gli inni in onore dell’Altissimo. Dovette essere una donna con voce da soprano. Farranca è infatti un composto sardiano da akk. pāru(m) ‘inno’ a Dio + anāḫu ‘cantare un inno inḫu’, stato costrutto pār-an(ā)ḫu > farr-anca.
Quanto a Maria Burra, essa fu, sino a un secolo fa, una curiosa maschera carnevalesca di Orgòsolo. «Chi si mascherava in questa maniera si avvolgeva con una vecchia coperta, sa burra, e andava in giro con un cercine in testa, sul quale portava una grossa zucca. In mano teneva una specie di mestolo di sughero col manico lungo: su guppu. Viene il sospetto che la Maria Burra, detta altrove Maria Burraja, Maria Fresada o Maria Lettolada, raffigurasse le antiche sacerdotesse-maghe che così andavano vestite, come si può rilevare da alcuni bronzetti nuragici, ove effettivamente sembrano avvolte da una coperta. La zucca in testa, piena d’acqua, dovrebbe ricordare l’acqua della salute che esse distribuivano, anche se durante la mascherata carnevalesca la zucca veniva riempita di vino»1.
Prima d’addentrarmi nella questione etimologica, ricordo che Wagner cita burra, oltre che come ‘coperta grezza’, anche come posto dove dorme la scrofa (Berchidda). Casu la applica a un ‘covo con qualche strato di paglia o di frasche, che si prepara per le scrofe che devono figliare’; burra de polcábru ‘covo del cinghiale’. Per estensione si dice di una partoriente: comare est in burra ‘la comare ha partorito, è a letto’. Wagner ricorda i similari usi galloromanzi, che significano pure ‘capanna’ e ‘porcile, stalla di vacche’ e simili. Secondo Wagner il termine sardo ha origine catalana, ma non indica la base su cui poggia la parola catalana.
In realtà burra è termine mediterraneo, che ha base nel sum. bur ‘sacerdote’ > akk. burrû ‘una servitrice del tempio’ ossia la prostituta sacra. Quindi, tornando alla maschera citata dalla Turchi, si può senz’altro pensare a certe sacerdotesse sardiane raffigurate nei bronzetti, con la differenza però che quanto apprendiamo dalla viva maschera di Orgòsolo va interpretato come armamentario dell’antica prostituta, ossia: la ciotola per ricevere l’obolo che poi viene devoluto al tempio; la fiasca contenente appunto l’acqua, necessaria per le abluzioni post-coitum; il manto utile a creare lo strame dove giacersi.
Il fatto che burra (nome comune) e Burra (epiteto di una maschera) siano accomunati da un uso generale, sempre vivo nell’isola, riferito alle scrofe ed ai porcili, lascia intendere quanto fosse stata forte nel Medioevo la condanna inesorabile lanciata a tutto campo dal clero bizantino contro la prostituzione sacra, viva in Sardegna secondo l’uso semitico.
MARIA BURRÀJA. È una variante nominale, adottata in certi villaggi, di Maria Burra (vedi), nota maschera di Orgòsolo.
Ho spiegato che Burra rappresenta, nelle fogge che le vesti carnevalesche riescono a realizzare al fine di rappresentare il laidume morale, l’antica prostituta sacra. Qui va precisato che la variante Burràja aggiunge a Burra ‘prostituta’ l’aggettivo di ‘strana, stravagante’ (akk. aḫû), il che s’addice perfettamente a una maschera carnevalesca.
MARIA FRESÀDA è un personaggio carnevalesco. È ovvio che l’epiteto Fresàda è una paronomasia, poggiante sull’akk. persu ‘suddivisione’, perṣu ‘breccia’, che calza bene con l’epiteto carnevalesco, evidentemente insistendo in modo scurrile sulle qualità di questa donna, già sottolineate da epoca bizantina. Maria Fresàda significò ‘Maria Sgarrata, Spaccata’ o ‘Maria Sforacchiata, Sbrecciata’, con riferimento alle parti intime. Un tempo dovette essere una sacerdotessa che coordinava la processione dei Misteri.
MARIA LETTOLÀDA. È nota in qualche paese della Sardegna come personaggio carnevalesco. In epoca bizantina, evidentemente, questa alta sacerdotessa subì l’onta di essere cancellata dal culto, cui subentrarono ricordi orditi di lazzi, di sarcasmi, di distorsioni, di capovolgimenti, onde Maria Farranca (che citerò tra i sacerdoti delle acque), altro epiteto della Lettolada, divenne il ragno che acchiappa le mosche, una strega che aggancia i bambini con adunco braccio d’acciaio, li tira nel buco e li divora, un essere orrido abitante un pozzo munito di tunnel, che la costringe a procedere curva e ingobbita. Maria Farranca fu detta pure Maria Burra, Maria Burràja, Maria Fresàda, oltreché Maria Lettolàda. Ma l’epiteto Lettolàda non ha niente da fare col sardo lentólu ‘lenzuolo’. Lettolàda è un composto sardiano con base nell’akk. letû(m) ‘essere trascurata’ + lâdu(m) ‘curvare’, epiteto azzeccato per questa “strega” curva e malandata.
MARRATZÁIU. Nel carnevale di Lodè è la solita figura che in altre parti, come a Mamoiàda, è impersonata dai Mammuthònes. Egli pertanto è incappucciato e carico di campanacci. Dolores Turchi scrive2 che Lodè ha sas maskeras nettas, un contraltare de sas maskeras bruttas che caratterizzano tutto il carnevale barbaricino. Sas maseras nettas sono figure androgine che si muovono in coppia e indossano a un tempo indumenti maschili e femminili. Portano un lungo copricapo avvolto da un fazzoletto del costume femminile, le cui frange coprono il volto.
Per l’etimo di marratzáiu occorre cautela. Marratzáju è la figura dell’uomo dei campanacci, che in Barbagia rappresenta un animale che corre avanti con passo zoppo, malfermo, inseguito dagli issoccadores (lanciatori di lazos) o trattenuto saldamente da feroci guardiani che lo pungolano usque ad mortem. Nel marratzáiu sembra di vedere, almeno in origine, un essere ferito a morte, che corre alla perdizione. Interpretato in tal guisa, marratzáiu è termine sardiano con base nell’akk. marraṣu ‘malaticcio, stentato’. È chiara in queste maschere la mimesi della morte e resurrezione della Natura.
MARTÌNI. È il “re” del Martedì Grasso, ossia il pagliaccio portato al rogo l’ultimo giorno di Carnevale. Tale nome sussiste in certi villaggi barbaricini e ogliastrini, mentre in altri è chiamato, con nome più ampio, Martiperra, Martisberri, Martis Sero (vedi).
A prima vista il nome sembra adombrare un normale Martino. Ma la presenza (o co-presenza) degli altri tre citati fa sussistere il dubbio della corruzione o della riduzione. Di per sé, comunque, Martìni potrebbe essere un composto sardiano, un appellativo legato al Dio della Natura e della Rigenerazione, basato sull’akk. martu ‘un albero, un palo (sacro), un phallos’ + suffisso sardiano -ínu. Va da sé che anticamente questo personaggio aveva forma di un grosso phallos portato in processione durante i Misteri Adonii.
MERDÙLES. Sono le maschere carnascialesche di Ottana. Tutte le maschere di Ottana vengono in genere chiamate Merdùles. Ma su Merdùle vero e proprio indossa bianche pelli di pecora (sas peḍḍes), porta in capo un nero fazzoletto muliebre e sul viso una nera maschera antropomorfa (sa caratza) in legno di perastro; sovente questa maschera impassibile è resa deforme da bocche storte, dentacci o nasi lunghi o adunchi. Su Merdùle tiene in mano un nodoso bastone (su matzuccu) e una frusta di cuoio (sa soca). Ha gambali in cuoio e calza le solite scarpe da pastore. Nella rappresentazione scenica egli tiene legato il bue (su bòe, la seconda maschera) e in disordinato e tumultuoso corteo lo sospinge ma cerca di limitarne la furia. Su bòe si ribella e si scaglia contro il padrone, tentando goffamente di moderarne le aggressioni; sbuffa, scalcia, infine si getta a terra sfinito, esanime. La terza maschera è sa filonzàna, ‘la parca’ che tesse il filo dell’esistenza.
Qualcuno presume che il nome Merdùle derivi, sic et simpliciter, da merda; altri, con più acume filologico, pensano ad origine nuragica, da mere ‘padrone’ + ule ‘bue’ (‘padrone del bue’). Così anche Ugas 242, precisando l’antichissima origine da Merre. Ma in Sardegna Merre è la Prima Essenza, da sum. Merre riferito esplicitamente a Dio Unico Onnipotente: me ‘essenza divina che determina l’attività del cosmo’ + re ‘quello’ (Mer-re ‘Quello della Prima Essenza, l’Edificatore dell’Universo’). Quindi è azzardato vedere in Merre un po’ tutti gli ecisti proto-sardi, a cominciare da Jòlao, che Ugas identifica nel re degli antichissimi distretti tribali e cantonali d’età nuragica e pre-nuragica. Egli ha sbagliato di poco: non era il re archetipico ma il Dio archetipico, la Prima Essenza.
La base etimologica di Merdùle sta a sua volta nel sum. me ‘battaglia, combattimento’ + er ‘lutto, compianto’ + dulum ‘tristezza, tormento, dolore’, ‘duro lavoro, fatica’: me-er-dulum, composto paratattico. Il significato sintetico sembra essere ‘combattimento, compianto, tormento’ (che emblematicamente sono gli aspetti dominanti nell’impegno dell’uomo a procacciarsi il pane). Le tre maschere citate sono gli attori di questa pantomima, e ognuna impersona uno degli aspetti qui messi in evidenza.
MORO. A Bosa i Giolzi sono tanti quanti sono gli uomini partecipanti al Carnevale. Incappucciati e ammantati da un lenzuolo, viso nero, corrono in gruppo da una parte all’altra fermandosi per illuminare con un lampioncino la zona genitale delle donne, gridando Giòlzi!, Giòlzi! Giòlzi moro!, allusivo. Moro < akk. mûru(m) ‘giovane toro’ riferito al Dio della Natura (non a caso è anche cognome sardo, e pure mediterraneo ed europeo: cfr. Tommaso Moro in Inghilterra). Quindi Giòlzi-Moro!, gridato scoprendo i genitali femminili, è una auto-presentazione (in antico i giovani presentavano la propria virilità in qualità di ‘giovane toro’).
MURRONÁRZOS (Maiali che grufolano) a Olzái sono maschere carnevalesche. È verosimile che un tempo per il Carnevale ci si mascherasse esclusivamente col muso di cinghiale o di porco. Questa ricostruzione è importante: nell’alta antichità era il cinghiale (ed il maiale) l’emblema del Dio della Natura, perché è dal grufolare dei cinghiali e dei maiali che l’uomo imparò a costruirsi l’aratro.
Murru ‘muso di cinghiale o di porco’ < akk. murrûm ‘uno che scopre, che scoperchia’. Quindi sos Murronarzos sono i seguaci del Dio della Natura, coloro che rivoltano le zolle operando la rinascita annuale della fertilità e della vegetazione.
PITANU. A Seùi il 19 gennaio si fanno i falò di san Sebastiano, notissimo santo che in Sardegna è detto Pitanu. L’amico Dennis Mura mi scrive. «la radice Pit- sta per padre, e Anu sappiamo benissimo che é il Dio del cielo. In quell’occasione il grande fuoco viene alimentato tutto con s’erba e santa Maria, che produce la tipica fiamma gialla come per riprodurre un sole in miniatura; davanti a quale la maschera di Seui fa l’ inchino in segno di adorazione e devozione».
Ciò che scrive Dennis Mura non lo sapevo ed è della massima importanza. Sapevo del festeggiamento di santu Pitanu in tale data ed ho sempre intuito che Pitanu era l’Alter Ego di S.Antoni de su Fogu. Ora finalmente, grazie anche alla cerimonia descritta da Dennis, capisco perché. Infatti Pittanu è un epiteto, non un nome: epiteto del Dio Sommo nella sua epifania come Dio Sole. Questo nome salta all’occhio come ennesima storpiatura operata dai preti bizantini durante i “secoli bui” del Medioevo sardo. Pitánu va scomposto, come tutti gli epiteti, in due parti. Ma la prima parte non è dal greco pit- ‘padre’ poiché, purtroppo, la Sardegna non ebbe mai gli influssi greci che altri popoli italici hanno avuto. Pit-anu invece ha basi totalmente accadiche, da pītu ‘first stride, primi allungamenti del passo’ + Anu ‘Dio Sole, Dio sommo del Cielo’. Quindi Pitánu significò in origine ‘Sole che allunga il passo’. Segno più palese non c’è per indicare che l’apertura del Carnevale e tutte le cerimonie collegate non sono altro che un periodo di tripudio per il Dio Anu che fa piovere e che risplende sempre più a lungo.
PORCU ‘maiale’, non è un caso ch’esso sia il cognome più espanso in Sardegna. Dovrebbe essere il contrario, anzi non dovrebbe nemmeno esistere, vista la fama ripugnante che l’animale si porta appresso da millenni. Ma invero su porcu fu da sempre considerato l’effige del Dio della Natura. La base etimologica sta nel sum. bur ‘distribuire, spargere (il fertilizzante)’ + ku ‘aratro’ = ‘aratro fertilizzante’. Per questo motivo nell’alta antichità ai figli veniva dato tale nome privilegiato, in segno di buon augurio.
PORCEDDU, Porcedda, Porcella, Porcellu, Porcelli, Porchedda, Porcheddu, Porqueddu sono la pletora di cognomi sardi che s’accompagnano al capostipite Porcu. La base etimologica sta nel sum. bur ‘distribuire, spargere (il fertilizzante)’ + ku ‘aratro’ + akk. ellu ‘puro, santo, sacro’ = ‘Sacro aratro fertilizzante’.
PRETISTU. A Sòrgono s’Urtzu pretistu è il solito personaggio carnevalesco altrove detto semplicemente Urtzu (vedi). A Sòrgono per pretistu intendono ‘testardo irriducibile’, altrove è ‘uno che va in cerca di bisticci, di scontri’. Pretistu sembra avere basi molto arcaiche, quindi può essersi un po’ corrotto. Penso al sum. piriĝ ‘leone’ o anche ‘toro selvaggio’ + teš ‘orgoglio’ + tu ‘battere’. Il composto originario piriĝ-teš-tu (poi metatesizzato, il che determinò anche la caduta della sonante -ĝ-), dovette significare ‘toro orgoglioso che mena botte’.
RATANTÌRA, arratantìra: era in origine la processione carnascialesca dei pescatori di Cagliari, che nelle notti di Carnevale giravano mascherati per le vie, cantando e schiamazzando. L’ultimo giorno portavano in processione il solito pupazzo, che infine veniva bruciato3. Ratantìra è termine antichissimo con base etimologica in forme accadiche: ratātu ‘tremare’ di persona o parti del corpo; ratītu (una malattia che dà fremiti, tremori) + sum. ir ‘potenza’: significato ‘potenza dei fremiti’ o ‘fremiti della potenza (sessuale)’. La mimica dei pescatori doveva essere quella di fremere con aggressiva insolenza, com’è tipico (e lo fu di più nel passato) per tutte le maschere maschili, le quali nell’alta antichità inneggiavano alla dea (al dio) della fertilità e quindi mimavano il possesso di tutte le donne che si trovavano a passare o ad assistere alla sfilata.
TRAVÉRI, anche travanéri (Aidomaggiore). La maschera carnevalesca cui ci riferiamo ha degli indumenti privi di originalità tra le maschere sarde, essendo in mutande + camicia, oggetti accomunabili alla volgarità plebea delle maschere sciatte. Ciò che ne connota la tradizione barbaricina è quel nereggiarsi il viso col tizzone. Ed è tipico della Barbagia (e paesi limitrofi come Samughéo) il volere apparire in questo modo. Ma qui sembra di vedere nel viso fuligginoso del traveri/travaneri l’omologazione recente di una maschera che millenni addietro dovette essere totalmente colorata, a cominciare dal viso. Travéri infatti sembra avere come base etimologica l’akk. tarāpu ‘essere coperto di colore, essere dipinto’ (con successiva discrezione della prima -a- dal corpo del membro). A meno che non si voglia spingere sino al dovuto l’immaginazione e, sempre discendendo nella notte dei tempi, allorché la nudità non era quell’oltraggio al pudore che oggi sappiamo, leggere una più compiuta etimologia composta da tarāpu ‘essere coperto di colore, essere dipinto’ + erû(m) ‘essere nudo’. Col che andremmo a scoprire che travéri in origine era una maschera totalmente nuda ma anche totalmente colorata (in modo che pure le pudenda venissero ridicolizzate, allontanandole dalla normalità).
URTZU è una maschera carnevalesca zoomorfa di Samughéo. Oggi la maschera si presenta con la testa di caprone nero, e per attuare la pantomima carnascialesca indossa anche un’intera pelle di capro (nero), correndo per le vie del paese in cerca di donne con le quali, afferratele, imita il coito. Tenuto da una fune alla vita, il suo furore è regolato da s’Omadore (‘il domatore’), l’uomo-animale che indossa, sotto la maschera, un fazzoletto muliebre, e che cade a terra fingendo una sorta di passione che precede la morte (inversione dei ruoli). Oltre a questa coppia abbiamo i mumuthònes, vestiti di pelle di capra, copricapo di sughero sormontato di corna caprine, i quali mimano lo scornarsi delle capre e danzano attorno alla coppia urtzu-omadore e, muniti di grosso bastone, producono il frastuono dei sonaggios, i solidi campanacci portati in spalla. Urtzu deriva dal bab. urṣu ‘tormentare’ (perchè tormentato dal desiderio e per converso anche dal domatore), o uršu ‘macchia nera’ (infatti è integralmente nero), o uršu ‘desiderio’ (per il furore sessuale impersonato). In sumerico Ur-zu è un antroponimo beneaugurante.
THURPOS. Sos tzurpos sono le famose maschere del Carnevale di Orotelli, totalmente nere, vestite con pastrano tessuto con lana di capra nera, incappucciati di nero, il viso nero di carbone.
Il procedere dei Thurpos (Tzurpos) è zoppicante, simile a quello dei Mammuthones di Mamoiada; nella coppia il primo thurpu imita l’animale che scappa mentre l’altro thurpu lo insegue e lo prende al laccio. La base etimologica è il bab. ṭurpu: ‘sequestrare’. Ma a ben vedere concorrono anche altre forme e significati che tendono a fondersi. C’è pure il bab. šurpu(m) ‘burning, incineration (of wood); firewood, combustible’, ossia ‘bruciatura, incinerazione di legna; legna da ardere, combustibile’. È esattamente la figura che appare nel travestimento del thurpu: un ‘tizzone’ ambulante.
In ogni modo va sottolineato che sos thurpos sono delle maschere aventi finalità religiose derivanti tout court dall’area babilonese. Paolo Matthiae4 ricorda che «forme particolari e frequenti di preghiere sono quelle che accompagnano atti liturgici, come i sacrifici e le pratiche divinatorie, e tra questi sono assai importanti ed estese le serie denominate Maqlu e Shurpu, che si dovevano recitare in occasione di pratiche magiche vertenti sulla combustione». Da quanto precede si capisce che chiamare in sardo thurpu un uomo cieco significa fare metafora, in considerazione della figura dei Thurpos, che nell’aspetto generale sono di un nero totale, per giunta ricoperti da un grande cappuccio, onde danno proprio l’impressione di essere dei ciechi vaganti.
TZITZARÒNE è il fantoccio carnevalesco di Gavòi, portato in processione tra i lazzi e infine messo al rogo al culmine del Martedì Grasso. Base etimologica è il sum. ziza ‘uccello che gracchia, uccello del malaugurio’ + arre ‘jest, mockery, scherzo, scherno’. Tzitzaròne (aggettivale in -òne, da ziz-arr-) indicò in origine il ‘gracchiante che viene schernito’.
ZORZI cognome = Zòrgi, Giòlzi, Giógli; nel centro-nord dell’isola è il “re” del Carnevale, portato in processione verso l’estremo giudizio e poi messo a morte. Così a Sassari, Bosa, Tempio Pausania, Bolòtana, e via. Zorzi è anche cognome italico. Giògli, Zòrgi non è fonetica corrotta per ‘Giorgio’ (γεωργός), quindi non è un’equivalenza bizantina (come purtroppo pensano tutti i filologi romanzi), ma ha base etimologica nel sum. zur-zu (zur ‘prendersi cura di’ + zu ‘lama dell’aratro’ ossia ‘pene’). In origine Zorzi fu un appellativo del Dio della Natura che col proprio membro inseminava la Terra.
1 Dolores Turchi, Maschere, miti e feste della Sardegna 332
2 La Nuova Sardegna del 15 febbraio 2007
3 Notizia di Giovanni Spano e di Raffa Garzia nel Mut.Cagl. n° 51
4 La Storia, dalla Preistoria al’Antico Egitto, p. 366, La Biblioteca di Repubblica
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