Ancora alla fine del IV secolo il cristianesimo incontrava notevoli resistenze in tutta Italia, non solo in Sardegna. Per esempio sappiamo di tre missionari cristiani arrivati a Milano dall’Oriente. Il vescovo Ambrogio li manda a predicare in una valle del Trentino, la Val di Non, dove vengono massacrati dalla popolazione contadina perché accusati di profanare i culti tradizionali.1
In Sardegna il primo approccio fu lasciato alla penetrazione degli anacoreti2. Suppongo che lo stupore e lo sgomento furono i sentimenti prevalenti in quei monaci totalmente isolati che, provenendo dalle città costiere, entravano in un mondo sconosciuto. La mansuetudine, l’umiltà e la povertà furono uno stile di vita valido per farsi accettare dalla fiera popolazione montanara. E nacque la prima parola del Cristianesimo sardo: su para, ‘il cercatore’, dall’akk. pâru(m) ‘cercare, andare a cercare’, poiché i primi monaci furono dei “cercatori”, chiedevano soltanto del cibo per sfamarsi.
Ma presto altri monaci s’unirono al primo anacoreta inviato in avanscoperta; fecero comunella, eressero le láure, i primi cenobî, i manufatti-emblema della loro povertà: un circolo di capanne. Era nato il secondo vocabolo della cristianità sarda: láura, un termine peraltro mediterraneo, da akk. lawûm ‘circondare, mettere in circolo’ + rûm, rū’u, rā’um ‘collega, amico, associato’: stato costrutto lawû-rûm ‘circolo (di capanne) degli associati’, ossia ‘cenobio’.
Una volta adottati dagli indigeni come innocui e originali penitenti, i frati, is paras, che per decenni s’erano appuntati meticolosamente i costumi della popolazione, si mossero dalle láure e passarono all’acculturazione. L’offensiva iniziale non poteva che partire dalla fondamentale idea di Dio e dalla stessa concezione del Dio Unico. I montanari con Déu intendevano, letteralmente, il ‘Creatore dell’Universo’ (da sum. de ‘creare’ + u ‘universo’), uguale al Deus (o Zéus) dei frati. Sembra ovvio che per gran tempo i cenobiti registrarono, confrontarono e meditarono sui numerosi concetti dove, in varia misura, potevano operarsi convergenze senza forzature. Intanto una vera rivoluzione essi l’avevano già operata con l’ostentazione della povertà, la quale lavorava a favore de is paras mettendo in crisi lo status sociale del clero indigeno.
Le difficoltà cominciarono quando, dopo l’erezione delle chiese paleocristiane, con is paras ormai rinvigoriti dai lasciti delle proprietà dei neofiti, occorreva spingere più a fondo l’evangelizzazione, affinché i montanari abbandonassero di buon grado una porzione maggiore di credenze a vantaggio dei concetti-cardine cattolici e dello stesso menologio bizantino. Ma non era facile, poiché si trattava di lavorare per una destrutturazione socio-politica del sistema tribale, ossia contro un millenario sistema di potere e di autogestione.
Stava ormai iniziando il VII secolo. Il nuovo approccio fu il ferro e il fuoco operato da Zabarda, e la “conversione” di Ospitone re dei Barbaricini fu la conditio sine qua non per far cessare lo sterminio della gente3.
Se le maniere forti erano apparse opportune, era perché il fenomeno basiliano cominciato due secoli prima non aveva prodotto mutamenti tangibili. Ora che il dominio delle armi aveva radicato le ragioni della paura, si poteva tentare una evangelizzazione diversa, ingegnosa e ingannevole a un tempo, mirante a stravolgere nel breve tempo tutti i concetti fondamentali di un vasto vocabolario sacro. Oggi possiamo persino esprimere ammirazione per le procedure escogitate, gestite all’ombra di foreste tenebrose, negli alti-pascoli silenti, lontani da ogni consorzio umano, tra gente impaurita, isolata, analfabeta, spesso chiusa in micro-sistemi sociali privi di comunicazioni stabili, che non fossero gl’incontri delle festività e dei mercati cantonali.
MACÒNE è cognome di Sassari che ad una corretta analisi appare avente la base nell’akk. maḫḫûm ‘estatico, profeta’, da maḫûm = ‘furoreggiare, entrare in trance’ + sum. unu ‘ragazza, giovane donna’, col significato di ‘donna (seguace) dell’estatico’. Forse il termine fu forgiato all’inizio dell’epoca cristiana a indicare le seguaci di Gesù, che in origine erano quasi tutte donne. In questo caso Macòne sarebbe la terza parola del cristianesimo attecchita nelle aree interne della Sardegna.
Durante i quattro secoli bui il clero bizantino riuscì comunque a completare la destrutturazione linguistica e, oltrepassato l’Anno 1000, ecco scaturire e venirci incontro un vocabolario nel quale gli antichi lemmi sacri non hanno più posto, poiché erano già stati desacralizzati, vilipesi, infangati, stravolti, ridotti a gergo triviale, a gergo bastardo o, nella migliore delle ipotesi, a banale lessico comune.
Furono centinaia le parole-chiave della civiltà sarda assoggettate a radicale stravolgimento: nulla era rimasto come prima. Oramai l’espressione religiosa (ossia il corpus, il vocabolario) era stata annientata, e già aveva preso consistenza e si gestiva dai preti cristiani un nuovo corpus, quello ampiamente impostosi nell’Impero d’Oriente. Nel mentre la sostanza religiosa, il “profondo sentire” del popolo, evolveva lentamente per suo conto a fianco del corpus. Ma al punto cui si era arrivati, che importava la sostanza, il “profondo sentire”, quando il popolo, intanto, era e rimaneva analfabeta? Non è sempre spettata ai preti, nel passato, l’acculturazione delle masse? La sostanza è sempre stata confezionata dai preti. Ciò che importava di più al clero, in quel periodo, era che il vecchio vocabolario giacesse nella polvere, inespressivo.
Quando dopo il 1016 il clero bizantino, oramai ridotto ad accozzaglia semianalfabeta, fu sostituito dal clero dotto di formazione latina, fu questo a pensare in grande anche alla sostanza, partendo dal patrimonio lessicale sardo che i greci nei vari secoli, prima di cedere luoghi e funzioni ai nuovi colonizzatori, avevano sostituito a quello via via “devitalizzato”.
BUTTILLONI. Si osservi questo termine di beffa campidanese: su para buttilloni ‘fra’ brodaio’ (Porru), nel senso di ‘ignorante, citrullo’, corrisponde all’it. bottiglione, sia nell’accezione antica di ‘beone’, sia come allusione a qualche personaggio di questo nome. Anche qui, come nel lemma butti, siamo dinanzi a una voce burlesca e sarcastica, nata ad opera dei preti bizantini nel Primo Medioevo. Base etimologica è l’akk. uṭṭû (a priest, un sacerdote) + lumnu ‘malvagità, miseria morale’. Il composto in stato costrutto uṭṭī-lumnu significò ‘sacerdote debosciato, indegno, miserabile’
1 Remo Cacitti, Inchiesta sul Cristianesimo 244
2 Fondatore del monachesimo è considerato Antonio, ca. 270, la cui biografia fu scritta da Atanasio vescovo di Alessandria. Il suo esempio contagia, e nascono numerose colonie. Nacquero anche gli stiliti. Il monachesimo in solitudine è una prassi orientale. Anche Agostino creò ad Ippona una organizzazione monastica. E presto si formarono anche cenobi femminili. Fin dalle origini il cristianesimo ha preso due direzioni opposte; una che vuole trasformare la società attraverso il Potere, l’altra che rifiuta il mondo (IC 242).
Il monachesimo, soprattutto in età bizantina fra il IV e il V secolo diverrà anche uno dei protagonisti dei grandi conflitti ecclesiali (IC 249). Tuttavia va detto che il monachesimo prese piede seguendo degli ideali biblici. Si seguirono i grandi personaggi biblici come Mosè, i profeti Samuele, Elia, Eliseo (IC 250-1).
Gli elementi che caratterizzano il modello sono due: 1 ortodossia, che indica la dipendenza dottrinale dal vescovo; 2 la vita in comune, come quella degli apostoli, che comporta limiti e disciplina per i propri spostamenti… La svolta decisiva avviene però con Pacomio, che intuisce la necessità di dare una struttura al movimento dell’ascetismo; fra il 320 e il 325 fonda in Alto Egitto una comunità dove i monaci s’impegnano a una vita ascetica comunitaria sotto la guida di un abate. L’ideale della vita cenobitica di Pacomio poggia su tre capisaldi: 1 la costituzione di una santa comunità; 2 la meditazione sulla Sacra scrittura che la alimenta; 3 l’uguaglianza di tutti i componenti. Il principio dell’uguaglianza è inoltre garantito da due fattori: la radicale povertà di ognuno e l’incondizionata obbedienza. Il monastero ha un alto muro, segno della separazione dal mondo.
3 Tomasino Pinna, Gregorio Magno e la Sardegna