Sardegna, I nove epiteti di Dio

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La citata indagine sui vari popoli sardi1, dislocati nelle varie sub-regioni dell’isola, dimostra che tali genti non furono generate dal seme di antiche armate d’invasione ma da pacifiche tribù autoctone, montanare e litoranee (tra queste ultime Karénsioi, Šardana, Fenici). Logica vuole che pure i nove nomi (epiteti) di Dio, lungi dal costituire un pantheon (un sistema politeistico) accattato o imposto dall’esterno, siano stati un fenomeno monoteistico concresciuto, generato dalle viscere della civiltà sarda.

Se questa asserzione merita di assurgere a verità, come dimostrerò nella discussione, allora è possibile dimostrare che i nove epiteti di Dio non sono altro che la descrizione dei vari aspetti (tutto sommato pochi) coi quali Dio si manifestava al suo popolo. Che il nome di Dio non sia uno soltanto, è un fatto normale in ogni civiltà. Non dimentichiamo che gli stessi Ebrei, portatori di monoteismo, ebbero a gestire almeno quattro nomi di Dio (YHWH, Elohim, Adonai, Shaddai), oltre al nome della paredra Ištar, chiamata propriamente Ašerah.

ANI. Andando in ordine alfabetico, osservo che nel Campidano (es. a Quartu) è così chiamato san Giovanni (santu Ani). Invece, per chiamare Giovanni un uomo qualsiasi si dice Giuánni. La differenza non può essere spiegata con ragioni di eufonia, di contrazione all’incontro di due parole, di sandhi. Il parlante crede inconsciamente che santu Ani sia l’effetto di un troncamento eufonico da scrivere sant’Uáni, o santu-Ani. Credenza falsa. In realtà, santu Ani è un relitto nominale riferito al Dio Sommo, epifania del dio Sole, base etimologica nel sum. an ‘luce, splendore’, divenuto Anu presso i Semiti. Fu impegno dei preti bizantini “aggiustare” foneticamente il fenomeno, trasformando il dio Anu in san Giovanni, il quale non a caso viene celebrato il 24 giugno, al massimo dello splendore dell’astro. Si badi che gli Egizi per An, Ani indicavano invece il Dio-Luna. Anu peraltro sopravvive in Sardegna anche nella forma originale, appartiene al cognome Anu che i Bizantini non ebbero il potere di far sparire dalla storia linguistica.

BABÁY è uno degli appellativi del Sardus Pater venerato nel tempio punico-romano di Antas. Babay è voce shardana ancora viva nel sardo antico e attuale: babbu, babbáy, con tutte le conseguenze del caso. Va osservato che Babay o Baba è una grande divinità femminile sumerica, da babaya ‘old man’. Chiamata anche Nintu o Geštinanna, principalmente Ninkhursag, e corrispondente alla Inanna di Uruk e di altri centri come Nippur. Era la grande dea madre che presiedeva alla fecondità universale dell’umanità, delle greggi, dei campi, ma nella cui personalità, forse particolarmente in alcune città importanti quale Uruk, sono presenti rilevanti aspetti astrali. Da questi ultimi dipendono le connessioni con Anu e soprattutto l’identificazione con la stella del mattino e del tramonto.2 Baba era dea principale anche a Lagash, altra città sumerica, dove all’inizio della primavera era onorata per diversi giorni. Nell’età neosumerica a Lagash essa si festeggiava anche all’inizio dell’autunno; per assicurare la fecondità universale c’erano le nozze sacre tra il grande dio della città e Baba in un’unione che effettivamente veniva consumata dal re con una sacerdotessa. Notisi la strabiliante trasformazione di questo appellativo, inizialmente femminile, poi denotante un’entità maschile, ivi compreso l’appellativo che ancora oggi rivolgiamo al genitore.

  1. EL. In Sardegna ritroviamo anche l’autoctono El, universalmente noto come il Dio che Abramo aveva trovato al suo arrivo in Canaan e che sostituiva Enlil (il dio sumerico < En ‘Signore’ + lil ‘fantasma, spirito’, col significato iniziale di ‘Signore degli spiriti’, ossia delle anime). La forma sarda è indubbiamente arcaica e autoctona. Normalmente si ritrova nell’esclamazione-invocazione Ello! (evidente evoluzione del nome El che già ai Sardi del Medioevo cominciava ad apparire monco: ecco perché fu completato in Ello).

El, col suo aggettivo accadico ellu, attiene al concetto di ‘limpido, puro, (ritualmente) puro’. Ricordo pure che presso gli Accadi El, Elu fu il Dio supremo (Ellil ilī ‘Ellil degli déi’, ‘Dio degli déi’), detto di Marduk, Aššur, Nergal, Ninurta, in sumerico espresso anche come Illil (< sum. il(u) ‘sorgere’), da confrontare con l’ebr. Eli (non a caso poi identificato nel dio della Luce), ugaritico e fenicio Ilu, ug. El. Gli Arabi ebbero il similare Allāh, che significò ‘Luce’ per antonomasia; anzi, Allāh è nome copulativo composto da Eli + Yaḥwh (Yah), col primitivo significato di ‘Eli è Yahwh’ (ossia ‘il Dio dei Cananei, Eli, è lo stesso Yahw’).

IÁCCU. Terzo epiteto del Dio sardiano è Iáccu, anch’esso panmediterraneo. Íaccos, Ἴακχος è pure il nome solenne di Bacco (Diónisos) nei Misteri Eleusini. Ricordo il grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Íaccos era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra, e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele. In alcune tradizioni Iaccos è considerato figlio di Bacco, ma in altre i due personaggi sono identici. Nel mondo latino talvolta era identificato con Libero.

Circa l’etimo di Iáccu, Íaccos, Ἴακχος, possiamo inferire che la sua base etimologica è ebraica, non per altro, ma solo perché gli Ebrei lo considerano il vero nome (quello segreto) del proprio Dio. Il sardo Iáccu, gr. Íaccos, è lo stesso tetragramma ebraico YHWH, il nome di Dio Onnipotente, da pronunciare così com’è scritto, ossia Yaḥuh. In Sardegna questo nome sacro è ripetuto numerose volte, nei nomi personali, nei cognomi, in parecchi toponimi.

Tale nome sacro appare nella Bibbia 5410 volte a cominciare da Gn 2, 4. Secondo i vari rabbini che hanno pubblicato la Bibbia ebraica (ivi compreso, per l’Italia, Rav Dario Disegni), la vocalizzazione e la pronuncia di YHWH, יהוה, non sono note «perché per antichissima tradizione esso non viene mai pronunciato ma sostituito da Adonai, ‘il Signore’». A partire dal XVIII secolo nella Bibbia sono presenti tradizioni compositive differenti che si distinguono per l’utilizzo dei diversi appellativi divini. Ad esempio, nel libro della Gènesi è presente una versione della creazione che utilizza il nome Elohim; nel testo masoretico il tetragramma appare come Adonai. Nel testo greco dei Settanta è scritto Kýrios, aggettivale significante ‘che ha potere, forza, autorità’, tradotto normalmente come ‘Signore’ ma che è meglio tradurre come ‘Potente’. Si badi bene che nei più antichi frammenti greci della Bibbia (I-II secolo a.e.v.) al posto dell’aggettivale citato c’è soltanto il tetragramma ebraico. Invece in altre bibbie greche (come quella dell’Aquila) il tetragramma è scritto in lettere greche. Evidentemente essa è, dopo tali frammenti, tra le più antiche bibbie greche tramandate.

I Testimoni di Géova finora sono stati gli unici a parlare con libertà di questo lemma, e ripetono le ovvie considerazioni di alcuni liberi ricercatori anglosassoni (George Howard, Paul Kahle, Sidney Jellicoa), secondo cui nei frammenti più antichi il nome divino è scritto in aramaico, o in lettere paleoebraiche, poi è traslitterato in lettere greche, infine in tutte le restanti bibbie greche il tetragramma è tradotto con Kýrios (κύριος): quest’ultimo lemma denuncia un’ovvia innovazione cristiana.

L’interpretazione etimologica del tetragramma (l’interpretazione ebraica, s’intende) si basa su Esodo 3, 13-14-15, allorché Dio manda Mosè dal Faraone a chiedere ed ottenere l’uscita dall’Egitto. «Allora Mosè disse al Signore: “Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annunzierò loro: Il Signore dei padri vostri mi manda a voi, se essi mi chiederanno qual è il nome di Lui che cosa dovrò rispondere?”. E il Signore rispose: “Io sono quello che sono” e aggiunse: “Io sono, mi manda a voi”. Inoltre così disse il Signore a Mosè: “Annunzia ai figli d’Israele che è il Signore dei vostri padri, Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che m’invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo è il mio modo di designarmi attraverso le generazioni”».

Secondo Rav Dario Disegni, «le espressioni di questo verso [14] e del seguente sono oscure forse volutamente. Ne sono state tentate varie spiegazioni, fra le quali è difficile scegliere. In queste parole è, a quanto pare, da vedersi un’allusione al nome divino, che noi non pronunziamo, scritto con le lettere J. H. V. H. che contengono la radice del verbo che significa ‘essere’. L’espressione può significare: l’eternità, l’immutabilità di Dio. Il fatto che Egli è l’Essere, Esistente per se stesso, può voler dire: “Poco importa il mio nome, quello che importa è che Io sono”. Altra spiegazione: L’Essere di cui l’esistenza ha la sua causa in Se Stesso, e non mutua la Sua origine da alcun altro essere».

Henri Serouya (La Cabala 97) scrive che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura: Elohim è ora Yahvé, ora Shaddai. Il nome di quattro lettere, o Yahvé, sembra avere avuto, dall’epoca talmudica, una parte capitale nel misticismo teorico e soprattutto nel misticismo pratico. Il Talmud (Yoma, IIa) dice che un tempo si sapeva pronunciare questo nome e che allora era permesso al saggio di insegnarlo ai suoi figli e ai suoi discepoli scelti, una volta alla settimana. Questo tetragramma, detto anche “nome distintamente pronunciato” (Mishnah Yoma, VI, pag. 2) e “nome unico, proprio” (Sanh., 56a; Shebuoth, 36a) poteva essere pronunciato solo nel Santuario, dai sacerdoti che recitavano la benedizione sacerdotale (Mishnah Sotà, VII, pag. 6) e dal Gran Sacerdote il giorno del digiuno (Mishnah Yoma, loc. cit.). Secondo un testo di Maimonide “dopo la morte di Simeon il Giusto, i sacerdoti, suoi fratelli, cessarono di benedire con il tetragramma ma benedissero con il nome di dodici lettere”. Questo nome divino, come distaccato da se stesso, tende a costituire un essere in sé. “Prima della creazione del mondo”, dichiara il Talmud, “non vi era che Lui e il suo nome”.

È lampante che l’interpretazione degli Ebrei è una non-interpretazione. Essi, per timore e rispetto alla santità dell’Essere, rinunciano a scandagliare scientificamente il problema dell’etimologia, anzi si rifugiano negli assurdi meandri della cabalistica, e dobbiamo dire che la loro autorevole inazione (o distrazione) ha indotto qualunque altro ricercatore, che fosse laico o ebraico o cristiano o marxista, a non immischiarsi nella questione, anzi a rimuoverla.

Dovendo tentare un’interpretazione etimologica con quelle premesse, non riuscirei ad andare lontano. Tenuto conto che gli Ebrei hanno origine sumerica e constatato che la lingua sumerica è la più antica del mondo (tra quelle scritte), mi è forza basarmi sul termine sumerico ia ‘oh’ (una esclamazione, una esortazione), ma dopo questa esclamazione non ho nient’altro da esaminare. Però soccorre meglio l’accadico i ‘let’s, come on, suvvia’ (esortazione simile a quella sumerica), alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫu, y-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustificherebbe anche la traduzione fatta dai Settanta mediante Kýrios ‘Potente’. Questa esortazione-epiteto è, se vogliamo, un fatto normale, diciamo pure banale, anche perché da sempre, e fino ai nostri giorni, ci si è rivolti a Dio esclusivamente mediante l’esortazione (leggi ad es. le varie parti della Santa Messa cristiana).

Il fatto che Dio abbia ordinato a Mosè di chiamarlo mediante una esortazione riferita alla Sua potenza infinita, non deve meravigliare, poiché nella Bibbia (e anche nei Vangeli) Dio non ha mai cercato le astrusità e i sotterfugi, tantomeno le simbologie: anzi ha sempre voluto un rapporto chiaro e diretto con l’Uomo. Sono stati gli Ebrei ad avere forzato nella direzione di un distacco totale tra l’Essere divino e la Parola. E questa tradizione giudaico-cristiana è, purtroppo, ancora oggi, inossidabile.

Questa vicenda del vero nome personale di Dio, il quale a tutt’oggi permane non-riferibile, anzi addirittura ignoto (perché ignoto è sempre stato, non dimentichiamolo!), è tuttavia mal posta. Tutti i ricercatori brancolano nella cecità totale (una cecità reale, obiettiva, ma ad un tempo esilarante), e si rammaricano di non poter andare più a fondo in questa ricerca. Esilarante e assurda. Non hanno tenuto conto del fatto che Dio, alla precisa domanda di Mosè, non poteva rispondere altrimenti da come ha risposto, dicendo in sintesi che Lui NON AVEVA NOME e che poteva essere invocato soltanto come ‘il Potente’. È esilarante vedere i nostri ricercatori basiti! Eppure basta poco a capire che DIO NON PUO AVERE UN NOME! E perché mai dovrebbe averlo? Egli è Dio, è YHWH, nient’altro! A questo punto, dichiaro chiusa ogni discussione: il volerla tenere aperta è segno di dabbenaggine e di scarsissimo rispetto per la Maestà di Nostro Signore Onnipotente.

E, a dirla tutta, qua non è in gioco soltanto la dabbenaggine e lo scarso rispetto dei ricercatori. Ci aggiungerei, a loro disdoro, anche una dose d’ignoranza. Dobbiamo ammettere che abbiamo spesso proiettato gli studi biblici su uno schermo metastorico, anche perché ne siamo stati forzati dall’esegesi rabbinica, mentre al contrario ogni passo della Bibbia necessita di essere rigorosamente contestualizzato in una precisa fase della storia. Per quanto riguarda le vicende di Mosè e dell’Esodo, non possiamo capirle se non inquadrandole nella temperie culturale dei tempi in cui gli Ebrei vivevano in Egitto. E allora va chiarito che presso gli Egizi il nome personale era sottoposto a un rigorosissimo tabù, non poteva essere mai pronunciato.

L’uomo ha sempre parlato poco, e nel passato – fino a secoli recenti – la parola pronunciata era considerata sacra. Ogni parola pesava come un sasso. Ogni parola un impegno. La parola fu sempre sacra. Nessuno poteva pronunciarla invano, nessuno poteva tradirla. L’origine sacrale del linguaggio impedì per millenni di operare una netta distinzione tra le parole e le cose. L’uomo di Sumer, di Babilonia, del Nilo, della Sardegna precristiana, per quanto acculturato, non si liberò mai dal pensare concreto. Le prime idee astratte furono prerogativa degli antichi Greci, ed il loro apparire, checché se ne pensi, non fu meno rivoluzionario dell’invenzione della ruota.

Possiamo affermare che la storia fu sempre fatta, almeno fino alla Nuova Era, dall’Homo concretus, il quale ha sempre pensato che tra il nome personale e la persona fisica esistesse un legame sostanziale e vincolante, sul quale si poteva agire magicamente. In Egitto si ricordava il mito di Iside, la quale divenne la Dea Madre dell’Universo soltanto dopo aver conosciuto, mediante le sue arti magiche, il vero nome di Ra (del Sole), spodestandolo. L’uomo vide nel proprio nome una parte vitale di sé, e di conseguenza se ne prese cura, ad evitare che gli togliessero la vita. Questo legame vitale fu sentito un po’ da tutti i popoli. Fino ai tempi di Frazer (100 anni fa) tutti questi popoli tennero accuratamente nascosto ogni nome personale.

Presso gli antichi Egizi ogni persona aveva «due nomi, il nome vero e il nome buono o il nome grande e quello piccolo; e mentre il nome buono, o piccolo, era di pubblico dominio, quello vero, o grande, sembra fosse tenuto accuratamente nascosto» (Frazer). Infatti per gli Egizi «il nome era una seconda creazione dell’individuo, innanzitutto al momento della nascita, quando dalla madre viene imposto al neonato un appellativo che ne esprime sia la natura, sia il destino che ella gli augura, ma anche gli si rinnova il destino ogni volta che viene pronunciato. Questa fede nella virtù creatrice del Verbo determina tutto il comportamento degli Egiziani rispetto alla morte: infatti, nominare una persona o una cosa equivale a farla esistere al di là della scomparsa fisica, e quindi diventa necessario moltiplicare i segni di riconoscimento. È questo il motivo per cui la cappella funeraria, e in generale il luogo ove si praticava il culto del defunto, racchiudono una somma di indicazioni la più precisa possibile, in modo che il ka possa godere senza problemi di quanto gli è dovuto» (Grimal, SAE 139).

Questa temperie culturale degli Egizi aveva contagiato gli Ebrei; quindi appare assurda la pretesa di Mosè di conoscere il vero nome di Dio. Salvo il fatto che, come ho già detto, Dio non ha nome, non può averlo. E perché mai dovrebbe averlo? A cosa Gli servirebbe? L’uomo, senza accorgersene, continua a trattare Dio come una persona o come una cosa, dimenticando che Dio non è uomo, né cosa, e non può essere nemmeno puro pensiero, come invece ci si ostina a blaterare nella incommensurabile insufficienza del nostro linguaggio. Egli È. Nient’altro. Qualunque altra asserzione è una bestemmia.

Quindi all’uomo basta e avanza l’opportunità d’invocare Dio come YHWH o (che è lo stesso) come Kýrios, il ‘Potente’. Se poi gli Ebrei sono talmente imbalsamati dalla paura di chiamare direttamente Dio, qualcuno dovrebbe aiutarli a capire che gli epiteti da loro inventati per by-passare il tabù hanno esattamente la stessa semantica della parola tabuizzata, sono infatti la tautologia di YHWH.

Il fatto che i Sardi non abbiano mai patito il tabù degli Ebrei, la dice lunga sul fatto che il nome universale di YHWH dai Sardi è stato trattato con maggiore libertà, visto che in Sardegna quel nome sacro esiste un po’ dovunque. Certo, non esiste al modo come vorremmo, anche perché in Sardegna manca la tradizione scritta d’epoca pre-cristiana (salva qualche frase fenicia o punica). E tocca a noi oggi “sgusciare” e “raddrizzare” filologicamente certi nomi, certi epiteti, certi toponimi, allo scopo di capire la situazione di quei tempi e allo stesso tempo capire gli artifici che i preti bizantini inventarono, nella foga di ottundere e sopprimere ogni forma di dottrina che i Sardi avevano sulla religione dei padri.

Per ricuperare la storia antica della Sardegna, basta partire dalla nozione che i preti bizantini fecero tabula rasa della pregressa religione, ma lo fecero con delle costanti che, una volta svelate, appalesano nitidamente le modalità con cui procedevano nel soffocare le parole-emblemi-simboli della religiosità del popolo. Il loro procedere era talmente capzioso che nessuno mai intuì l’inganno. Si trattava, per lo più, di approfittare del fatto che essi parlavano greco ed avevano quindi una lingua diversa da quella del popolo sardo, che parlava ancora lo “zoccolo duro” semitico. La differenza di toni, di accenti, di fonetiche, talora di concettualizzazioni da parte di quei preti che si sforzavano comunque di parlare sardo, suscitava nel popolo un irrefrenabile moto di simpatia e di disponibilità al dialogo. Quindi il popolo analfabeta accettava facilmente le “dotte” prediche con le quali i preti spiegavano che YHWH (letto i-aḫu) era lo stesso San Jacopo o Giacomo; da quell’istante i preti chiamarono Giacomo (guai a sbagliarsi!) col nome di Dio: Yaḫu, Yaku, Yaccu, Jagu. Fu tale la confusione del popolo, che oggi ci ritroviamo una serie di località chiamate Santu Jaccu, Santu Jacci, e ritroviamo pure il cognome Giágu, tutti intesi come “Giacomo”!

Ma è ovvio che Iaccu, Giágu non c’entra nulla con san Giacomo apostolo. Iaccu, Giágu è nome di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma si confronta linearmente con l’ebr. YHWH o YḤWH (leggi i-aḫu), con successiva variante patronimica latineggiante in –i: Jaci. Quindi anche i toponimi sardi noti come Jaci o Santu Jaci rimandano sempre al tetragramma ebraico (e sardo-mediterraneo). Esattamente come il cognome Giágu.

Prima di chiudere la discussione sul tema, va sottolineato che la grande paura degli Ebrei di pronunciare il nome di Dio è – tutto sommato – oltreché paradossale, relativamente recente: data dal 539 a.e.v., quasi 2500 anni, quindi è possibile “storicizzarla”, decorrendo dal momento del ritorno babilonese e del rigorismo che ne conseguì. Ai tempi del Primo Tempio gli Ebrei invece praticavano una religione più ariosa e meno tabuica; ciò è dimostrato da una serie di nomi personali (e cognomi attuali, quale Netan-iahu) che sono nitidamente teoforici, ossia recano incastonato il nome di Dio, sia esso El o Yaḥwh. Vediamone qualcuno, partendo ovviamente dalla celebre esortazione ebraica (poi diventata anche cristiana) Allelùja, ebr. Hallelûyāh (הַלְּלוּ-יָהּ), che significa ‘preghiamo, lodiamo Dio’. Un altro termine ebraico che fa riflettere è Ahellil, designante i Salmi comincianti con l’invocazione Hallelûyāh.

Cito poi il teoforico di un profeta ebreo, Gioèle ( יואל ), che racchiude il più antico nome di Dio, El, abbinato a quello di Yhwh; significò ‘Yah[wh] è El’ ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh).

Il teoforico Giovanni è ebraico, composto da Yeho + Chānān col significato di ‘Dio di Canaan’. Cfr. l’ags. John, una contrazione portata all’eccesso ma nella quale ancora s’intravedono i due radicali Jo (dalle tre apofonie Yah, Yeh, Yoh: vedi la contrazione יו in Gioele) + Hn (Chānān). A sua volta Canaan < ebr. כְּנַעַן ha base etimologica nell’ant. akk. qanānu ‘fare il nido, insediarsi’, qannu ‘il costruito’, qanu, qanā’u ‘tenere il possesso di’, ‘acquisire’; ma anche kânu ‘divenire permanente, stabile’ (di casa, territorio).

Va precisato che il nome del Dio del deserto, Yaḥ, Yḥ o Yhwh, in origine non fu altro che lo stesso nome del Dio Luna. Non fu un caso se il monte sacro del deserto frequentato dagli Habiru (i futuri Ebrei) fu chiamato Sināi, in onore del Dio lunare Sîn, un altro nome concorrente di Yaḥ. Il dio Luna Yah era conosciuto con lo stesso nome dall’Egitto a Babilonia. Da esso deriva il nome del patriarca Giacobbe, Yah’cobb, ‘Protetto dal Dio Luna’. Dopo la cacciata degli Hyksos dall’Egitto, il culto di Yaw continuò nella città di Ugarit sotto forma di demone del mare Yamm, ma decadde in Siria sostituito dal culto del dio della pioggia Baal Hadad. Mentre tra i nomadi Šasu Edomiti del Sinai continuò nella sua forma originaria Yhw: dio delle tempeste.

Un altro nome teoforico è Elìa, così noto dalla tradizione latina (Elias) e greca (Eleias, Elias) dall’ebr. Eliyyahu o Eliyyah: essendo lo stesso composto di Gioèle, ha ovviamente lo stesso significato: ‘El è Yahwh’, ‘El è proprio Dio’.

Altro nome teoforico è Zaccarìa, da ebr. Zekharyah (da zachar ‘ricordarsi’ e Yah ‘Dio’ = ‘Memoria di Dio’).

Il teoforico Gioacchìno, ebr. Yohaqim è da Yah + qum ‘sollevare’ = ‘innalzato da Dio’).

Il teoforico Michèa, ebr. Mihan abbreviato da Mikhayâh significa ‘colui che è come Dio’.

L’ebr. Ezeriel עַזְרִיאֵל è composto da ezer ‘aiuto’ + El ‘Dio’ col significato di ‘aiutato, protetto da Dio’.

L’ebr. Matteo, Mattìa, Mattityahu מַתִּתְיָהוּ è composto da matath ‘dono’ + Yah ‘Dio’, col significato di ‘Dono di Dio’.

1 Salvatore Dedola, La toponomastica in Sardegna, cap. 1.c

2 Paolo Matthiae, La Storia dalla Preistoria all’Antico Egitto, p. 262-63, La Biblioteca di Repubblica

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