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L’indagine sui vari popoli sardi dimostra che tali genti non furono generate dal seme di antiche armate d’invasione ma da pacifiche tribù autoctone, montanare e litoranee (tra queste ultime Karénsioi, Šardana, Fenici). Logica vuole che pure i nove nomi di Dio, lungi dal costituire un pantheon (un sistema politeistico) accattato o imposto dall’esterno, siano stati un fenomeno monoteistico concresciuto, generato dalle viscere della civiltà sarda.
Se questa asserzione merita di assurgere a verità, come dimostrerò nella discussione, allora è possibile dimostrare che i nove nomi di Dio non sono altro che la descrizione dei vari aspetti (tutto sommato pochi) coi quali Dio si manifestava al suo popolo. Che il nome di Dio non sia uno soltanto, è un fatto normale in ogni civiltà. Non dimentichiamo che gli stessi Ebrei, portatori di monoteismo, ebbero a gestire almeno quattro nomi di Dio (YHWH, Elohim, Adonai, Shaddai), oltre al nome della paredra Ištar, chiamata propriamente Ašerah.
ANI. Andando in ordine alfabetico, osservo che nel Campidano (ad es. a Quartu) è così chiamato san Giovanni (santu Ani). La persona chiamata Giovanni viene invece detta Giuánni. La differenza non può essere spiegata con ragioni di eufonia, di contrazione all’incontro di due parole, di sandhi. Il parlante crede inconsciamente che santu Ani sia l’effetto di un troncamento eufonico da scrivere esattamente sant’Uáni, ma non è così. Ammesso che lo fosse, sarebbe da spiegare perché *Uáni appaia soltanto collegato a santu, mentre non appare nella normale catena parlata, e nemmeno negli appellativi del tipo tzíu Giuánni ‘zio Giovanni’.
In realtà, santu Ani è un relitto nominale riferito al dio sumero An (il Dio sommo del Cielo, espresso quasi sempre dal dio Sole, con base etimologica nel sum. an ‘luce, splendore’), poi divenuto Anu presso i Semiti. Fu impegno dei preti bizantini “aggiustare” foneticamente il fenomeno, trasformando il dio Anu in san Giovanni, il quale non a caso viene celebrato il 24 giugno, al massimo dello splendore dell’astro. Si badi che gli Egizi per An, Ani indicavano il Dio-Luna. Anu peraltro sopravvive in Sardegna proprio in questa forma, e appartiene a un cognome che i Bizantini non ebbero il potere di far sparire dalla storia linguistica.
BABÁY termine che forse dovrebbe scriversi Baby (v. Meloni SR); è uno degli appellativi del Sardus Pater venerato nel tempio punico-romano di Antas. SG 446 lo dà come termine shardana ’b’ab-y. C’è del vero in quest’asserzione, anche se la ricostruzione è lambiccata.
Babay è voce shardana ancora viva nel sardo antico e attuale babbu, babbáy, con tutte le conseguenze del caso. Vedi dunque a questa voce. Va osservato che Babay o Baba (chiamata anche Nintu o Geštinanna, principalmente Ninkhursag) è una grande divinità femminile sumerica corrispondente alla Inanna di Uruk e di altri centri come Nippur. Era la grande dea madre che presiedeva alla fecondità universale dell’umanità, delle greggi, dei campi, ma nella cui personalità, forse particolarmente in alcune città importanti quale Uruk, sono presenti rilevanti aspetti astrali. Da questi ultimi dipendono le connessioni con Anu e soprattutto l’identificazione con la stella del mattino e del tramonto.1 Baba era dea principale anche a Lagash, altra città sumerica, dove all’inizio della primavera era onorata per diversi giorni. Nell’età neosumerica a Lagash essa si festeggiava anche all’inizio dell’autunno; per assicurare la fecondità universale c’erano le nozze sacre tra il grande dio della città e Baba in un’unione che effettivamente veniva consumata dal re con una sacerdotessa.
Notisi la strabiliante trasformazione di questo appellativo, inizialmente femminile, che poi è arrivato a denotare una entità maschile, ivi compreso l’appellativo che ancora oggi rivolgiamo al genitore.
EL. In Sardegna ritroviamo anche l’autoctono El, universalmente noto come il Dio che Abramo aveva trovato al suo arrivo in Canaan e che sostituiva Enlil (il dio sumerico < En ‘Signore’ + lil ‘fantasma, spirito’, col significato iniziale di ‘Signore degli spiriti’, ossia delle anime). La forma sarda è indubbiamente arcaica e autoctona. Normalmente si ritrova nell’esclamazione-invocazione Ello! (evidente evoluzione del nome El che già ai Sardi del Medioevo cominciava ad apparire monco: ecco perchè fu completato in Ello).
Su questo lemma ho già discusso ampiamente nel § 5d, cui rimando. Rammento soltanto che El, col suo aggettivo accadico ellu, attiene al concetto di ‘limpido, puro, (ritualmente) puro’. Ricordo pure che presso gli Accadi El, Elu fu il Dio supremo (Ellil ilī ‘Ellil degli déi’, ‘Dio degli déi’), detto di Marduk, Aššur, Nergal, Ninurta, in sumerico espresso anche come Illil (< sum. il(u) ‘sorgere’), da confrontare con l’ebraico Eli (non a caso poi identificato nei dio della Luce), ugaritico e fenicio Ilu, ug. El. Gli Arabi ebbero il similare Allah, che significò ‘Luce’ per antonomasia.
IÁCCU. Terzo nome del Dio sardiano, senz’altro il più intrigante, è Iáccu, anch’esso panmediterraneo. Íaccos, Ἴακχος è pure il nome solenne di Bacco (Diónisos) nei Misteri Eleusini. Ricordo il grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Íaccos era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra, e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele. In alcune tradizioni Iaccos è considerato figlio di Bacco, ma in altre i due personaggi sono identici. Nel mondo latino talvolta era identificato con Libero.
Circa l’etimo di Iáccu, Íaccos, Ἴακχος, possiamo inferire che la sua base etimologica è ebraica, non per altro, ma solo perché gli Ebrei lo considerano il vero nome (quello segreto) del proprio Dio. Il sardo Iáccu, gr. Íaccos, è lo stesso tetragramma ebraico YHWH, il nome di Dio Onnipotente, da pronunciare così com’è scritto, ossia Yaḥuh. In Sardegna questo nome sacro è ripetuto numerose volte, nei nomi personali, nei cognomi, e anche in parecchi toponimi.
Tale nome sacro appare nella Bibbia 5410 volte a cominciare da Gn 2, 4. Secondo i vari rabbini che hanno pubblicato la Bibbia ebraica (ivi compreso, per l’Italia, Rav Dario Disegni), la vocalizzazione e la pronuncia di YHWH, יהוה, non sono note «perché per antichissima tradizione esso non viene mai pronunciato ma sostituito da Adonai, ‘il Signore’». A partire dal XVIII secolo nella Bibbia sono presenti tradizioni compositive differenti che si distinguono per l’utilizzo dei diversi appellativi divini. Ad esempio, nel libro della Gènesi è presente una versione della creazione che utilizza il nome Elohim; nel testo masoretico il tetragramma appare come Adonai. Nel testo greco dei Settanta è scritto Kýrios, aggettivale significante ‘che ha potere, forza, autorità’, tradotto normalmente come ‘Signore’ ma che è meglio tradurre come ‘Potente’. Si badi bene che nei più antichi frammenti greci della Bibbia (I-II secolo a.e.v.) al posto dell’aggettivale citato c’è soltanto il tetragramma ebraico. Invece in altre bibbie greche (come quella dell’Aquila) il tetragramma è scritto in lettere greche. Evidentemente essa è, dopo tali frammenti, tra le più antiche bibbie greche tramandate.
I Testimoni di Géova finora sono stati gli unici a parlare con una certa libertà di questo lemma, e ripetono le ovvie considerazioni di alcuni liberi ricercatori anglosassoni (George Howard, Paul Kahle, Sidney Jellicoa), secondo cui nei frammenti più antichi il nome divino è scritto in aramaico, o in lettere paleoebraiche, poi è traslitterato in lettere greche, infine in tutte le restanti bibbie greche il tetragramma è tradotto con Kýrios (κύριος): quest’ultimo lemma denuncia una ovvia innovazione cristiana.
L’interpretazione etimologica del tetragramma (interpretazione ebraica, s’intende) si basa su Esodo 3, 13-14-15, allorchè Dio manda Mosè dal Faraone a chiedere ed ottenere l’uscita dall’Egitto. «Allora Mosè disse al Signore: “Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annunzierò loro: Il Signore dei padri vostri mi manda a voi, se essi mi chiederanno qual è il nome di Lui che cosa dovrò rispondere?”. E il Signore rispose: “Io sono quello che sono” e aggiunse: “Io sono, mi manda a voi”. Inoltre così disse il Signore a Mosè: “Annunzia ai figli d’Israele che è il Signore dei vostri padri, Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che m’invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo è il mio modo di designarmi attraverso le generazioni”».
Secondo Rav Dario Disegni, «le espressioni di questo verso [14] e del seguente sono oscure forse volutamente. Ne sono state tentate varie spiegazioni, fra le quali è difficile scegliere. In queste parole è, a quanto pare, da vedersi un’allusione al nome divino, che noi non pronunziamo, scritto con le lettere J. H. V. H. che contengono la radice del verbo che significa ‘essere’. L’espressione può significare: l’eternità, l’immutabilità di Dio. Il fatto che Egli è l’Essere, Esistente per se stesso, può voler dire: “Poco importa il mio nome, quello che importa è che Io sono”. Altra spiegazione: L’Essere di cui l’esistenza ha la sua causa in Se Stesso, e non mutua la Sua origine da alcun altro essere».
Henri Serouya (La Cabala 97) scrive che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura: Elohim è ora Yahvé, ora Shaddai. Il nome di quattro lettere, o Yahvé, sembra avere avuto, dall’epoca talmudica, una parte capitale nel misticismo teorico e soprattutto nel misticismo pratico. Il Talmud (Yoma, IIa) dice che un tempo si sapeva pronunciare questo nome e che allora era permesso al saggio di insegnarlo ai suoi figli e ai suoi discepoli scelti, una volta alla settimana. Questo tetragramma, detto anche “nome distintamente pronunciato” (Mishnah Yoma, VI, pag. 2) e “nome unico, proprio” (Sanh., 56a; Shebuoth, 36a) poteva essere pronunciato solo nel Santuario, dai sacerdoti che recitavano la benedizione sacerdotale (Mishnah Sotà, VII, pag. 6) e dal Gran Sacerdote il giorno del digiuno (Mishnah Yoma, loc. cit.). Secondo un testo di Maimonide “dopo la morte di Simeon il Giusto, i sacerdoti, suoi fratelli, cessarono di benedire con il tetragramma ma benedissero con il nome di dodici lettere”. Questo nome divino, come distaccato da se stesso, tende a costituire un essere in sé. “Prima della creazione del mondo”, dichiara il Talmud, “non vi era che Lui e il suo nome”.
È lampante che l’interpretazione degli Ebrei è una non-interpretazione. Essi, per timore e rispetto alla santità dell’Essere, rinunciano a scandagliare scientificamente il problema dell’etimologia, anzi si rifugiano negli assurdi meandri della cabalistica, e dobbiamo dire che la loro autorevole inazione (o distrazione) ha indotto qualunque altro ricercatore, che fosse laico o ebraico o cristiano o marxista, a non immischiarsi nella questione, anzi a rimuoverla.
Se dovessi tentare personalmente una interpretazione etimologica, penso che, con quelle premesse, non riuscirei ad andare lontano. Tenuto conto che gli Ebrei hanno origine sumerica e constatato che la lingua sumerica è la più antica del mondo (tra quelle scritte), mi è forza basarmi sul termine sumerico ia ‘oh’ (una esclamazione, una esortazione), ma dopo questa esclamazione non ho nient’altro da esaminare. Però soccorre meglio l’accadico i ‘let’s, come on, suvvia’ (esortazione simile a quella sumerica), alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫu, y-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustificherebbe anche la traduzione fatta dai Settanta mediante Kýrios ‘Potente’. Questo esortazione-epiteto è, se vogliamo, un fatto normale, diciamo pure banale, anche perché da sempre, e fino ai nostri giorni, ci si è rivolti a Dio esclusivamente mediante l’esortazione (leggi ad es. le varie parti della Santa Messa cristiana).
Il fatto che Dio abbia ordinato a Mosè di chiamarlo mediante una esortazione riferita alla Sua potenza infinita, non deve meravigliare, poiché nella Bibbia (e anche nei Vangeli) Dio non ha mai cercato le astrusità e i sotterfugi, tantomeno le simbologie: anzi ha sempre voluto un rapporto chiaro e diretto con l’Uomo. Sono stati gli Ebrei ad avere forzato nella direzione di un distacco totale tra l’Essere divino e la Parola. E questa tradizione giudaico-cristiana è, purtroppo, ancora oggi, inossidabile.
Questa vicenda del vero nome personale di Dio, il quale a tutt’oggi permane non-riferibile, anzi addirittura ignoto (perché ignoto è sempre stato, non dimentichiamolo!), è tuttavia mal posta. Tutti i ricercatori brancolano nella cecità totale (una cecità reale, obiettiva, ma ad un tempo esilarante), e si rammaricano di non poter andare più a fondo in questa ricerca. Esilarante e assurda. Non hanno tenuto conto del fatto che Dio, alla precisa domanda di Mosè, non poteva rispondere altrimenti di come ha risposto, dicendo in sintesi che Lui NON AVEVA NOME e che poteva essere invocato soltanto come ‘il Potente’. È esilarante vedere i nostri ricercatori basiti! Eppure basta poco a capire che DIO NON PUO AVERE UN NOME! E perché mai dovrebbe averlo? Egli è Dio, è YHWH, nient’altro! A questo punto, dichiaro chiusa ogni discussione: il volerla tenere aperta è segno di dabbenaggine e di scarsissimo rispetto per la Maestà di Nostro Signore Onnipotente.
E, a dirla tutta, qua non è in gioco soltanto la dabbenaggine e lo scarso rispetto dei ricercatori. Ci aggiungerei, a loro disdoro, anche una dose d’ignoranza. Dobbiamo ammettere che abbiamo spesso proiettato gli studi biblici su uno schermo metastorico, anche perché ne siamo stati forzati dall’esegesi rabbinica, mentre al contrario ogni passo della Bibbia necessita di essere rigorosamente contestualizzato in una precisa fase della storia. Per quanto riguarda le vicende di Mosè e dell’Esodo, non possiamo capirle se non inquadrandole nella temperie culturale dei tempi in cui gli Ebrei vivevano in Egitto. E allora va chiarito che presso gli Egizi il nome personale era sottoposto a un rigorosissimo tabù, non poteva essere mai pronunciato.
L’uomo ha sempre parlato poco, e nel passato – fino a secoli recenti – la parola pronunciata era considerata sacra. Ogni parola pesava come un sasso. Ogni parola un impegno. La parola fu sempre sacra. Nessuno poteva pronunciarla invano, nessuno poteva tradirla. L’origine sacrale del linguaggio impedì per millenni di operare una netta distinzione tra le parole e le cose. L’uomo di Sumer, di Babilonia, del Nilo, della Sardegna precristiana, per quanto acculturato, non si liberò mai dal pensare concreto. Le prime idee astratte furono prerogativa degli antichi Greci, ed il loro apparire, checché se ne pensi, non fu meno rivoluzionario dell’invenzione della ruota.
Possiamo affermare che la storia fu sempre fatta, almeno fino alla Nuova Era, dall’Homo concretus, il quale ha sempre pensato che tra il nome personale e la persona fisica esistesse un legame sostanziale e vincolante, sul quale si poteva agire magicamente. In Egitto si ricordava il mito di Iside, la quale divenne la Dea Madre dell’Universo soltanto dopo aver conosciuto, mediante le sue arti magiche, il vero nome di Ra (del Sole), spodestandolo. L’uomo vide nel proprio nome una parte vitale di sé, e di conseguenza se ne prese cura, ad evitare che gli togliessero la vita. Questo legame vitale fu sentito un po’ da tutti i popoli. Fino ai tempi di Frazer (100 anni fa) tutti questi popoli tennero accuratamente nascosto ogni nome personale.
Presso gli antichi Egizi ogni persona aveva «due nomi, il nome vero e il nome buono o il nome grande e quello piccolo; e mentre il nome buono, o piccolo, era di pubblico dominio, quello vero, o grande, sembra fosse tenuto accuratamente nascosto» (Frazer). Infatti per gli Egizi «il nome era una seconda creazione dell’individuo, innanzitutto al momento della nascita, quando dalla madre viene imposto al neonato un appellativo che ne esprime sia la natura, sia il destino che ella gli augura, ma anche gli si rinnova il destino ogni volta che viene pronunciato. Questa fede nella virtù creatrice del Verbo determina tutto il comportamento degli Egiziani rispetto alla morte: infatti, nominare una persona o una cosa equivale a farla esistere al di là della scomparsa fisica, e quindi diventa necessario moltiplicare i segni di riconoscimento. È questo il motivo per cui la cappella funeraria, e in generale il luogo ove si praticava il culto del defunto, racchiudono una somma di indicazioni la più precisa possibile, in modo che il ka possa godere senza problemi di quanto gli è dovuto» (Grimal, SAE 139).
Questa temperie culturale degli Egizi aveva contagiato gli Ebrei; quindi appare assurda la pretesa di Mosè di conoscere il vero nome di Dio. Salvo il fatto che, come ho già detto, Dio non ha nome, non può averlo. E perché mai dovrebbe averlo? A cosa Gli servirebbe? L’uomo, senza accorgersene, continua a trattare Dio come una persona o come una cosa, dimenticando che Dio non è uomo, né cosa, e non può essere nemmeno puro pensiero, come invece ci si ostina a blaterare nella incommensurabile insufficienza del nostro linguaggio. Egli È. Nient’altro. Qualunque altra asserzione è una bestemmia.
Quindi all’uomo basta e avanza l’opportunità d’invocare Dio come YHWH o (che è lo stesso) come Kýrios, il ‘Potente’. Se poi gli Ebrei sono talmente imbalsamati dalla paura di chiamare direttamente Dio, qualcuno dovrebbe aiutarli a capire che gli epiteti da loro inventati per by-passare il tabù hanno esattamente la stessa semantica della parola tabuizzata, sono infatti la tautologia di YHWH.
Il fatto che i Sardi non abbiano mai patito il tabù degli Ebrei, la dice lunga sul fatto che il nome universale di YHWH dai Sardi è stato trattato con maggiore libertà, visto che in Sardegna quel nome sacro esiste un po’ dovunque. Certo, non esiste al modo come vorremmo, anche perché in Sardegna manca la tradizione scritta d’epoca precristiana (salva qualche frase fenicia). E tocca a noi oggi “sgusciare” e “raddrizzare” filologicamente certi nomi, certi epiteti, certi toponimi, allo scopo di capire la situazione di quei tempi e allo stesso tempo capire gli artifici che i preti bizantini inventarono, nella foga di ottundere e sopprimere ogni forma di dottrina che i Sardi avevano sulla religione dei padri.
Per ricuperare la storia antica della Sardegna, basta partire dal fatto che i preti bizantini fecero tabula rasa della pregressa religione, ma lo fecero con delle costanti che, una volta svelate, appalesano nitidamente le modalità con cui procedevano nel soffocare le parole-emblemi-simboli della religiosità del popolo. Il loro procedere era talmente capzioso che nessuno mai intuì l’inganno. Si trattava, per lo più, di approfittare del fatto che essi parlavano greco ed avevano quindi una lingua assai diversa da quella del popolo sardo, che parlava ancora lo “zoccolo duro” semitico. La differenza di toni, di accenti, di fonetiche, talora di concettualizzazioni da parte di quei preti che si sforzavano comunque di parlare sardo, suscitava nel popolo un irrefrenabile moto di simpatia e di disponibilità al dialogo. Quindi il popolo analfabeta accettava facilmente le “dotte” prediche con le quali i preti spiegavano che YHWH (letto i-aḫu) era lo stesso San Jacopo o Giacomo, che essi si premurarono da quell’istante di chiamare (guai a sbagliarsi!) con la fonetica sarda: Yaḫu, Yaku, Yaccu, Jagu. Fu tale la convinzione del popolo, che oggi ci ritroviamo una serie di località chiamate Santu Jaccu, Santu Jacci, e ritroviamo pure il cognome Giágu, tutti intesi come “Giacomo”!
Ma è ovvio che Iaccu, Giágu non c’entra nulla con san Giacomo apostolo. Iaccu, Giágu è nome di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma si confronta linearmente con l’ebr. YHWH o YḤWH (leggi i-aḫu), con successiva variante patronimica latineggiante in –i: Jaci. Quindi anche i toponimi sardi noti come Jaci o Santu Jaci rimandano sempre al tetragramma ebraico (e sardo-mediterraneo). Esattamente come il cognome Giágu.
Prima di chiudere la discussione sul tema, va sottolineato che la grande paura degli Ebrei di pronunciare il nome di Dio è – tutto sommato – oltreché paradossale, relativamente recente: data dal 539 a.e.v., quasi 2500 anni, ed è possibile “storicizzarla”, decorrendo dal momento del ritorno babilonese e del rigorismo che ne conseguì. Ai tempi del Primo Tempio gli Ebrei invece praticavano una religione più ariosa e meno tabuica; ciò è dimostrato da una serie di nomi personali (e cognomi attuali, quale Netan-iahu) che sono nitidamente teoforici, ossia recano incastonato il nome di Dio, sia esso El o Yaḥwh. Vediamone qualcuno, partendo ovviamente dalla celebre esortazione ebraica (poi diventata anche cristiana) Allelùja, ebr. Hallelûyāh (הַלְּלוּ–יָהּ), che significa ‘preghiamo, lodiamo Dio’. Un altro termine ebraico che fa riflettere è Ahellil, designante i Salmi comincianti con l’invocazione Hallelûyāh.
Cito anzitutto il teoforico di un profeta ebreo, Gioèle ( יואל ), che racchiude il più antico nome di Dio, ossia El, abbinato a quello di Yhwh; significò ‘Yah[wh] è El’ ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh).
Il teoforico Giovanni è ebraico, composto da Yeho + Chānān col significato di ‘Dio di Canaan’. Cfr. l’anglosassone John, una contrazione portata all’eccesso ma nella quale ancora s’intravedono i due radicali Jo (dalle tre apofonie Yah, Yeh, Yoh: vedi la contrazione יו in Gio-ele) + Hn (Chānān). A sua volta Canaan < ebr. כְּנַעַן ha la base etimologica nell’antico akk. qanānu ‘fare il nido, insediarsi’, qannu ‘il costruito’, qanu, qanā’u ‘tenere il possesso di’, ‘acquisire’; ma anche kânu ‘divenire permanente, stabile’ (di casa, territorio).
Va precisato che il nome del Dio del deserto, Yaḥ, Yḥ o Yhwh, in origine non fu altro che lo stesso nome del Dio Luna (sul quale torneremo ampiamente al Capitolo 8). Non fu un caso se il monte sacro del deserto frequentato dagli Habiru (i futuri Ebrei) fu chiamato Sināi, in onore del Dio lunare Sîn, un altro nome concorrente di Yaḥ. Il dio Luna Yah era conosciuto con lo stesso nome dall’Egitto a Babilonia. Da esso deriva il nome del patriarca Giacobbe, Yah’cobb, ‘Protetto dal Dio Luna’. Dopo la cacciata degli Hyksos dall’Egitto, il culto di Yaw continuò nella città di Ugarit sotto forma di demone del mare Yamm, ma decadde in Siria sostituito dal culto del dio della pioggia Baal Hadad. Mentre tra i nomadi Šasu Edomiti del Sinai continuò nella sua forma originaria Yhw: dio delle tempeste.
Un altro nome teoforico che propongo è Elìa, così noto dalla tradizione latina (Elias) e greca (Eleias, Elias) dall’ebr. Eliyyahu o Eliyyah: essendo lo stesso composto di Gioèle, ha ovviamente lo stesso significato: ‘El è Yahwh’, ‘El è proprio Dio’.
Altro nome teoforico è Zaccarìa, da ebr. Zekharyah (da zachar ‘ricordarsi’ e Yah ‘Dio’ = ‘Dio si è ricordato’).
Il teoforico Gioacchìno, ebr. Yohaqim è da Yah + qum ‘sollevare’ = ‘innalzato da Dio’).
Il teoforico Michèa, ebr. Mihan abbreviato da Mi-kha-yâh significa ‘chi è come Dio?’.
L’ebr. Ezeriel עַזְרִיאֵל è composto da ezer ‘aiuto’ + El ‘Dio’ col significato di ‘Dio aiuta’.
L’ebr. Matteo, Mattìa, Mattityahu מַתִּתְיָהוּ è composto da matath ‘dono’ + Yah ‘Dio’, col significato di ‘Dono di Dio’.
GIÓGLI. A fronte di questi reperti etimologici appena sciorinati, sembra oramai appianato e limpido che il celebre fantoccio portato al rogo all’acme del Carnevale sardo, ossia Giógli, ha la base etimologica identica a quella che abbiamo visto per Gioèle. Infatti anziché la base fonetica proposta ( יואל , pronuncia Yo-El) possiamo usare indifferentemente le forme apofoniche Yoḥ-Eli, che nella pronuncia sarda diviene automaticamente Yoḥ-Eli > Giògli, un arcaico nome santo che racchiude il più antico nome di Dio, ossia El, abbinato a quello di Yhwh, col significato di ‘Yah[wh] è El’, ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh). E rieccoci nel pieno della tradizione ebraica, ma trapiantata (o autoctona) in piena terra di Sardegna!
LUNA è il quinto nome del Dio Unico sardiano: anch’esso peraltro condiviso in tutto il Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Oggi per noi quell’antico termine indica banalmente la ‘luna’ in quanto materia cosmica. Wagner rimase stupefatto della bellezza poetica dell’espressione lunas de sabone ‘bolle di sapone’. Ma egli non indagò la causa di quel termine identico in tutto il Mediterraneo (salvo allacciare il lemma sardo alla solita idea coloniale di cui tutti i linguisti sono invaghiti (sardo luna < lat. luna, it. luna). In realtà la base etimologica è il sumerico lu ‘divampare’ + nu ‘creatore’, nu ‘sperma, genitali maschili’, col significato di ‘(Padre) creatore luminoso’. Presso i Sumeri la Luna era un Dio, non una Dèa, ed era considerato il Dio fecondatore dell’Universo. Insomma, scopriamo che non dall’Urbe proviene questo magnifico vocabolo sacro, ma ne scopriamo la natura autoctona, condivisa da parecchi millenni nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente.
Considerata l’arcaica antichità dei cognomi sardi, tra quelli riferiti alla Luna c’è pure Musìli, cognome che fu un termine sacro sardiano, con base nel sum. Muš ‘dio della Luna’ (SLCN 318) + akk. Ilu ‘Dio’, col significato di ‘Dio-Luna’. Cfr. sum. muš ‘faccia, apparenza’ (con riferimento all’aspetto del dio).
MERRE è il quarto nome del Dio Unico sardiano. Per discuterlo e capirlo dobbiamo collegarlo proprio al già discusso Iaccu, Santu Jacci, Santu Jaccu. Merre è interpretato da Barreca CFPS 42 come “il Dio Padre universale, presente nell’acqua di vena”, Fecondatore della Dea Madre Terra o Potnia mediterranea. Nel 1861 a S.Nicolò Gerréi in località Santu Jacci (rieccoci!) fu individuato un santuario punico di Eshmun a pianta rettangolare, edificato in blocchi di grandi dimensioni messi in opera a secco. Nell’ambito del santuario si rinvenne una base di colonna in bronzo con iscrizione trilingue (punica, latina, greca) della prima metà del sec. II a.e.v., redatta da Cleone servo dei soci alari, evidentemente delle saline di Karali, ed intestata ad Eshmun-Aescolapius-Asklepios, definito Merre, che secondo Barreca CFPS 315 è «termine del substrato mediterraneo, probabilmente significante ‘maschio’, attribuito a una divinità indigena interpretata dai punici come Eshmun». In fenicio mrr ‘significa ‘forte’, ‘esprimere forza’ (riferito a Ba‛al, il dio unico dei siro-fenici). E così siamo al Kyrios greco.
In sumerico Merre è riferito esplicitamente a Dio Unico Onnipotente: me ‘essenza divina che determina l’attività del cosmo’ + re ‘quello’ (Me-re ‘Quello della Prima Essenza, l’Edificatore dell’Universo’).
Il campo semantico che c’interessa è proprio quest’ultimo: Merre è il Dio Supremo. Da non dimenticare comunque che il dio semitico Mer, attestato nell’età accadica soprattutto nell’onomastica, figura come dio minore, e fu poi adorato principalmente presso gli Amorrei, i semiti nord-occidentali.2 Questa attenuazione della titolatura, riferita poi a Eshmun-Esculapio, non deve indurci a sminuire il fenomeno. Anzitutto ricordo che da Merre deriva il camp. mere, meri ‘padrone’, ‘signore’, il quale è la spia che nell’antichità della Sardegna la forma sumerica relativa al Dio Sommo Onnipotente non tramontò mai. Ma questa è soltanto l’anteprima.
Mi chiedo adesso perché questo tempio eretto in onore del Dio Unico Universale (la Prima Essenza) si trovasse in una località chiamata Santu Jacci. A mio avviso, il termine Santu Jacci (inteso banalmente come ‘San Giacomo’) è una paronomasia indotta, ossia una storpiatura voluta dal clero bizantino per obliterare la tradizione del Dio Unico dei Sardi, il quale veniva pure chiamato, con un termine noto anche agli Ebrei, IḤWH (pronuncia Jaḥuh e non Jahvè, come si sostiene con insulsa ignoranza da parte di molti linguisti nonchè da parte dei Testimoni di Gèova). Il clero bizantino, operando allo stesso modo per tutti gli altri nomi ed epiteti di Dio esistenti in Sardegna, fece intendere, col tempo, che Jaḥwh non era altro che san Giacomo. La stessa forzatura si nota presso gli Ispanici col loro sant’Jago (a Compostela), per quanto sia noto che le ossa di Giacomo l’Apostolo riposano nell’omonima chiesa del quartiere armeno di Gerusalemme. In Sardegna il fenomeno di Jaḥwh era così profondo, che il nome indicante il Dio Sommo e Unico rimase anche nel cognome Giágu. Peraltro tale nome sacro non poteva essere negletto, poiché esisteva già in antico accadico: yāku, ayya(k)ku, eyakku, genere di santuario riservato alle dée, specialmente quello del quartiere di Eanna ad Uruk, dov’era il santuario di Inanna o Ištar. Santu Jagu, Jaccu, Jacci, e il suo collaterale Merre, è quanto rimane oggi della vertiginosa idea dell’Unicità del Creatore, che i Sardi conservano fin dalle più remote età sumeriche, e che poi condivisero con gli Ebrei via via emigrati nell’isola dal 1000 a.e.v. Con tutta evidenza, i Bizantini non riuscirono a obliterare dal sito del tempio il nome dell’Altissimo, ma ebbero la forza, col passare dei secoli, di “santificarlo” (santu Iaccu è una “santificazione” ben riuscita, un declassamento portato magistralmente a segno; ciò riuscì bene in tutta l’isola, ovunque s’adorasse il Dio dei Sardi). Se oltre alla tradizione orale del toponimo di S.Nicolò Gerrei (Iaccu) abbiamo scoperto Merre scritto alla base di una colonna, è solo perché all’occhiuto clero cristiano era sfuggito quel nome scritto tanto in basso.
NANNA, NANNÁI, presso i Sumeri è il Dio-Luna (vedi l’Epopea di Gilgameš). Ed è pure il quinto nome del Dio Unico dei Sardiani. Questo Dio è noto agli Accadi come Sîn ma essi gli attribuiscono pure l’epiteto Nannaru come termine poetico, affettuoso, ipocoristico: quasi ‘nonno’, che è un ricordo del Nanna sumerico (adorato specialmente a Ur), con riferimento al Dio anzitutto ma poi anche a Ištar moglie di Sîn, la dea della Natura, dell’amore, della guerra. A Nanna, che percorreva la volta del cielo su un carro d’argento, occasionalmente si attribuiscono pure i fulmini e i tuoni.
Tale nome sacro viene qui riportato per la perfetta corrispondenza con nomi e toponimi sardi tipo Nanna, Nannái, Bon-nánnaro, ecc. Ma principalmente c’è una corrispondenza molto viva nell’uso idiomatico della città di Cagliari e di tutto il Campidano: Su carru ‘e Nannái, che nella mitologia sarda è il ‘tuono’. Si dice ancora ai fanciulli birichini, per indurgli panico e farli calmare: Là, là, d’intèndisi su Carru e Nannai? Chi non istas a bonu bènniri e tindi pinnigai! ‘Ascolta, lo senti il Carro di Nanna? Se non stai quieto viene a prenderti’.
Nanna nel dialetto sassarese è ‘il dormire’ del linguaggio infantile; ti porto a nanna ‘ti porto a letto, a dormire’. Il dialetto sassarese, sempre pronto ad accattare o conservare lemmi italiani antichi e moderni, conserva anche questo, usato sia nel parlare italiano sia nel dialetto: ajò a nanna ‘orsù, ti porto a dormire’. Il termine è registrato già prima di Dante.
Quanto all’etimologia, non accetto la sbrigativa presentazione del DELI, che relega il lemma nel linguaggio infantile, lasciandolo senza etimo. In realtà l’etimo esiste, occorre riferirlo al sum. Nanna, Nannai, il Dio della Luna, che era il dio più importante dei Sumeri, la cui origine è rintracciabile ad Ur. Si deve supporre che già in età arcaica nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente si usasse il termine in relazione al dormire, considerato che la Luna appare dopo il tramonto, all’ora nella quale gli antichi andavano normalmente a letto.
Questo termine appare un po’ in tutto il Mediterrano, e non solo. Abbiamo il sancrito naná e il gr. νέννος, νάννα, νίννα ‘zio materno o anche paterno’, inglese nanny ‘a woman who is paid by parents to look after their children’, nanny goat ‘capra femmina’.
L’it. (e sardo) ninna-nanna!, tipica cantilena della madre che addormenta il bimbo, ripete il termine sumerico, filtrato però attraverso il gr.-biz. νίννα-νάννα. Nannái in camp. indica pure la ‘moneta, denaro, soldi’; log. nennè. Questo termine è considerato dai linguisti ipocoristico, bamboleggiante, mentre è la forma sarda più antica per indicare la moneta. É indicativo che i Romani per indicare i ‘denari’ usassero l’antonomastico monéta, da Junō Monéta ‘Giunone ammonitrice’, nel cui tempio c’era originariamente la zecca. Altrettanto indicativo è il termine sardo nannái, nennè, che hanno la base etimologica in Nanna, Nannar, Nannai, il dio sumerico della Luna (chiamato anche Sîn, ma ad Ur chiamato specificamente Nanna). C’è da immaginare che i Sumeri di Ur conservassero il tesoro pubblico della città-stato proprio nel tempio principale, quello appunto di Nanna.
Ricordo che Sargon il Grande, nel tentativo di dominare le città sumeriche da lui assoggettate, nominò addirittura sua figlia Enkheduanna sacerdotessa della divinità cittadina di Ur. Per il periodo di Isin-Larsa si hanno documenti significativi sul commercio marittimo di Ur con Dilmun. Ur, città meridionale collegata al Golfo Persico, sembra particolarmente impegnata nel commercio marittimo, che è organizzato dal grande santuario cittadino, il tempio di Nanna (e della sua paredra Ningal). Il tempio affida ai mercanti un certo quantitativo di tessuti con l’incarico di riportare a Ur lingotti di rame (i quali dovevano avere un peso certo, come gli ox-hide sardo-cipri, e dunque valere come moneta). I mercanti, al loro ritorno da Dilmun, versano una decima di mercanzie preziose (rame, pietre dure, corallo, avorio) alla paredra Ningal. Ed è così che il grande tempio diviene rapidamente l’unica vera banca della città-stato. Ecco quindi i raccordi storici di questo lemma sardo riferito alla ‘moneta’.
ORCA, ORCU, termine notissimo in Sardegna, è il sesto nome del Dio Unico dei Sardiani, oggi rimasto a connotare parecchie domus de janas, tombe di giganti, persino nuraghi, chiamati domu ‘e s’orcu e interpretati come ‘casa dell’Orco’.
Dolores Turchi3 narra di ricordi fiabeschi, di comunicazioni verbali inviati da un nuraghe all’altro dalle fate che secondo la tradizione vi dimoravano. Uno dei racconti riguarda il nuraghe Sumbòe presso Ghilarza. «Si dice che un uomo avesse gridato al compagno, che stava un po’ distante, di voler andare al nuraghe Sumboe. Udendo ciò una fata uscì dal nuraghe di Trubeli e gli disse: Si es chi andas a Sumboe / nara a tiu Balloe / chi sa fiza est morta oe. / Oe non m’aperit chiza / che l’est morta sa fiza. (‘Se tu vai a Sumboe, dì a zio Salvatore che oggi è morta la figlia. Oggi non riesco a sollevare le ciglia perchè è morta la figlia). Anche il paese di Cabras rammenta un messaggio di morte che viene inviato da un nuraghe all’altro: De s’uraghe de Sianeddu / a s’uraghe de Zianneddu: / naraddi a sa ‘omai Orca / ca sa fiza sua est morta (‘Dal nuraghe di Sianeddu a quello di Zianeddu: riferisci a comare Orca che sua figlia è morta’)». L’abitatrice di quest’ultimo nuraghe è chiamata comare Orca (vedi lat. Orcus, divinità degli Inferi). «Questo pone la jana-fata-orca in diretta comunicazione col mondo dei defunti, dandole chiare connotazioni sciamaniche» (Turchi 31).
La Turchi non va oltre nell’indagare la vera natura dell’Orca o dell’Orco in Sardegna. Sappiamo certamente che la divinità latina degli Inferi fu facilmente trasformata e plasmata nell’immaginario popolare, da parte del clero cristiano, come un essere terribile che vive nelle tenebre, nelle caverne, e si appalesa per mangiare i bambini. Semerano OCE II 496 ricorda che Orcus è tout court l’Averno, la «personificazione del dio dell’Averno. Se ne ignorò l’origine. Antico Uragus, secondo Verrio Flacco (ap. Fest., 222, 6). Sum. urugal (Orco, Averno, il mondo sotterraneo…), con la normale caduta di –l finale per suggestione della base di sum. urku ‘cane’; cfr. sum. ur-gi, ur-ki ‘cane’, e si pensa a Cerbero».
Semerano fa un’analisi abbastanza giusta della base etimologica, ma non rende conto delle ragioni che affiancano al sumero ur-ku (letteralm. ‘cane della caverna’), al lat. Orcus e al sardo Orcu pure l’it. Orca ed il sardo Orca, la cui etimologia è invece diversa. Che al femm. Orca fosse stata confermata la stessa origine etimologica del masch. Orcus, andò bene al clero cristiano, che volle fare dell’Orca un tenebroso essere delle caverne; ma occorre comprendere che Orca è originariamente la ‘Dea Luna’, chiamata dagli antichi accadici Urḫu(m), (W)arḫu(m).
Non c’è da dilungarsi sull’importanza della Dea Luna per i popoli post-neolitici (e pre-cristiani). «Pare che gli abitanti dell’Europa antica (e, aggiungo io, dell’Anatolia e della Mesopotamia) venerassero il ciclo completo di nascita, morte e rinascita nella forma di una “grande” dea. Diversamente dalle prime culture storiche, molte delle quali adoravano le dispensatrici della vita (per esempio la greca Afrodite) mentre trascuravano di rendere onori alle portatrici di morte (per esempio, sempre in Grecia, la Gorgone Medusa), gli Antico-Europei non dividevano la grande dea in parti “buone” e parti “cattive”. La dea era una-e-molte, unità e molteplicità. La dea ibrida uccello-serpente era la grande dea del continuum vitale, la dea della nascita, della morte e della rinascita, creatrice e distruttrice, fanciulla e vecchia, una dea che nel fiore degli anni sposava il giovane dio nello hieros gamos, le “nozze sacre”, e faceva nascere – per l’eternità – tutto il creato» (Gimbutas 27). In questa dea (che poi non è altra che la Grande Madre dell’Universo) fu identificata per antonomasia anche la Luna. Ecco la ragione onde il clero cristiano, nell’intento di cancellare e denigrare le religioni precedenti, fece il piccolo sforzo di tramutare Urḫu ‘la Luna’ in Urku ‘(l’orribile) cane che vive nella caverna degli Inferi’.
SANTU JACCI, Santu Jaccu. Tutta la discussione per questo Santo è stata fatta al lemma Iaccu, di cui Santu Jacci è – con forte evidenza – la “santificazione” del nome di Dio fatta dai preti bizantini al fine di “strappare” il nome venerando dal culto degli antichi Sardi.
SUÌNA. Questo è il settimo nome di Dio. Sarebbe lungo trattare dei modi che i preti bizantini nei secoli bui precedenti il Mille adottarono per combattere, debellare e annichilire le sopravvivenze pagane nell’isola di Sardegna. Abbiamo già visto il gioco facile di relegare l’effige del Dio della Natura – il porco – tra gli esseri schifosi e reietti. Parimenti avvenne per il suo aggettivale suìno. Va premesso che nel latino classico sŭinus (da sūs, sŭis ‘porco, maiale, scrofa’) non veniva utilizzato; al suo posto si usava sŭillus. Si arrivò a sŭinus per demonizzare il porco (ch’era l’effige sacra del Dio della Natura) e con esso la Gran Madre Terra. Il gioco linguistico fu facilissimo, visto che l’aggettivale relativo al maiale era identico al nome che da sempre identificava il Dio-Luna sumero-accadico, chiamato Su’īn, Su’ēn, poi divenuto Sîn per contrazione. In Sardegna, a Morgongiòri, si celebra ancora una Santa Suìna, anticamente più nota come Suìŋa a causa della nasalizzazione della /n/. La si intende come Sofìa perché ormai la memoria storica è stata recisa, ma non fu altro che la Dèa Madre o Dèa Luna (più anticamente il Dio Luna).
DÉU, DÉUS. Ci sarebbe un ottavo nome di Dio tra quelli usati nella Sardegna antica, ed è Déu. Ma forse è meglio distinguerlo rispetto alla discussione sin qui fatta per gli altri, visto che questo nome è veramente universale, a dispetto di quanto pensa lo stuolo dei linguisti che vorrebbero imporre alla Sardegna l’irritante balzello della “eterna colonizzazione”, quindi della “derivazione del pensiero sardo da altri centri più evoluti”. Salvo poi capirsi definitivamente sul concetto di “centri più evoluti”, visto che quando nacquero i concetti di “Dio”, Atene e Roma, gl’inossidabili idoli dei nostri linguisti, stavano ancora in mente Dei, nella mente di Zéus, mentre la Sardegna da oltre 1000 anni aveva costruito i suoi splendidi nuraghi, che furono eretti proprio in onore del Dio Unico, il Creatore dell’Universo.
Vale la pena citare Ζεῦς, ‘Dio’ per antonomasia, che fu il massimo dio dell’Olimpo. Figlio di Crono e Rea e fratello di Poseidone, Ade, Estia, Demetra, Era, egli apparve in Grecia come il padre degli déi e degli uomini. Ma il suo apparire a capo di un pantheon ci porta intorno al 1200 a.e.v. (Iliade), allorchè il nome di Déus/Zéus stava circolando per il Mediterraneo da millenni.
In verità, il sardo Déu è panmediterraneo, pronunciato in Grecia Zéus, in Sardegna Déu, a Roma Deus. Il termine sardo è a dir poco coevo a quello greco e al lat. deus, ma la realtà è un’altra, poichè le prove linguistiche ne confermano un’antichità molto più remota. Il termine pansardo, assieme a quello greco e latino, ha un’arcaica base nel sum. de ‘creare’ + u ‘totalità, universo’: de-u, col significato originario di ‘Creatore dell’Universo’. Che poi il skr. deva ‘dio’ abbia la stessa radice sumerica, è ulteriore indizio che fu proprio il bacino sumerico a irraggiare il concetto del Principio Universale. Vale la pena aggiungere che dalla base di ‘splendore’, de ‘creatore’ i Sumeri forgiarono un proprio termine per nominare propriamente Dio, ed è dingir, di-ĝir, che significa esattamente ‘Dio dei Sumeri’ (dove di significa ‘Dio’, ĝir significa ‘autoctono, nativo’ ossia ‘Sumero, colui che vive nella terra di Sumer’).
Non è vero che il gr. Zεύς trascriva la z– da una *dy– indoeuropea (Rendich, LI), invece la trascrive direttamente dal sumerico d-. Nel quadro dei confronti paralleli fu portata confusione dall’intromissione del lemma greco θεός ‘dio’, poichè non si è voluto render conto che θεός non è nome proprio ma nome di genere: indica qualunque dio del pantheon greco, dai quali si distingue propriamente Ζεύς col suo nome personale. Principalmente non si è voluto tener conto che il concetto greco di θεός è precisato dal collaterale verbo θέω ‘brillare, sfolgorare’: quindi θε- è forma distintiva (oppositiva) ch’esprime lo stesso concetto della radice sumerica di ‘sfolgorare’, cui si erano omologate le altre radici “indoeuropee” in dī– (es. lat. di-us), relative alla ‘luce del giorno’, allo ‘splendere, brillare, render chiaro’, che appunto hanno la base nel sumerico di ‘brillare, sfolgorare, to shine, to be bright’. Quindi il lat. di-us ‘luminoso, divino, del cielo’, di-es ‘giorno’, gr. dī-os ‘brillante, divino, celeste’ hanno la base nel sum. di ‘to shine, to be bright’ + u ‘universo’, col significato originario di ‘illuminare l’universo’; non sono quindi scomponibili in *d-ī, come pretenderebbero invece gli indoeuropeisti, che lo traducono bolsamente come ‘moto continuo (ī) della luce (d)’ (vedi Rendich), ossia in un modo che sta agli antipodi del pensiero scientifico.
PALU. Questa nona etimologia introduce un altro (?) nome di Dio. Riconosco che la mia proposta merita d’essere discussa e capita, poiché pare stravagante, o almeno mostra pochi addentellati rispetto a quanto sinora abbiamo visto per gli altri nomi di Dio.
Cionondimeno, vorrei intrudurla parlando della Grutta dessu Palu, che sta nel Supramonte di Urzuléi, lungo la Codula de Ilùne. L’origine più facile del termine Pálu sembrerebbe essere, a prima vista, il lat. pălŭs ‘palude’. Ma questo in Sardegna sarebbe inaccettabile: l’esito sardo di pălŭs, palūdis è paùli, non palu. Il sardo palu significa più precisamente ‘pendio montano’ (per es. in Anglona), mentre in Ogliastra si preferisce la forma femminile pala. Ma pure tale significato è da rifiutare. Non mette nemmeno conto considerare il termine akk. palāšu ‘perforare, bucare (parete, roccia)’ con riferimento alla celebre grotta di Su Palu, appunto.
Resta in piedi l’unico termine accettabile, che è palu < lat. pālus, pālum ‘palo’ < akk. palûm (a staff, un bastone). Ma sorge un’obiezione metodologica, perché questo significato appare fuori dagli schemi. Quindi per la quarta volta ci sarebbe da opporre una ripulsa. A ben vedere, però, il lat. pālus significa anche ‘fallo’, gr. φάλλος. E nell’intendere ciò gli antichi Latini non operavano alcuna forzatura semantica, non giocavano con la magia della metafora. È che le forme d’adorazione dell’Essere supremo, del Supremo Fecondatore (fosse egli chiamato Giove o Zeus o Baal) erano espresse col Palo in tutto il mondo conosciuto, dalla Mesopotamia sino alla terra di Canaan sino all’intera Italia, ed anche in Sardegna (ricordiamo le ligna et lapides di Gregorio Magno). In Atene le processioni del Phállos furono così importanti da generare persino una forma letteraria d’importanza universale: la tragedia.
In Italia l’antica Processione dei Falli ha mutato nome (si è… imborghesita) e, cristianamente, è divenuta la Processione dei Ceri, rimasta vivissima a Gubbio ma principalmente a Sassari (oltrechè a Nulvi, Mores e Iglésias). I Ceri in realtà sono di legno (ad Atene erano già di legno, sono stati sempre di legno: legno di fico; anzi si preferiva scolpire direttamente il fico in forma fallica, considerato che questo era il fruttifero più importante della civiltà greca).
In Sardegna dobbiamo supporre che le Feste Falliche fossero tenute vive un po’ dappertutto, ma specialmente nella città “tharrense” di Tyrris Libysonis, prima e dopo la rifondazione romana. Solo così si spiega perché i Sassaresi (che sono i fuggitivi di Tyrris Libysonis) conservino ancora come reliquia d’incommensurabile valore la loro Fełstha Manna, ossia la Faraḍḍa, che è una delle processioni laiche più spettacolari dell’intero Mediterraneo.
Potremmo quindi dare a Palu l’ultimo significato ammesso, anzitutto perché l’acqua della Codula d’Ilùne, proprio nel sito di Su Palu, viene “inghiottita”: e ciò ha un significato sacro d’altissimo valore. E poi perché la celebre Grotta (una delle più importanti d’Italia) non sta proprio sul ‘pendio montano’ (che è il secondo significato espunto) ma è prossima alla repentina sparizione del corso d’acqua di questa códula. Rimando al lemma Teletottes (= ‘fiume che va sotto’) per capire l’importanza del più ampio sito così chiamato4, vicino al quale sta anche la grotta e lo scenografico inghiottitoio, costituito da un laghetto che recepisce il fiume sempre in piena, inghiottendolo; e un metro oltre comincia l’aridità totale della golena, che rimane tale sino al mare. Gli antichi vedevano in ciò il Sacro Sperma che penetra nel mistero della Sacra Vagina. Ci sono tanti elementi, dunque, per affermare che in questo luogo s’adorava il Palo, l’albero scorticato (e forse effigiato) a forma di fallo, che poi era l’effige di Ištar, la dea fenicia dell’amore, che presiedeva anche alla prostituzione sacra.
Sa Grutta dessu Palu era, evidentemente, un altro dei non pochi siti sardi nei cui pressi veniva praticata quella strana forma di culto naturalistico dedicata ai Genitori dell’Universo.
A proposito di Ištar-Tanit, che era la compagna di Baʽal, va sottolineata questa singolare attestazione del suo simbolo, il fallo, che è prettamente maschile. Ma ciò detto, non si può sottovalutare, in questa ricerca etimologica, proprio il nome del dio Baʽal; immagino che il toponimo Palu indicasse direttamente questo Dio, attestato in Sardegna. Egli, particolarmente onorato in Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna allo stesso modo. Onde sembrerebbe sotteso proprio il suo nome in tutti i toponimi o nomi sacri che lo echeggiano in Sardegna, a cominciare dal dorgalese (Nostra Sennora de) Balu Irde o Palu Irde, che è la Madonna di Valverde. Quel Valverde, tipico delle chiese campestri dove si adora una Madonna cristiana sconosciuta fuori dell’isola, non è altro che la paronomasia di Baʽal Irdu (akk. Bēlu Irdu, Bēlu Išdu), un epiteto sacro col significato di ‘Signore Base-del-Cielo’, ‘Baal Base-del-Cielo’.
BAʽAL. Gli altri nomi di Dio reperiti nell’antica Sardegna sono di evidente importazione. Ciò vale ad esempio per Baʽal, che è il nome di Dio attestato un po’ in tutto il Vicino Oriente: in arabo, ugaritico, fenicio, punico, aramaico, nabateo, palmireno, amorrita, babilonese, accadico. In ug. fa bʽl ‘signore, proprietario’, in amorrita baʽlum, in bab. ba’lu ‘grande, maggiore’, in akk. bēlu ‘signore, proprietario’, e così via. Questo Dio, particolarmente onorato a Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna, e suppongo che la sua massima penetrazione in terra sarda avvenne proprio in epoca cartaginese.
Va da sé che tale nome di Dio fu gestito anzitempo già dai navigatori Sardo-Fenici, che per parecchi secoli condussero i traffici tra la Sardegna e il Vicino Oriente. E poi rimase talmente concrezionato nel sistema culturale sardo, da aver dato persino dei cognomi. Abbiamo ad esempio Devaddis, cognome da sciogliere in de Vaddis riconducendolo al cognome citato nel condaghes di Silki, Trullas, Salvennor come de Valles e de Balles (Trullas). Questo cognome quindi è un patronimico, indica la filiazione da Balles, o indica direttamente il cgn Balles (De Balles, poi De Valles = ‘dei Balles’, ‘dei Valles’). È chiaro che il cognome a sua volta era già corrotto al momento della sua redazione nei condághes. Sicuramente l’origine del cognome è sardiana e pure mediterranea, e indicò il dio fenicio Baʽal (Bʽl) con base nell’akk. ba’ālu, balû ‘supplicare’, ugaritico bʽl ‘signore’. Da ba’ālu si ebbe *Balle, Balles, ed anche il cgn italianizzato Valle, Devalle, Della Valle.
A mio avviso, fu così espanso e generale il nome del dio Baʽal, che pure il toponimo Paláu (comune della Gallùra) lo ebbe per antonomasia. Paláu è da confrontare con Balláo, altro nome di villaggio sardo. Vedi anche Punta Palái nella catena del Márghine, e Peláu (idronimo dell’Ogliastra). Ma vedi pure Baláy, antico nome di Balláo e nome del promontorio dove furono giustiziati i protomartiri turritani Proto, Gavino, Gianuario.
In catalano palau significa il ‘palazzo’, ma è improbabile l’abbinamento di questo lemma con i toponimi sardi affiancabili a Baʽal (Bʽl).
Conosco la topografia del territorio di Paláu, a cominciare dalla celebre statua naturale dell’Orso. Il suo porto naturale e le sue alture litoranee, ammantate d’un fascino struggente, non poterono essere state ignorate dai naviganti. Si sa che i Fenici, sia pure quando non lasciavano tracce, navigavano tutt’attorno alla Sardegna per commercio, ed avevano la sana abitudine di depositare sulla spiaggia o sul “molo” la propria merce, risalendo sulla nave ed attendendo educatamente che gl’indigeni s’avvicinassero e lasciassero oro, argento o altra merce di baratto. Scendevano nuovamente, e risalivano a bordo varie volte, in mutuo (e muto) accordo con gl’indigeni, sino a che non si raggiungeva un ragionevole equilibrio tra il valore intrinseco della merce e quello datogli dagli acquirenti. Poi ripartivano (Erodoto). Ma se vedevano che il sito era degno del loro Dio, allora gli erigevano un tempio, senza lasciare gente, e se ne andavano, sicuri che gl’indigeni risparmiavano religiosamente la nuova struttura. Orbene, se i Fenici (ed i Sardi) erano di tal fatta, è facile ammettere che la radice del toponimo Paláu sia identica a quella di Balláo, di Baláy, di Palái, perch’erano tutti siti degni di conservare un tempio a Baʽal. Peraltro possiamo sempre ammettere una sovrapposizione fono-semantica alla forma Baʽal del più antico akk. palaḫu ‘onorare, venerare’.
SAMASSI. Un ulteriore nome di Dio appare in Samássi, nome di un comune del Medio Campidano. Il toponimo è attestato in RDSard. a. 1341 come Somaso, l’anno seguente come Semasse.
Giusto quanto proponeva lo Spano, deriva dalla forma akk. Šamaš, il dio ‘Sole’ (esattamente il dio dell’accadica Sippar), ebraico Šeméš (ֶשֶׁמֶשׁ ) tramandatosi identico nel pantheon cananeo. La base è l’akk. šamû, ug. samû ‘cielo, volta celeste’ come fenomeno naturale e sede degli déi. Va ricordato che Šamaš nel (cosiddetto) “pantheon” mesopotamico è da considerare emanazione del Dio Luna, e poi, quando il Dio Luna fu “femminilizzato”, il suo paredro. Non è un caso che Šamaš sia scomponibile in šamû + māšu(m), ma(š)šû ‘gemello (fratello/sorella), detto di deità: stato costrutto šam-ma(š)šû, quindi col significato di ‘Gemello (fratello) della Risplendente’.
SASSU. Oltre al toponimo Samassi abbiamo pure il cognome Sassu legato al Dio Sole. Questo cognome è già registrato nel codice di S.Pietro di Sorres e nel CDS II 58/2, 60/1. Ciò è segno di alta antichità. Pittau CDS, con facile e banale assonanza, lo fa derivare dal sardo sassu ‘sabbione’ < lat. saxum. Invece vanno ricordate due cose: anzitutto che Šašu erano chiamati nel Nuovo Regno egizio i nomadi del Sinai (1540-1070 a.e.v.). Se l’origine fosse questa, avremmo una ulteriore prova, per via indiretta, del “ritorno degli Shardana” in terra sarda. Infatti la teoria che gli Shardana d’Egitto si fossero almeno mischiati agli Hyksos, prima che questi rifluissero verso il Sinai, ha parecchi sostenitori. Per questo discorso, vedi più su nel paragrafo che tratta i popoli della Sardegna.
Ciò detto, è parimenti possibile che il cgn Sassu indicasse tout court il Dio Sole, da akk. šaššu, šanšu, šamšu ‘Dio Sole’. Nulla osta a vedere nel succitato etnico Šašu un termine autoreferenziale coniato esplicitamente da tale raggruppamento, che volle chiamarsi ‘Popolo del Sole’. Col ritorno degli Shardana, tale etnico si radicò in terra sarda, divenendo il cognome Sassu, che i Bizantini ebbero buon gioco a presentare oramai come l’equivalente del lat. saxum.
TANIT. Nel trattare le divinità somme, era inevitabile giungere a parlare di paredro o paredra. Nell’antichità non ci fu alcun Dio Unico che non avesse la propria paredra. Notissima paredra importata in Sardegna fu la dea Tanit, che aveva il posto più importante a Cartagine e significativamente, per una città prettamente commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica. Tanit era una delle consorti di Baʽal ed era venerata come dea protettrice della città; godeva di speciali favori e venerazione da parte dei cittadini di Cartagine e del suo impero. In Sardegna la sua effige appare parecchie volte. Era la dea della fertilità, dell’amore e del piacere. Il simbolo di Tanit era la piramide tronca portante una barra rettangolare sulla sommità. Su questa barra appaiono il sole e la luna crescente (ossia i gemelli astrali). Questo simbolo può essere osservato nella maggior parte delle steli delle necropoli puniche.
Per quanto attiene alla base etimologica del nome sacro, sfogliando i dizionari di tutte le lingue morte euroasiatiche siamo in grado di mettere in rilievo parecchie radici. E così abbiamo sumerico dan, tan ‘strong lord (human)’, ‘Lord of all’; egizio dana ‘a venerable man’; dani ‘title of sun-god Ra’; Tann ‘the great god’, ‘a very ancient Earth-god’; dan-dan, title of Āpap, the serpent of evil; Tannit, goddess consort of Tann; sanscrito dāni ‘valiant, victor, courageous’; Dānava, a class of demons, sons of Danu and enemies of the gods; greco dynastēs ‘lord, master’; Danu-oi, title of Greeks; latino dan ‘master’; don ‘master, lord’; gotico e antico bretone dan ‘lord’; Hālf-Dan ‘lord of the half of the world’, a title of Thor; cornico e celtico den, dyn, a man; cornico din ‘worthy’; antico inglese thein, thane, dan ‘master’; inglese dan, a title of master or sir. Il termine è poi passato nell’uso delle lingue moderne, quale don, un titolo spagnolo di nobiltà; Danann, una famosa corsa di cavalli in Irlanda; din-astico, aggettivo relativo alle casate reali; din-àmico, ‘che ha molta energia’.
ISIDE. Anche la somma divinità egizia (l’originaria Dea Madre dell’Universo) non è meno famosa. Isis, detta in egizio Ȧst, Ast (da cui il cognome sardo Aste), viene anche pronunciata Iset col significato di ‘trono’, per l’acconciatura del capo a forma di trono. Nella pronuncia semitica e greca Ísis riconosciamo l’origine etimologica dal sum. isiš ‘dolore, tristezza’. Si conosce la storia teologica di questa figura, che fu per gli Egizi quella che per gli Occidentali è la Madre di Gesù Cristo (ma sarebbe meglio dire la Sua paredra). Come Cristo, suo marito Osìride muore e risorge ogni anno. Ella regnò assieme a Lui sugli uomini, creando delle buone leggi e governando il regno con equità, mentre il suo sposo andava guerreggiando per il mondo. Ella è il modello di sposa e di madre, che alleva il proprio figlio con immensa tristezza nel desiderio di vendicare l’uccisione di suo marito avvenuta per mano del fratello Seth. Ella è la Madre Universale che tiene sulle ginocchia suo figlio Horus. Deriva da questa interpretazione il grande seguito che Iside e i suoi misteri ebbero nel mondo greco-romano. Iside concepì Horus dopo la morte di suo marito. In questa concezione pare di vedere in nuce il mistero teologico della “verginità di Maria”.
L’altro aspetto di Iside è quello di maga. Una leggenda del ciclo solare presenta Ra come un sovrano terrestre che, invecchiato, camminava sbavando; dalla terra bagnata dalla saliva Iside trasse un serpente che punse Ra. Questi chiamò gli déi per riceverne sollievo ma nessuno vi riuscì. Iside si propose di risanarlo a condizione che Ra rivelasse il suo nome segreto, fonte della sua potenza. Ra tentò d’ingannarla dicendole svariati nomi, ma la dea non si lasciò ingannare e alla fine Ra rivelò il segreto. Iside divenne così la signora dell’Universo. Da tutto ciò Iside trae il suo carattere di divinità universale, fonte di vita e di potenza magica.
ORU. In Sardegna il culto di Iside fu poco noto. Lo fu invece il culto di suo figlio Ḥor, Ḥoru, evidentemente radicato ad opera del forte elemento egizio che nei miei libri (es. I Cognomi della Sardegna) ho messo in evidenza. Una chiara dimostrazione sta nel cognome sardo Santόru, che secondo Pittau DCS è sardizzazione dell’it. Santòro. Ma Pittau, lungi dall’avere talento per le etimologie, pecca sempre d’italianismo, ossia trova sempre nell’Italia di oggi ciò che avrebbe dovuto trovare nelle età arcaiche. Preciso che in Sardegna per Sant’Óru s’intende san Giòrgio (specialmente a Perdas de Fogu, dove c’è anche uno spuntone strapiombante sul Flumineddu, chiamato Bruncu sant’Óru). Occorre chiedersi perché in Sardegna ci sia una differenza fonetica incolmabile tra Giorgio e Óru. Questo fenomeno unico va spiegato tenendo sempre presenti le forzature fono-semantiche operate dai preti bizantini.
Per comprendere la questione va precisato che Giorgio-Giogli in mezza Sardegna rappresenta il Re del Carnevale, ossia il pupazzo oggetto di ludibrio che viene messo a morte la notte del Martedì Grasso. Vedi più su Giogli e il suo etimo. Egli un tempo rappresentò ovviamente il Dio della Natura. Quindi a Perdasdefógu quel “Giorgio” non fu altri, in origine, che il Dio della Natura, il Dio della Fecondità, della rinascita della Natura e del Creato. Non è un caso, infatti che l’attuale Santu Óru rappresenti la “santificazione” (avvenuta ad opera dei preti bizantini) di Urû, che in accadico è lo ‘Stallone’ per eccellenza, qualsiasi stallone, ossia ogni animale che monti una femmina per riprodurre la specie. Urû fu uno degli epiteti privilegiati del Dio della Natura e, guarda caso, fu anche il nome del dio solare egizio Ḥoro, Ḥor (eg. Ḥr), che appunto secondo i miti dominanti s’identifica negli déi solari Ra e Aton.
Salvatore Dedola
1 Paolo Matthiae, La Storia dalla Preistoria all’Antico Egitto, p. 262-63, La Biblioteca di Repubblica
2 Paolo Matthiae, La Storia, dalla Preistoria all’Antico Egitto, p. 284, La Biblioteca di Repubblica
3 Lo Sciamanesimo in Sardegna, 31-33
4 Vedi S.Dedola, La toponomastica in Sardegna, Grafica del Parteolla, 2012
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