Il Carnevale in Sardegna: la nascita del Teatro

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Nascita del drama; il teatro. Nei misteri il richiamo insistente a Diόnysos quale donatore della Vitis vinifera, ed a Demetra quale donatrice dei cereali, intende mettere in scena la rappresentazione dell’agricoltura, quella conquista epocale che traghettò l’uomo dalla ferinità alla civiltà.

Anticamente si credeva che la ripetizione scenica di un evento cruciale (in questo caso le operazioni agricole) ne rafforzasse le probabilità d’un esito felice. Ecco la causa delle rappresentazioni misteriche (e di conseguenza dei Carnevali): erano operate in forma drammatica, e si confezionavano anche le maschere dei singoli personaggi rappresentati: chi si vestiva da agricoltore, chi da toro aratorio, chi portava l’aratro, chi si vestiva da baccante, chi portava il vino, chi portava il maiale grufolatore, chi infilava sul capo l’intero teschio del caprone, o del toro, o del porco in quanto animali inseminatori e fecondatori. L’uomo ha sempre appagato il proprio immaginario con simboli. Senza simboli, senza statue, senza mimica teatrale, la fantasia dell’uomo non ha mai avuto un referente su cui affiggere le proprie preghiere. Ecco spiegata tutta la trama del Carnevale sardo. La stessa trama, le stesse processioni da cui nacque il teatro greco, la tragedia, le rappresentazioni drammatiche del Mediterraneo. La stessa trama che vediamo solennizzata nei singoli atti della Messa cristiana.

Anche le figure più segrete, le più solenni, quelle nascoste nel sancta sanctorum del Tempio eleusino, erano cose la cui banalità lascia persino stupefatti. Ippolito (Refutatio omnium haeresiorum V 8, 39-40) scrive: «Gli Ateniesi, quando celebrano l’iniziazione eleusina e mostrano agli iniziati al grado della contemplazione, in silenzio, quello che è il grande e straordinario e perfettissimo mistero dell’Aldilà, oggetto di contemplazione, la spiga mietuta…». Ed ancora (V 7, 34): «Questo… è il grande segreto degli Eleusinii: “Piovi, resta gravida”». E Tertulliano (adversus Valentinianos I, 1-3): «…nei riti di Eleusi… la divinità interamente celata nei recessi dei santuari, questo oggetto di tutti i sospiri degli epopti, per cui sulla lingua è posto per intero il sigillo del segreto, si rivela una rappresentazione del membro virile…». Oppure Ateneo XIV, 56, 647): « Mylloi… sono dolci di sesamo e miele modellati in forma di pube femminile, portati in giro in onore di Demetra e Persefone».

L’uomo non ha mai potuto astenersi dal rappresentare e sacralizzare i simboli della vita e della procreazione, perché da quelli dipendeva la propria esistenza e la propria progenie. E pure il rito di sacrificare il maialetto (hostia), arrostirlo o sbranarlo da vivo, lasciarlo crudo e distribuirlo in pasto ai fedeli, era la messinscena del mito di Adone sbranato e mangiato dai Titani. Che la Chiesa abbia sostituito l’hostia con un pezzo di pane e poi con la sbrigativa cialda, non muta affatto la plurimillenaria tradizione. Come non è mutamento di scena il fatto che l’hostia venga incastonata nell’immagine del sole e protetta nel tabernacolo, entro il sancta sanctorum. E non cambia nemmeno l’altro simbolo della Chiesa, la croce dove Cristo viene appeso, emblema di supplizio, lo stesso supplizio che Dionysos – mutatis mutandis – subì ad opera dei Titani.

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