La Prostituzione Sacra

[et_pb_section bb_built=”1″][et_pb_row][et_pb_column type=”4_4″][et_pb_text _builder_version=”3.0.83″ text_orientation=”justified”]

19.  La prostituzione sacra

I siti di prostituzione sacra. I templi šardanici erano di due tipi: il tipo maschile era rappresentato dai nuraghi a tholos – il pieno-sul-vuoto a imitazione del membro sacro – per ospitare sulla terrazza il Fuoco Sacro, unica ‘immagine’ consentita (gattu/kattu/katzu) del dio Sole. Dove c’era l’acqua si costruiva il tempio femminile, il tempio a pozzo, il vuoto-nascosto-dal-pieno, la tholos seminterrata riproducente la nascosta vagina della Dea Madre che riceve il liquido, il sacro sperma.

Ma anche i Fenici e tutti i navigatori mediterranei che capitavano in Sardegna avevano bisogno dei propri templi. L’urgenza degli indaffarati navigatori-commercianti fu di erigere il tempio di Astarte, o almeno il suo témenos. E gli amici Šardana, rispettosi delle pulsioni degli ospiti, contemperarono la faccenda suggerendo d’erigere il tempio un po’ fuori dell’abitato di Karalli, poco discosto dalla duna portuale, in sito elevato ma non lungi dalla costa, per non ottundere l’ascolto del coro muliebre richiamante ai piaceri dell’amore. Il sito ideale fu quello dell’attuale chiesa di santa Eulàlia, dove c’era uno spuntone calcareo poi ripianato dall’attività di cava. Nome bizantino, Eulàlia significa ‘eloquente, ciarliera’. Le ierodùle di Astarte, le prostitute sacre, dovevano gridare forte dal recinto del tempio affinché la turba dei marinai udisse i richiami. Lapòla è il nome attuale del sito, casto aggettivo (suffissato col sardiano -la), ineffabile ricordo del sardiano-babilonese lābû ‘ululare, guaire, strillare, gridare’, e labû ‘belare’. Ma è probabile che il nome sia sumerico, da labi ‘sussurrare tenerezze’, ‘fare la vezzosa’ + ulum ‘exclamation’: il significato di ‘esclamazioni vezzose, grida vezzose’ torna un po’ allo stesso significato accadico.

Il tempio fu azzerato nei primissimi anni dell’Era volgare, forse per effetto della nuova ideologia moralizzatrice imposta da Cesare Augusto. Ma in seguito ci si mise pure il clero bizantino a cancellare persino l’imbarazzante memoria del glorioso e millenario lupanare, un ricordo sopravvissuto sin oltre i tempi di Costantino, oltre l’ondata sessuofobica imposta dai Padri della Chiesa, sino a Gregorio Magno. Immagino infatti che l’aggettivale Labòla/Lapòla avesse continuato a connotare l’infame sito (sulla fattispecie di quanto succedeva a Roma per la Suburra), e che poi i preti bizantini, con la consueta pervicacia, abbiano infine operato persino la cancellazione del toponimo, trasponendo Lapòla in Eulàlia (traslazione paronomastica, ma esatta nella semantica). Fatto sta che i Catalani nel XIV secolo ritrovarono nel sito un toponimo identico al nome della loro patrona, la santa di Barcellona, e ne approfittarono per erigere ad Eulàlia una chiesa, o ad ampliare e migliorare il rudere bizantino che probabilmente era stato eretto a suo tempo.

Ora, nessuno pianga sul naufragio dei bei tempi andati. E non mi riferisco alla chiusura del lupanare. Ma Pittau, amico dei Lidi, comprenderà che la sovrapposizione coatta di Eulàlia a Lapòla cancella oltre mille anni di storia. Erodoto, I, 94, rammentava che “Le istituzioni dei Lidi sono pressappoco quelle dei Greci, salvo che essi prostituiscono le loro figlie”. Ecco, le numerose prove del Pittau a proposito del passaggio dei Lidi in Sardegna difettano proprio della prova della prostituzione sacra, nonostante che uno di questi siti stesse proprio alla periferia della sua città (oggi è addirittura inglobato nel quartiere di Istiritta, Nùoro).

Ma quale apporto ci dà l’archeologia per capire la questione Lapòla/Eulalia? Donatella Mureddu (CRM 56), nell’analizzare l’importantissimo scavo da lei diretto sotto la chiesa di santa Eulàlia, comincia col dire che «il settore occidentale del quartiere [di Lapòla/Marina] era occupato da un edificio templare tardo-punico riutilizzato in epoca romana». E ciò combacia con quanto supponevo. Poi prosegue: «La prima fase di frequentazione è situata nell’ambito di un’area marginale rispetto al centro urbano, caratterizzata da un leggero pendio con estesi affioramenti di calcare, nella quale era impiantata un’attività di cava a cielo aperto. L’estrazione dei blocchi avveniva per larghe superfici gradinate, tagliando la roccia con incisioni ortogonali, dopo averla spianata… I dati archeologici collocano intorno al III sec. a.C. l’inizio di opere edilizie documentate da strutture murarie in blocchi squadrati di incerta interpretazione. È invece riconoscibile la funzione del basamento ottenuto dalla giustapposizione di blocchi squadrati al cubo risparmiato nella roccia, pertinente, con ogni probabilità, ad un thesaurus circondato da un piccolo recinto. Si trattava della parte inferiore di un contenitore per le offerte monetali dedicato ad una divinità a noi, per il momento, sconosciuta. La cavità scavata nella roccia era la stipe al cui interno le monete rinvenute costituivano, forse, solo una parte delle offerte dei devoti, sfuggite alla razzia che dovette seguire la distruzione del thesaurus».

L’archeologia dà preziosi addentellati alla mia tesi, facendo risalire il tempio punico (sulla base della ceramica rinvenuta) almeno al III sec. a.C. e facendolo decadere all’inizio dell’Era volgare. La stessa Mureddu poi precisa che templi del genere (“questa singolare costruzione”) sorgono sempre in area suburbana, e che la favissa è “in genere costituita da un basamento provvisto di una cavità per la raccolta delle offerte, in corrispondenza della quale era sovrapposto un elemento cilindrico o tronco piramidale di pietra, cavo all’interno, sul cui lato superiore era praticata una fessura per l’introduzione delle monete”. Se ne sono trovate parecchie centinaia, di monete, entro questa favissa alla base di S.Eulalia: essa, si noti, non conteneva ex-voto ma solo monete paganti. Non importa se a tale tempio del III sec. a.e.v. sia preesistito il tempio fenicio vero e proprio, o se quei naviganti si fossero accontentati, sino al sopravvenire dei Punici, d’un témenos con tettoie posticce e Palo al centro. Certo è che la memoria di frequentatori paganti moneta sonante è connessa, per i templi antichi, precipuamente al tempio di Astarte.

Ad un esame neutrale della faccenda non sfugge il silenzio tombale che da 1700 anni copre il fenomeno panmediterraneo della prostituzione sacra. Silenzio opportunamente compartecipato dalle tre grandi culture, quella latina, quella greco-bizantina e quella ebraica, concordi nel considerare la pratica un oltraggio al pudore. Tra gli Ebrei era punita con la pena di morte (Dt 23, 18; Lv 21,9); tra i Romani era sbrigativamente lavata in famiglia con l’uccisione della colpevole; così pure tra i Greci, dai quali proviene la documentazione, tra il giornalistico (Luciano: Dialogo sulle meretrici) e lo stupefatto (Erodoto, passim), quando non di aperta condanna delle abitudini semitiche.

Semiramide è la mitica capostipite letteraria dell’infamia legalizzata. Nel Medioevo si era certi che la regina fosse stata sorpresa a letto col figlio, e per salvare il regno emanò un decreto frettoloso che consentiva l’incesto a tutte le donne. L’Aligheri ci credette (Inferno, V, 59: “libito fé licito in sua legge”) perché la notizia era stata propalata nientemeno che dall’apologeta Paolo Orosio. Ma intanto bisogna precisare che l’archeologia e la linguistica semitica nel Medioevo erano inesistenti e si dovette aspettare la fine dell’Ottocento per cominciare a balbettare qualcosa di certo sulla storia del Vicino Oriente, sino ad allora narrata come chiacchiera, nello stile appunto di Paolo Orosio (Historiarum adversus paganos libri VII).

Però se Dante riportò l’episodio (non importa quanto distorto) vuol dire che il mito aveva pulsato dolorosamente fino ad allora, da millenni, senza che le tre civiltà dalle quali è nato il pensiero e la cultura occidentale fossero mai riuscite a farsi una ragione dei costumi semitici e lidii. Certo, è difficile farsene una ragione, quando Strabone informa che, ad esempio, in una sola città della Cappadocia c’erano seimila prostitute.

Perché tutte, proprio tutte le donne di una città dovevano fare le prostitute? Seimila in una sola città! Ed a Babilonia, ch’era un’immensa megalopoli, quante ce n’erano? Forse superavano le centomila. A questo rito dovettero soccombere anche le ebree deportate a Babilonia (presso il fiume Guzan); lo supponiamo, nonostante il silenzio della Bibbia che ci stende un velo pietoso. Ecco spiegato il motivo per cui queste ragazze, tutte insieme, all’unisono, belavano, urlavano, insomma facevano casino. Dovevano farsi notare, dovevano sciogliere quanto prima il voto alla dea della fertilità, tornare al più presto a casa, alla vita normale, uscire da quell’inferno. Sì, perché nonostante le eterne scorrerie di eserciti da una parte e dall’altra, nonostante l’assidua navigazione d’intere flotte fenicie (le donne indigene, per norma cogente, dovevano vendersi soltanto agli stranieri di passaggio!) gli uomini richiamati quotidianamente dalle urla belanti non erano poi molti. Peraltro l’eternità e la stupidità della guerra falciava solamente gli uomini, e le fanciulle correvano il serio rischio di sostare nel tempio di Astarte qualche anno, prima di tornare a casa.

Semiramide (Šammuramat) era la bellissima moglie di Ormete. Il re Nino (Šamsi-Adad V: circa 823-810 a.e.v.) gliela portò via, agendo però meno cinicamente del re Davide che per impossessarsi di Betsabèa mandò in guerra il marito obbligando i generali a metterlo sempre tra gli assalitori delle mura, affinché trovasse la morte. E la trovò. Sappiamo che Semiramide fu poi reggente del figlio Adad-Nirari III salito al trono nell’805, ma Ateneo sostiene che la regina di Ninive era d’origine cortigiana, poco propensa a perdere il vezzo. E che aveva usurpato il trono del re, chiedendoglielo per cinque giorni e, una volta sul trono, spodestandolo. E noi a crederci…!

Il silenzio tombale, il casto imbarazzo degli analisti occidentali non ha mai consentito di fare il punto sulle prevaricazioni e gli arbitrî dei regnanti, dai quali originariamente prese spunto, almeno in parte, la prostituzione sacra. Il romanzo più antico dell’umanità (l’Epopea di Gilgameš) è prezioso al riguardo. Gilgameš re di Uruk era abituato a violare spavaldamente il letto di tutte le suddite, vergini o sposate, controllate o no dal marito, in presenza o no del marito. Fu Enkidu, uomo selvaggio e primitivo, ad accorgersi di tanto obbrobrio, ed ostacolò Gilgameš. Enkidu rappresentava il libero sentimento popolare, Gilgameš rappresentava la forza organizzata ed impunibile. Forse l’opposizione di Enkidu, poi diventato amico per la pelle di Gilgamesh, fece rinsavire quest’ultimo. Infatti Paolo Matthiae sostiene che «l’atteggiamento di ripulsa di Gilgamesh di fronte alle profferte amorose di Ishtar si inquadrerebbe nell’ambito della riflessione sulla moralità del mondo divino, e ancor più potrebbe essere inteso come una polemica contro i costumi licenziosi del personale femminile del celebre e antichissimo santuario Eanna di Uruk».

Ma  da quel romanzo di 5000 anni or sono risulta chiaro che a quel momento non si era ancora instaurato nessun jus, nessuna prevaricazione legalizzata. Gilgameš era certamente legibus solutus, ma comunque agiva ancora al di fuori di una legge imposta erga omnes. La violenza regale legalizzata sopravvenne subito dopo, col pieno sviluppo delle città e delle monarchie. Anche l’episodio di Davide e Betsabea mostra che la giovane monarchia ebraica non aveva del tutto legalizzato il fenomeno. Mentre nel regno di suo figlio Salomone la norma esisteva già, considerato che il re s’era appropriato di 700 donne (nella forma legale di mogli) e di altre 300 (nella forma legale di concubine), a parte quelle sine jure, ossia tutte le ancelle del palazzo, le schiave, le molte donne di passaggio.

I prostituti sacri sono citati nella Bibbia. Erano addetti ai templi delle divinità maschili. Ma c’erano anche all’interno del recinto del tempio di Salomone, dove i prostituti avevano le loro stanze dedicate (1Re 14:24).

Perché non arguire che fu proprio dalle citate prepotenze dei regnanti, e dei potenti in genere, ch’ebbe avvio la strana moda? Far prostituire la propria figlia prima del matrimonio – sotto l’egida della dea della fertilità – era forse il mezzo meno traumatico per governare le drammatiche situazioni familiari conseguenti alle prevaricazioni dei potenti, agli stupri individuali e di massa dovuti alle guerre continue, così da porre un freno alle vendette ed alle faide, ai sospetti ed alle invidie, alle mortificazioni ed alle depressioni esistenziali, persino a certe guerre. Non dimentichiamo la guerra di Troia, fatta per Elena rapita da un orientale (Paride) che in casa propria era abituato alla prostituzione sacra. Il jus primae noctis s’affermò nella civiltà occidentale proprio laddove mancava la valvola della prostituzione generalizzata. Labile aspetto, questo, se vogliamo, e comunque da meditare.

Nuoro la Fonte di Istiritta

Quanto vado arguendo, comunque, non è che una faccia della medaglia. L’altra faccia fa perno sull’atmosfera fortemente afrodisiaca che avvolgeva le primitive celebrazioni della divina Mater Terra. La nudità rituale, la suggestiva mimica dei cori maschili e femminili, nativamente ignara d’ogni pudore, il sacro coito della coppia sacerdotale sopra il nudo terreno, erano sagre dalla carnalità vigorosa e prepotente, inquadrata nella religiosa esaltazione del mistero della vita in seno alla natura vegetale e animale, che l’antico costume accettava quale scambio d’influssi tra le forze generative operanti nella terra, negli armenti, nell’uomo. Era un orgiastico sfogo della sessualità, religiosamente sistemato nell’istituzione del cortigianato sacro. Veri e propri collegi di sacre prostitute esistevano presso i templi di Astarte, di Afrodite. E l’opera di carne assiduamente compiuta da migliaia di ierodùle, di schiave sacre, era la celebrazione dell’imperiosa sessualità della dea, vivente incarnazione della dea, sacra mimesi delle virtù fecondatrici della divina Signora. Queste fanciulle venivano chiamate in assiro-babilonese qadištu ‘sacerdotessa’ ma più comunemente ištarītu ‘devota di Ištar’ (di Astarte), e da quest’aggettivo prese nome il sito della copiosa fonte del quartiere di Istiritta, a Nuoro.

In Sardegna i siti di prostituzione sacra erano numerosi, certamente superiori al novero delle città sardiano-fenicio-puniche, considerato che almeno diciassette toponimi dànno indizi d’un fenomeno sparso nel territorio, dalle città alle campagne, dalle pianure alle montagne. Per capire meglio il fenomeno rimando ai singoli lemmi riportati nel mio libro “La Toponomastica in Sardegna”, dai quali si evince che il fenomeno era vivo in agro di Fluminimaggiore (tempio di Antas), di Bosa (Sas Bagassas), di Sassari (Monti di la Bagassa), di Urzuléi (Grutta dessu Palu), di Muravèra (spiaggia e rupe di Colostrái), Gésturi, Mòdolo, Baunéi (sa Iltiera, Ispuligideníe), Gáiro (Perda Iliana), Dorgali (valle d’Isalle, Nostra Signora de Palu Irde), Alghero (Madonna di Valverde), Fonni (Monte Armáriu-Correbòi), Nuoro (Istiritta), Cagliari (Lapola, Su Siccu, Capo S.Elia).

In Sardegna, in virtù dei tanti toponimi correlati, si riscontrano cinque modi d’indicare il fallo, il quale era l’ovvio contraltare, sempre presente in forma di palo o colonna o menhir, nei luoghi di prostituzione sacra affollati dalle donne. Solo uno è in lingua neo-sarda, ed è palu (fallo); mentre gli altri sono espressi ancora nella forma originaria: iliānnu (albero), iṣu (asta), ligin (fallo in sumerico), mùdulu (palo ossia fallo). I quattro nomi originari hanno riscontri in sumero (ligin) e in accadico (iliānnu, iṣu, mudulu).

Tutto quanto sinora scritto lascia intendere ad abundantiam un fatto incontrovertibile: la prostituzione sacra in Sardegna non fu importata dai Fenici (che non hanno fama di assidui frequentatori dei sistemi montuosi dell’isola) ma ancora prima era arrivata tramite i Lidi, quelli che il Pittau sostiene essere i progenitori dei Sardo-Etruschi. Salvo che il fenomeno non fosse originario, insomma che risalisse ab origine. Visti certi posti remoti dove sono stati evidenziati tali siti (ad esempio, il passo di Correbòi e la Códula di Luna), abbiamo per ciò stesso la testimonianza linguistica del fatto che nel 1000 a.e.v. c’erano delle strade strategiche, e che tali strade nuragiche precedettero e fecero da base al réseau delle strade puniche e romane. Infatti è del tutto ovvio che i siti di prostituzione sacra si trovassero dove più denso era il transito dei commercianti, dei guerrieri, dei pastori, come era appunto lo strategico passo di Correbòi, dove sicuramente c’era, lungo i prati di Mannurri, la posta per il cambio dei cavalli, la locanda e l’annesso lupanare.

Le etimologie. Dacché l’evidenza documenta che in Sardegna la prostituzione sacra fu largamente praticata, occorre adesso dimostrarlo mediante le etimologie, le quali sono numerose.

ABBURRÉSCIU camp. ‘ubriaco fradicio’. Il lemma è un antico composto accadico da a- (prefisso con lo stesso valore sardo-italico) + burru ‘prostituta sacra’ + ešû ‘confuso, arruffato, impasticciato con qualcuno’: il composto ab-burr-ešû significa ‘impasticciato con una prostituta’. Va da sé che il frequentatore delle prostitute tendesse anche ad “alzare il gomito”. Vedi anche burrácciu.

ASTARTE, gr. Αστάρτη, fu una dea venerata nell’area semitica nord-occidentale. Un’altra translitterazione è ‘Aštart; nella Bibbia il nome è עשתרת (traslitterato Aštoreth), in ug. ‘ṯtrt (anche ‘Aṯtart o ‘Aṭṭart, traslitterato Atirat), in akk. Aš-tar-tu < ant. sem. aštaru ‘dèa’ < astû ‘trono’, aštu ‘donna’ < sum. ašte ‘trono’ + ar ‘(inno di) preghiera’ + tu ‘incantesimo’: il composto ašt-ar-tu significò in sumerico ‘trono degli inni dell’incantesimo’: un bell’epiteto per Colei che si levava ogni mattina dai lavacri dell’Oceano. Ancora oggi un rione di Nùoro porta il suo nome, dovuto alla fonte Istirìtta, un sito extra muros di prostituzione sacra, da akk. ištarītu ‘ierodùla, seguace della dèa Ištar’, da Ištartu ‘Dèa’, Ištaru ‘Dèa’ per antonomasia, ossia la Paredra del Dio Sommo.

BACCHETTONA. Inserisco nell’elenco un superlativo o nomen actionis italiano: ‘bigotta’. DELI lo riconduce alla base bacchetta «(con la quale il confessore batteva i devoti; o sulla quale si appoggia il pellegrino; o che serve per flagellarsi)». Le tre ipotesi lasciano sbalorditi per l’assenza di metodo; la terza è addirittura inverosimile, perché il flagello non è propriamente una bacchetta, e nemmeno il bastone o baccolo del pellegrino è una bacchetta. DELI prosegue scrivendo che E.Bianchi in LN III (1941) 127-28 ritiene bacchettone adattamento pop. di Vanchetoni ‘vanno in silenzio’, n. che sarebbe stato dato con arguzia ai fratelli della fiorentina Compagnia dell’Oratorio di San Francesco, fondata nel 1603 (ipotesi etimologica già prospettata dal Biscioni nelle sue Note al Malmantile).

Queste etimologie sono qui riportate soltanto per dare la misura del modus operandi pasticciato e ascientifico da parte dell’Accademia italiana. Sgomenta il fatto che nessun accademico se ne vergogni. Una sana analisi etimologica può invece essere fatta a partire dal cognome sardo Becchetta (vedi) che è un originario composto (uno stato costrutto), da aram. beqi ‘sperimentato’ + ittu(m) ‘segno’, ‘natura speciale’, col significato di ‘(donna) sperimentata, non più vergine’, letteralmente ‘(donna) che reca il segno dell’esperienza’.

Per capire questa etimologia, che riguarda precipuamente la vasta area siro-fenicio-cipriota dov’era in uso la prostituzione sacra e la processione di Adone morto, va ricordato che ogni anno, in segno di lutto per la morte di Adone, tutte le donne avevano due possibilità: o andare al tempio a prostituirsi, o radersi i capelli. Becchètta indicherebbe la donna che seguiva il rito, prostituendosi. Pare che proprio questo appellativo abbia generato l’aggettivo it. bacchettona.

BAGASSA. Sas Bagassas, toponimo in agro di Bosa, presso Capo Marárgiu, indicò un sito di prostituzione sacra. Così anche Monti di la Bagassa in agro di Sassari. Il termine sardo proviene dal sum. ba ‘to give as a gift’ + ḫaš ‘coscia, parte intima, addome’: ba-ḫaš ‘donarsi intimamente’.

BAGASSITTA non è il diminutivo del nome bagassa. Per l’etimologia ed il significato vedi bagassa. Occorre osservare il suff. -itta, tipico dei nomi femminili, partendo dall’etimo del seguente cognome: Fòe, Fòi, Fòis, lemma sardiano, con base nell’akk. bu’’û ‘sought for’, ‘ricercato’ ossia ‘raro’ (di bellezza e altro), che in accadico diede il nome personale femminile Bu’’ītu ‘ricercata’.

Il suffisso akk. -ītu in Sardegna dà -itta, e così pure nell’area ispanica: sen͂ora ‘signora, donna sposata’ > sen͂orìta > ‘signorina, donna nubile, ossia ricercata’. Il tema aggettivale akk. -ītu ha operato in Sardegna su vari toponimi e nomi comuni. Il termine bagassitta con cui nel Logudòro s’apostrofa una ragazza votata alla libertà sfrenata, non è diminutivo ma aggettivale di vocazione (cfr. akk. bakkītu ‘donna piangente, lamentosa’, da bakā’iš + -ītu > bakā’iššītu, che significa ‘seguace delle Urlanti, delle Baccanti’, allo stesso modo che ištarītu significò ‘seguace di Ištar’; vedi l’idronimo Istiritta a Nùoro, indicante una fonte presso cui evidentemente un tempo ci fu un sito di prostituzione sacra).

BARDELLA è proposto dallo slang cagliaritano come agg. femm. ‘scemina, stupida, puttanella’. Ma nel sardo classico ha due significati consolidati: 1 log. e camp. ‘imbottitura della sella o del basto’ = it. bardella; 2. ‘canale del tetto; un parte di muro sporgente sul tetto che ripara dall’acqua cadente da un edificio più alto’. Wagner propone d’intenderlo come diminutivo di sp. barda ‘armatura del cavallo’, it. bardella ‘sella rozza dei contadini’. Ma l’autentico e più antico significato è proprio il secondo, attinente al ‘canale del tetto’, alla ‘grondaia’, al ‘muro di riparo dall’acqua proveniente dall’alto’. La base etimologica è l’akk. warûm ‘condurre; guida, condotto’ + dīlum ‘irrigazione (a secchio, a noria, con l’acqua che cade dall’alto)’, il cui composto per stato costrutto ha dato *war-dìla > bardella (col solito suffisso in -a derivante dall’accus. accadico).

Abbiamo evidenziato l’etimologia di bardella in quanto ‘canale del tetto’. Quanto a bardella in quanto ‘puttanella’, è un termine sardiano indicante le prostitute sacre, da akk. wardu ‘servitore’ + ellu ‘(ritualmente) puro, sacro’, col significato di ‘servitore sacro’, ‘servitrice sacra’. In origine è da supporre fosse nome personale di donna: con tale appellativo erano citate le prostitute sacre, votate ai riti della dèa Astarte.

BECCHÈTTA cognome la cui base riguarda precipuamente la vasta area siro-fenicio-cipriota dov’era in uso la prostituzione sacra e la processione di Adone morto. Va ricordato che ogni anno, in segno di lutto per il Morto, tutte le donne avevano due possibilità: o andare al tempio a prostituirsi, o radersi i capelli. Becchètta indicherebbe la donna che preferiva prostituirsi, seguendo pedissequamente la tradizione. In tal caso, l’etimo è l’aram. beqi ‘sperimentato’ + ittu(m) ‘segno’, ‘natura speciale’, col significato di ‘(donna) sperimentata, non più vergine’, letteralmente ‘(donna) che reca il segno dell’esperienza’. Proprio questo appellativo ha generato l’agg. it. bacchettona (vedi).

BORRA, Borras cognome che fu un termine sardiano basato sull’akk. burrû ‘una servitrice del tempio’ (ossia prostituta sacra). Cfr. lat. Su-burra, che fu il luogo dell’Urbe dove stavano le prostitute.

BORROTZU, Brotzu, cognome. Il lemma equivale all’agg. bruttu ‘sporco, immondo’. Wagner crede che bruttu sia italianismo, indicante ciò che è ‘brutto’. Ma proprio in Sardegna bruttu = brutto non è usato: al suo posto abbiamo log. féu, camp. légiu. Wagner nel trattare bruttu smarrisce i punti di riferimento e s’accampa nell’ideologia. Talché, nel passare alle esemplificazioni, fa un sorprendente volo pindarico e cita soltanto i derivati bruttèsa ‘immondezza’; centr. bruttáre, log. imbruttáre, camp. imbruttái ‘sporcare, lordare, imbrattare’; cat. embrutar ‘emporcar, ensuciar’; tutto ciò viene lasciato, come sempre, senza etimologia.

Si badi che il sardo bruttu non deriva dall’it. brutto ‘di aspetto esteriore o di qualità intrinseche che suscitano impressioni sgradevoli’. Questo è fatto risalire da tutti i linguisti al lat. brutus, che però indica tutt’altra idea, quella di ‘grave, inerte, massiccio’.

In Sardegna il lemma bruttu ha prodotto Monti Bruttu accanto all’Arcu Correbòi, il nome personale Brottu, il cognome Brottu con le varianti Brotzu, Borrotzu.

In Sardegna il personale it. Proto viene affiancato al personale sd. Brottu, ma tra i due nomi non c’è la benché minima affinità. Sappiamo che l’it. Proto ha la base nel gr. prótos ‘primo’. Mentre il personale sardo è pronunciato Bróttu, non Prótu. La controprova è il cognome Bróttu; e abbiamo anche la prova diretta di Girolamo Araolla, che nel 1582 scrisse il poemetto Sa vida, su martiriu et morte de sos gloriosos martires Gavinu, Brothu e Gianuari. Ovvio che Brottu, Brothu non derivi dal gr. prótos ‘primo’. Mentre il sardo bruttu ‘sporco’, bruttèsa ‘immondezza’, bruttái ‘lordare’, sono legati proprio al nome personale Brottu nonché al cognome Brottu e alle varianti Brotzu, Borrotzu.

Il prototipo di questa filiera è stato *burrutu > Borrotzu, la cui base etimologica è il plurale femm. akk. burrûtu ‘servitrici del tempio’, ossia ‘prostitute sacre’. Da questa stessa base sortì il nome di un pane sardo, sa Forróttula, aggettivale sardiano in -la (burrùtu-la), col significato di ‘(corona) delle servitrici del tempio’. Quindi Borrotzu, con la variante contratta Brotzu e la forma log. Brottu (indicante il nome personale e l’appellativo di casato) significò in origine ‘prostituta sacra’.

Il termine è un autentico relitto, sopravvissuto sino ad oggi senza più significato. Sappiamo che le prostitute sacre ed i riti connessi, ivi compresi i templi di Astarte dove esse esercitavano, furono combattuti senza tregua dal clero bizantino non appena trapiantatosi in Sardegna. Il fatto che il nome personale e il cognome siano sopravvissuti, indica che il popolo mantenne anche nel Medioevo una memoria viva dei propri riti. È importante notare come il nome personale ed il cognome, pur rimanendo vivi fino ad oggi, da un certo momento risultano abbinati all’aggettivo seriore bruttu ‘sporco, lordo, imbrattato’, che ha la stessa origine etimologica di Brottu, Borrotzu ma di per sé mostra un rinnovamento semantico, voluto ovviamente dal clero bizantino, che in tale modo volle radicare nella mentalità popolare l’identità tra burrutu (prostituta) e bruttu ‘lurido’.

Questa stessa etimologia è valida anche per l’incomprensibile italiano brutto, sortito grazie al lemma proveniente dalla Sardegna, che nella penisola prese un diverso aspetto semantico (collaterale al campo semantico sardo). In seguito, dalla stessa base accadica nacque in Italia il termine fròttola (foneticamente molto simile al sardo forrótula), che indicò una composizione poetica popolare, laica, alquanto oscura per la presenza d’indovinelli o proverbi. DELI ritiene derivi dall’it. frotta «perché indicava affastellamento di composizioni diverse», ma tale ipotesi non è valida. È più logico pensare che la pratica di recitare le fròttole (da cui il traslato italiano ‘bugìe, menzogne’) fosse nata come motteggio e pantomima popolare, istigata dal clero al fine d’infamare e ridicolizzare, quindi obliterare, l’antica memoria della prostituzione sacra, che evidentemente aveva preso piede anche nella penisola.

Ultima nota a proposito del Monte Bruttu, una vetta intorno ai 1500 metri, che sta accanto a s’Arcu Correbòi (dirimpetto al Monte Armário che sta a pari altezza, ma dall’altra parte della strategica sella montana). Come ho dimostrato trattando l’etimologia di Armário, quella del M.Bruttu è l’ulteriore dimostrazione che nel passo montano più alto della Sardegna ci sia stato in epoca sardiana un punto di sosta e un piccolo tempio di Astarte, sede perenne di prostitute sacre. In ogni modo, non è un caso che in Sardegna per Bruttu s’intenda anche un ‘diavolo’ che sovrintende ai riti orgiastici (nome e funzione ovviamente inventati dai preti cristiani).

BURRA cognome di Orotelli che Pittau fa corrisp. al sost. burra ‘borra, coperta grossolana, saccone’ < lat. burra ‘stoffa grossolana pelosa’, ‘veste grossolana’, ‘lana rozza’ (traduzione da sardo a sardo). Wagner fa osservare che burra in camp. e log. significa ‘tosatura del panno’, ‘coperta grossolana di lana’, e precisa che «l’applicazione della voce alle coperte rustiche si spiega col fatto che esse sono tessute con la cimatura della lana». Ebbene, la base arcaica del termine latino e sardo è l’akk. burû ‘tappeto, coperta’, aram., pers. burja, arabo buri(ja) ‘tappeto’, ‘tappeto, stuoia, di canne’.

Collegato in qualche modo con questo cognome c’è pure Borra, Borras, cognome che Pittau presenta come it. e sp. borra ‘cascame di lana’, ‘feltro che chiude la polvere da sparo nella cartuccia’, da cui i cognomi derivati. Ma non sono d’accordo su queste paronomasie.

Borra è piuttosto un termine sardiano basato sull’akk. burrû ‘una servitrice del tempio’ (ossia una prostituta sacra).

BURRÁCCIU camp. ‘ubriacone’, burraccéra ‘ubriachezza’. Wagner lo fa derivare dallo sp. borracho ‘ubriaco’. Ma sia burrácciu sia borracho hanno le stesse basi etimologiche nell’akk. burru ‘prostituta sacra’ + aḫiu, aḫû ‘straniero, che vien da di fuori’: burr-aḫiu, col significato di ‘straniero da prostitute’: tutto un programma; infatti le prostitute sacre si accoppiavano con gli stranieri di passaggio, e questi, manco a dirlo, in quel giorno di relax si ubriacavano. Questo elemento assurge a prova antropologica in relazione all’uso del vino, il quale nell’antichità era vincolato alle feste e alla sacralità. In una città di mare come Cágliari (antica Karallu), doveva essere usuale vedere a spasso dei marinai ubriachi. Di qui il termine burrácciu.

CIRÌNA, Cerìna. Lo stravolgimento dei cognomi fu un’operazione molto più traumatica rispetto alla manipolazione del lessico comune. La discussione etimologica su questo cognome fa capire la posta in gioco. In sardo cirina, kirina significa ‘recinto dei maiali’. Qualcuno lo crede adattamento al lat. cirrus ‘ricciolo’, ma questo bislacco attaccarsi al ‘ricciolo’ è avvenuto quando il significato originario era già perduto. La metamorfosi fu pilotata abilmente dai preti bizantini nell’ambito della strenua lotta contro il paganesimo e contro i residui della prostituzione sacra. Cinira era il mitico re cipriota che, unendosi alla figlia Mirra, generò Adone (il Dio della Natura) dando origine a tutti i riti ad esso collegati compresa la prostituzione sacra. Cinira in epoca storica fu lo stesso re cipriota che l’imperatore Costantino fece decapitare per punirlo della scelleratezza di tali riti e per dare un colpo finale alla prostituzione sacra.

I preti bizantini, con tutta evidenza, assistettero col tempo alla corruzione del cognome (metatesi), o la favorirono: Cinira > Cirina, e fecero di tutto per dimostrare al popolo che tale esecrando cognome corrispondeva alla ‘stia dei maiali’, animali demonizzati a cominciare già dal celebre episodio del vangelo di Luca (8, 33).

CIVETTA ‘uccello rapace notturno, con capo grosso, becco adunco, occhi gialli, che si ammaestra e si usa come richiamo per attirare uccelli’. DELI, nell’insistere due volte su una tesi impossibile, pretende dare origine onomatopeica alla voce. Invero, la base etimologica è l’akk. ḫū’a ‘civetta, gufo’ + eṭû ‘dark’: stato costrutto ḫi-eṭu > ḫi-(w)eṭu > ‘civetta’, col significato di ‘uccello delle tenebre’.

La locuzione “fare la civetta”, rivolta a una donna che tenta di attirare gli uomini, è dovuta al fatto che la civetta appare con gli occhi sempre aperti e con lo sguardo fisso, quasi ipnotico. Ma a mio avviso nella semantica di tale locuzione ha inciso pure la commistione con i termini accadici iwītum ‘discorso malizioso’, così come ḫībum ‘beloved, adorato’ + eṭû ‘dark’ (stato costrutto ḫīb-eṭû) col significato di ‘amante delle tenebre’ (ed è ovvia la ragione).

CÒCCOLA in italiano indica il ‘frutto del ginepro’. DELI ne registra la prima apparizione nel sec. XIV in un non meglio identificato Libro di viaggi, ed il lemma avrebbe l’etimo nel lat. cŏccu(m) ‘nocciolo dei frutti’. Tale etimologia è assurda, ed è in compagnia con la sfilza di etimologie, anch’esse assurde e fuorvianti, apparecchiate per i lemmi affini a còccola, quali coccolare, cocco (uovo di gallina), còccolo (bambino paffuto, bambino prediletto), il cognome sardo Coccolòne, e così via. In questo guazzabuglio occorre mettere ordine, poiché ogni termine ha una distinta etimologia, radicalmente diversa da quelle proposte.

Comincio da còccola, che non ha affatto l’etimo su citato, anche perché la còccola non è un nòcciolo, ossia non ha un guscio duro come quello della noce, ma è uno dei tanti frutti morbidi, con la sola particolarità che tende a rinsecchire diventando coriaceo. Questo frutto viene usato moltissimo dagli uccellatori in Sardegna (si può immaginare che nei tempi andati fosse d’uso comune nel Mediterraneo) per attirare e catturare al laccio gli uccelli da passo. Còccola ha base etimologica nel sum. ḫu ‘bird’ + kul ‘meal’, col significato di ‘cibo degli uccelli’.

Analizziamo adesso l’it. coccolare ‘vezzeggiare’ (usato per la prima volta nel 1865 da Tommaseo), ritenuto dal DELI una voce infantile da confrontare con cocco ‘uovo di gallina’ (lemma utilizzato la prima volta prima nel 1528 da A.Alamanni), il quale a sua volta è considerato onomatopea (da confrontare con coccodè: sic!). Nel sottolineare l’allarmante inadeguatezza delle etimologie proposte, preciso che coccolare si basa sull’akk. kukku(m) ‘(un genere di) dolce’ + ul ‘frutto’, col significato di ‘frutto-dolce’, ovvero ul ‘qualsiasi cosa’, col significato di ‘qualcosa di dolce’; ma può andar bene anche ul ‘gonfiarsi, ingrossarsi’ (riferito in questo caso ai bambini paffuti), col significato originario di còccolo come ‘dolce polposo’.

Cocco in quanto ‘uovo di gallina’ è considerato onomatopea, imitazione del coccodè emesso dalla gallina quando sta per espellere l’uovo. Ma non possiamo accettare tale assurdità, poiché un suono con la sequela di fonemi c-o, c-o, d-e non viene mai emesso, e nemmeno viene emesso il più semplice c-o, c-o, trattandosi invece di un rumore indistinto emesso a causa dei dolori dello sfintere. L’uovo fu chiamato cocco dall’akk. kukku(m) ‘dolce’, poiché di esso la gente è sempre stata ghiotta; e coccodè (che indica propriamente la ‘gallina’, anzichè il suo verso) non è termine onomatopeico, non corrispondendo ad alcun rumore, ma l’esito dell’akk. kukku + sum. de ‘versare, emettere’, come dire, ‘emettitrice di dolci’. Tanto per attenerci unicamente alla lingua sumerica, possiamo proporre per la ‘gallina’ anche la seguente etimologia: kuĝ ‘scala a pioli’ + deg ‘radunarsi su’ (kuĝ-deg > kug[u]-deg > kugudè), col significato di ‘(colei che) si raduna sulla scala a pioli’: è infatti nota la tendenza della gallina (parlo di quella che scorrazza liberamente per l’aia) a dormire di preferenza sulle scale a pioli, o in difetto a dormire comunque sui rami degli alberi, che riesce a raggiungere svolazzando goffamente. Ciò per difendersi dall’assalto delle volpi.

Quanto al cognome sardo Coccolòne, Coccollòne, preciso intanto che non è italiano, come vorrebbe Pittau DCS 223, poiché non è recepito dal De Felice; circa l’etimologia, essa non si basa sul fatto che il coccolòne “ama farsi coccolare”, come pretende Pittau,  ma si basa integralmente sull’accadico, essendo un raddoppiamento fonetico di ḫullu(m) ‘collana (in quanto ornamento)’, quindi ḫu-ḫullu + suffisso sardiano -ne (ḫu-ḫullu-ne), col significato di ‘(colui, colei che) si impreziosisce con le collane’. Da qui ha origine questo termine, che per i Sardi è antichissimo e per gli Italiani appare solo in tempi moderni, riferito alla persona che si agghinda per le feste, o riferito alle prostitute sacre ed ai prostituti sacri.

COCCOLÒNE. Vedi còccola.

CODDIGÙLTU log. ‘campanella maggiore’ (Leucojum aestivum L.); si tratta della ‘pianta dell’aglio’. Paulis NPPS 204 traduce alla lettera ‘dalle spalle basse’, ‘dal collo corto’ e pensa che cotale nome gli sia dato perché lo scapo fiorifero è solo di poco più lungo delle foglie. Ma un etimo così posto non ha senso, sia perché questo aspetto è del tutto insignificante, sia perché di piantine con scapi poco più lunghi delle foglie è pieno il mondo. Se si considera la piantina nel suo complesso, che ha forma longilinea, fiorellini biancastri a forma di calice esapetalo, con i singoli petali macchiati di verde pallido verso l’apice, ci si accorge che è il fiore in sé ad aver colpito per la rara bellezza, talché una sub-specie del Leucojum si chiama pulchellum ‘bellino, belloccio’, espresso con un ipocoristico diminutivo latino perché il fiore stesso è piccolo.

Non si capirebbe mai un’etimologia relativa alla piantina dell’aglio se non andassimo ai tempi arcaici, visto che la sua conoscenza si perde nella notte dei tempi. Gli Egizi lo stimavano al punto di acquistare uno schiavo maschio e sano pagandolo con circa 7 kg di aglio; esso peraltro costituiva la base dell’alimentazione degli operai che lavoravano alla costruzione della piramide di Cheope. Ma se è per questo, l’aglio è sempre stato il companatico d’elezione, così in Cina come in Sardegna, tra gli agricoltori che in tal guisa passavano l’intera giornata al lavoro, resi sani e robusti da questa piantina miracolosa, eletta tra le piante medicinali più salutari.

Ed allora ecco il vero significato, la vera etimologia: coddigultu, koddi kultu, è uno stato costrutto sardiano con base nell’akk. ḫūdu(m) ‘felicità, piacere, gioia, soddisfazione’ + kulūtu ‘ruolo di un prostituto sacro’, col significato di ‘prostituto della gioia’, ‘ragazzo che dà felicità’ e simili. Si capirà meglio il significato se, considerando questa amarillidacea dall’aspetto verginale, si vorrà ricordare, nell’ottica dei piaceri sessuali dell’antichità, che i prostituti sacri erano dei fanciulli neppure adolescenti, o al massimo adolescenti, quindi piacevolissimi agli occhi di chi li avvicinava.

COLOMÁIU cognome di Berchidda che fu un antico composto sardiano con base nell’akk. kulu’u(m) (male cultic prostitute) + māru(m) ‘membro di, appartenente a’ ‘appartenente a una classe o professione’, col significato di ‘(componente) del collegio dei prostituti sacri’.

DEDÓNI cognome. Per l’etimologia vai a Didòne.

DIDONE. Celebre nome, da accostare al cognome sardo Dedòni. Osserviamo che Eliezer Ben David (RMI 341) ricorda numerosi nomi di ebrei francesi, inglesi, marocchini, algerini (Dedon, Deudon, Deudone, Dieudone; Dadoun, Dadoune, Dadone, Dadon), nonché l’ebraico levantino Dodon. Possiamo così accettare l’origine ebraica di Dedòni, che ha come probabile base nel pl. bab. dīdū ‘veste femminile strappata, discinta’ (con riferimento alle prostitute sacre addette al tempio, ed anche alla stessa dea ivi adorata) + suff. sardiano -ne, -ni. Va da sé che pure il celebre nome Didòne, appartenuto alla donna fenicia fondatrice di Cartagine, ha la stessa base. Non a caso ella è più ricordata, dai ricercatori non  inclini a racconti romanzati, come una regina che si giaceva coi propri parenti.

DIDU, Dido, cognome che ha base nel bab. didū con vari significati, quali ‘allentato, sciolto, ciondolante’ e per metafora ‘prostituto di un tempio’. Ma è pure valido l’etimo ass. ti’tu ‘albero di fico’.

FARRÌNGIU camp. ‘puttaneria’. Wagner lo considera originato dal lat. fornicium (da fornix ‘bordello’). È possibile. Ma segnalo anche una possibile etimologia accadica: pâru(m) ‘stare alla cerca, cercare’, o anche parrû(m) ‘amante omosessuale’ + inḫu (un tipo di canto del culto). Nell’etimologia accadica sembra di ravvisare i modi della prostituzione sacra, espressa materialmente dall’ostinata sfrontatezza della donna che si offre all’uomo, il quale viene richiamato mediante un canto sacro (a cultic song).

FILA-FILA ‘latte di gallina’ (Ornithogalum umbellatum L.). Parecchie alliacee e liliacee sono classificate dagli antichi Accadici come piante richiamanti l’omosessualità; vedi per tutte la presentazione del fitonimo sardo coḍḍigùltu. Anche per pili-pili, come per fila-fila, ci troviamo di fronte ad un epiteto del genere. Infatti i fitonimi pili-pili e fila-fila sono sardiani, con base nell’akk. pilpilû ‘amante omosessuale’, sum. pilipili ‘travestito’.

FROTTOLA. Occorre indagare questo lemma italiano partendo dal sd. forróttula, che è un pane a ciambella, a forma di grande collana. Mancando termini latini o greci che aiutino nei confronti, attingiamo alla lingua accadica, che presenta un plurale femm. burrûtu ‘servitrici del tempio’. Forróttula è un aggettivale sardiano in -la (burrùtu-la), col significato di ‘(corona) delle servitrici del tempio’. Il termine fu noto anche nel territorio italico. La pratica di recitare le fròttole (da cui il traslato italiano ‘bugìe, menzogne’) nacque come motteggio e pantomima popolare, istigata dal clero al fine d’infamare e ridicolizzare, quindi obliterare, l’antica memoria della prostituzione sacra.

GRASSINÉḌḌU è una pastadura d’uso quotidiano confezionata a Selárgius per i bimbi. Ha forma arcuata, a tre palle (tres melas) piuttosto movimentate ed elaborate. Su questo pane occorre fare chiarezza. A tutta prima grassinéḍḍu non significa nulla. Proprio per ciò il nome suscita curiosità, sembrando una paronomasia. Sembrerebbe un composto sardiano con base nell’akk. garāšu(m) ‘copulare’ + ellu ‘(cultualmente) puro’, col significato sintetico di ‘copulazione sacra’. Se le cose stessero in tal modo, il nome di questo pane sarebbe una classica “distrazione” e mistificazione operata dai preti bizantini su forme ritenute oscene, mentre un tempo non erano altro che un omaggio al sommo Dio o alla somma Dea, protettori della fertilità umana.

ILTIÈRA toponimo del Supramonte di Baunéi che sembra derivare da sardo iltiu ‘estate’ (vedi) = ‘sito per l’estate’. Ma potrebbe essere un luogo di prostituzione sacra, da akk. Ištar, Iltu, eltu, femminile di ilu ‘la dea, per antonomasia’.

MARIA BURRA fu, sino a un secolo fa, una maschera carnevalesca di Orgòsolo. «Chi si mascherava in questa maniera s’avvolgeva con una vecchia coperta, sa burra, e andava in giro con un cercine in testa, sul quale portava una grossa zucca. In mano teneva una specie di mestolo di sughero col manico lungo: su guppu. Viene il sospetto che Maria Burra, detta altrove Maria Burràja, Maria Fresada o Maria Lettolada, raffigurasse le antiche sacerdotesse-maghe che così andavano vestite, come si può rilevare da alcuni bronzetti nuragici, ove effettivamente sembrano avvolte da una coperta. La zucca in testa, piena d’acqua, dovrebbe ricordare l’acqua della salute che esse distribuivano, anche se durante la mascherata carnevalesca la zucca veniva riempita di vino».

Prima d’addentrarmi nella questione etimologica, ricordo che Wagner cita burra, oltre che come ‘coperta grezza’, anche come posto dove dorme la scrofa (Berchidda). Casu la applica a un ‘covo con qualche strato di paglia o di frasche, che si prepara per le scrofe che devono figliare’; burra de polcábru ‘covo del cinghiale’. Per estensione si dice di una partoriente: comare est in burra ‘la comare ha partorito, è a letto’. Wagner ricorda i similari usi galloromanzi, che significano pure ‘capanna’ e ‘porcile, stalla di vacche’ e simili. Secondo Wagner il termine sardo ha origine catalana, ma intanto, come solito, non indica la base su cui poggia la parola catalana.

In realtà burra è termine mediterraneo, quindi anche sardiano, con base nel sum. bur sacerdote’ > akk. burrû ‘una servitrice del tempio’ ossia la prostituta sacra. Quindi, tornando alla maschera citata dalla Turchi, si può senz’altro andare a raffrontarla con certe sacerdotesse sardiane raffigurate nei bronzetti, con la differenza che quanto apprendiamo dalla maschera di Orgòsolo va interpretato come armamentario dell’antica prostituta, ossia: la ciotola per ricevere l’obolo; la fiasca contenente appunto l’acqua, necessaria per le abluzioni post-coitum; il manto per creare lo strame dove giacersi.

Il fatto che burra (nome comune) e Burra (epiteto di una maschera) siano accomunati da un uso generale, sempre vivo nell’isola (e persino in Gallia), riferito alle scrofe ed ai porcili, lascia intendere quanto fosse stata forte nel Medioevo la condanna inesorabile lanciata a tutto campo dal clero cristiano contro la prostituzione sacra, vivissima in Sardegna secondo l’uso semitico. Vedi Suburra.

MARIA BURRÀJA è una variante nominale, adottata in certi villaggi, della nota maschera di Orgòsolo chiamata Maria Burra (vedi).

Ho spiegato che Burra rappresenta, nelle fogge che le vesti carnevalesche riescono a realizzare al fine di rappresentare il laidume morale, l’antica prostituta sacra. La variante Burràja aggiunge a Burra ‘prostituta’ l’aggettivo di ‘strana, stravagante’ (akk. aḫû), il che s’addatta perfettamente a una maschera carnevalesca.

MARIA FRESÀDA è una variante logica, non fonetica, adottata in certi villaggi, della nota maschera che a Orgòsolo chiamano Maria Burra (vedi), la quale fu, sino a un secolo fa, una curiosa maschera carnevalesca di Orgòsolo.

Ho spiegato che Burra rappresenta, nelle fogge che le vesti carnevalesche riescono a realizzare al fine di rappresentare il laidume morale, l’antica prostituta sacra. La Turchi nella sua citazione lascia intendere che l’epiteto Fresàda non sia altro che una variante di frassàda ‘coperta’, dal che dovremmo dedurre che Maria Fresàda significhi ‘Maria-Coperta’; il che sarebbe incongruo; ed è incongruo pure il considerare fresàda come un p.p. dal nome fresàda: fatto impossibile poiché il participio pass. deve sortire dal verbo denominale che in sardo manca (sarebbe un ipotetico *fresa); fresare infatti non significa ‘coprire’ ma ‘spaccare in due’ (da fresa ‘ognuna delle due sfoglie del pane carasáu), ed anche ‘lacerare superficialmente per sfregatura’ (da it. fresa, fresatrice).

È quindi ovvio che l’epiteto Fresàda è una paronomasia sortita da un antico lemma sardiano. Fresàda poggia sull’akk. persu ‘suddivisione’, perṣu ‘breccia’, il che calza bene con l’epiteto carnevalesco, che evidentemente insiste in modo plebeo sulle qualità di questa donna, già sottolineate fin da epoca bizantina. Maria Fresàda significò ‘Maria Sgarrata, Spaccata’ o ‘Maria Sforacchiata, Sbrecciata’, con riferimento alle parti intime.

 

NICELLI cognome che fu un termine mediterraneo con base nell’akk. nīku ‘fornication’ + ellu ‘(ritualmente) puro’. Il significato è quello di ‘fornicazione sacra’, quella praticata dal sacerdote e dalla sacerdotessa sull’altare del tempio in onore del Dio e della Dea della fertilità.

OLÉRI paese abbandonato nel XIV secolo a causa della peste. Si trovava in territorio di Ovodda nella località oggi nota per la chiesa campestre di S.Pietro. Il toponimo è chiaramente allomorfo del cgn Uléri. Il nostro toponimo deriva dall’akk. ullû ‘esaltato (detto di un dio)’ + erû ‘(albero) denudato, ripulito’ o anche ‘(base di tempio) ripulita (per le funzioni)’. Insomma, dove adesso c’è la chiesa campestre di S.Pietro, 3000 anni orsono c’era un tempio uranico, probabilmente dedicato ad Astarte, visto che l’allusione del toponimo è all’albero ripulito, all’albero totemico, emblema della dea della fertilità.

PALU. La Grutta dessu Palu sta nel Supramonte di Urzuléi, lungo la Códula de Ilùne. L’origine più facile del termine Palu è < lat. pālus, pālum ‘palo’ < akk. palûm (a staff, un bastone). Il lat. pālus significa anche ‘fallo’. Nell’intendere ciò gli antichi Latini non operavano alcuna forzatura semantica, non giocavano con la magia della metafora. È che le forme d’adorazione dell’Essere supremo, del Supremo Fecondatore (fosse egli chiamato Giove o Zeus o Baal) erano espresse col Palo in tutto il mondo conosciuto, dalla Mesopotamia sino alla terra di Canaan sino all’Italia, alla Sardegna. Ad Atene le Processioni del Fallo furono così importanti da generare persino una forma letteraria d’importanza universale: la tragedia. In Italia l’antica Processione dei Falli si è imborghesita divenendo quella dei Ceri, rimasta viva a Gubbio, a Sàssari, a Nulvi, Iglèsias.

Possiamo quindi dare a Palu il significato di phallos, anzitutto perché l’acqua della Codula d’Ilùne, proprio nel sito di Su Palu, viene “inghiottita” (e ciò ha un significato sacro d’altissimo valore). Rimando al lemma Teletottes per capire l’importanza dell’intero sito, vicino al quale sta la grotta. Lì, al centro del fiume, c’è l’inghiottitoio più grande della Sardegna, il più scenografico. Proprio nel punto della sparizione c’è un laghetto che recepisce il fiume sempre in piena, e un metro oltre comincia l’aridità totale della golena. Gli antichi vedevano in ciò il Sacro Sperma che penetra nel mistero della Sacra Vagina. Ci sono tanti elementi, dunque, per affermare che in questo luogo s’adorava il Palo, l’albero scorticato (e forse effigiato) a forma di fallo, che poi era l’effige di Ištar, la dea fenicia dell’amore, che presiedeva anche alla prostituzione sacra.

Sa Grutta dessu Palu era, evidentemente, un altro dei non pochi siti sardi nei cui pressi veniva praticata quella strana forma di culto naturalistico dedicata ai Genitori dell’Universo. A proposito di Ištar-Tanit, che era la compagna di Ba‛al, va sottolineata questa singolare attestazione del suo simbolo, il fallo, che è prettamente maschile.

Ma ciò detto, non si può sottovalutare, in questa ricerca etimologica, proprio il nome del dio Ba‛al; immagino che il toponimo Palu indicasse direttamente questo Dio, che era attestato in Sardegna e un po’ in tutto il Vicino Oriente: è noto in arabo, ugaritico, fenicio, punico, aramaico, nabateo, palmireno, amorrita, babilonese, accadico. In ug. fa bʽl ‘signore, proprietario’, in amorrita baʽlum, in bab. ba’lu ‘grande, maggiore’, in akk. bēlu ‘signore, proprietario’, e così via.

Questo dio, particolarmente onorato in Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna allo stesso modo. Onde sembrerebbe sotteso proprio il suo nome in tutti i toponimi o nomi sacri che lo echeggiano in Sardegna, a cominciare dal dorgalese (Nostra Sennora de) Balu Irde o Palu Irde, che è la Madonna di Valverde. Quel Valverde, tipico delle chiese campestri dove si adora una Madonna cristiana sconosciuta fuori dell’isola, non è altro che la paronomasia di Baal Irdu (accadico Bēlu Irdu,  Bēlu Išdu), un epiteto sacro col significato di ‘Signore Base-del-Cielo’, ‘Baal Base-del-Cielo’.

PALU IRDE o Balu Irde. Vedi Palu.

PILI PILI ‘aglio selvatico’ (Allium subhirsutum L.). Termine già discusso al lemma fila-fila. I fitonimi pili-pili e fila-fila  sono sardiani, con base nell’akk. pilpilû ‘amante omosessuale’.

PROTTO cognome it. corrisp. al pers. Proto, che è quello di uno dei tre martiri cristiani venerati a Porto Torres (Brottu).

Per capirne l’etimologia, vai a Borrotzu.

SICCU. Su Siccu è il nome d’un litorale oggi inglobato nell’area urbana di Càgliari. L’origine del toponimo potrebbe essere dal bab. sikkum ‘bordo, margine’, da interpretare come ‘molo, linea regolare di battigia (ai piedi del colle)’. Ma la traduzione sarebbe banale. Va rammentato che ai tempi dei Fenici questo sito doveva essere poco o punto antropizzato (esclusa forse l’esistenza di un’area cimiteriale). Se attività c’erano, esse erano al servizio della vicina salina, per l’ammasso del sale destinato all’imbarco. In ogni modo lungo il litorale doveva passare una strada che da Karallu (Cágliari) procedeva a sud transitando per Lapòla (vedi), con capolinea al tempio di Venus Ericina sul Capo S.Elìa.

Venus Erycina (la Venere o Astarte di Erice) godette d’un culto molto esteso nel Mediterraneo (la citano pure i poeti alessandrini quale Teocrito negli Idilli); era adorata persino a Cartagine, esattamente a Sicca Veneria, borgo fondato dai Siciliani alla sommità d’un rilievo alto 770 m presso la casbah di El Kef, da cui proviene una statua di Venere. «Il culto africano di Venus Erycina è documentato specialmente nella narrazione di Eliano relativa al trasferimento della Dea di Erice per nove giorni ogni anno, in Africa, e del suo ritorno in Sicilia. Valerio Massimo aggiunge la notizia della prostituzione sacra a Sicca Veneria». «Anche per la Sardegna dobbiamo ammettere una derivazione siciliana, mediata dai Punici, del culto dell’Erycina, documentato in modo diretto in una iscrizione punica di Carales. Il tempio di Aštart ericina di Carales venne scoperto nel 1870 da Filippo Nissardi alla sommità del promontorio di S.Elia… presso la torre omonima. All’interno [del tempio ridotto alle fondazioni] era applicata una lastra in calcare frammentata, con iscrizione dedicatoria ad Aštart Ericina, in punico». «Le dimensioni ridotte dell’epigrafe denunziano evidentemente il carattere privato del voto, secondo il modulo noto ad esempio nel tempio di S.Nicolò Gerrei (Cagliari) dove un Cleon salari(us) soc(iorum) s(ervus) dedit Aescolapio Merre un altare in bronzo» (Zucca: idem).

Sono grato a Raimondo Zucca delle preziose note (salvo quel servus, termine erratissimo). Ciò mi consente d’ipotizzare, a sud di Karallu, un terzo sito di prostituzione sacra, oltre a quello di Lapòla e di Capo S.Elìa, un sito incastonato probabilmente dove fu poi edificata la chiesa catalana di Bonària. Non dovrebbe meravigliare più di tanto una pletora di lupanari in quel di Karallu, considerato che, intanto, tutte le donne dovevano prostituirsi almeno una volta prima di convolare a nozze. Mi è forza insistere sulla tesi del terzo lupanare, non tanto e non solo per la ripetizione in terra sarda di un toponimo (Siccu) pressoché identico a quello del territorio cartaginese (Sicca), ma perché ancora oggi in Sardegna sopravvive un gesto “volgare” chiamato proprio sicca (altrove ficca) o meglio, al plurale, siccas, ficcas. Il gesto si fa infilando il pollice tra l’indice e il medio, stringendo il pugno (anzi i due pugni, per raddoppiare l’effetto) e puntando le siccas contro la persona interessata, o contro il cielo in segno di maledizione.

Per la verità, le siccas non sono sempre dei gesti maledicenti: più  spesso sono apotropaici. Ciò dimostra che, dopo quasi duemila anni, il popolo, redarguito dal clero cristiano, è ancora indeciso sulla finalità delle siccas. Dobbiamo ricordare che, nella ritualità antico-romana e mediterranea in generale, fare la sicca e toccarsi con essa la fronte (meglio: fronte-bocca-petto, proprio come oggi si fa col triplice segno della croce) era un gesto propiziatorio rivolto – al solito – alla divinità che sovrintende alla fertilità ed alla vita sul pianeta.

Che la sicca indicasse, schematicamente, un organo sessuale, è chiaro. Ma va chiarito quale. La sicca è fatta principalmente dalle donne. Poiché gli uomini – oggi ed anche in epoca romana – usano ed usavano fare lo stesso gesto con altre dita (il medio dritto e tutte le altre dita piegate, in modo che risalti lo schema d’un pene eretto), è chiaro che le donne con la sicca intendevano esprimere la vulva, dove il pollice appena emergente dal pugno indica il clitoride ch’emerge dalle grandi labbra.

Quest’impasto di gesto, di toponimo, di storia sacra mediterranea è una interessante sopravvivenza che il clero cristiano è riuscito (non del tutto) a cancellare. Sembra ovvio che la Sicca in epoca cartaginese rappresentasse sinteticamente, per tutto il popolo sardo, il culto di Aštart d’Erice. Peraltro dobbiamo ricordare che in accadico (anzitutto a Mari), con sikkanum s’indicava in senso stretto proprio il betilo (la nostra perda fitta), eretto spesso per il culto alla dea Astarte.

ZACCHEDDU cognome con base nell’akk. zakītu ‘(donna) liberata, esentata’ dal rendere servizio di prostituzione nel tempio; questo termine deriva da zakû(m) ‘puro, limpido; libero’. Questo termine accadico, riferito esplicitamente a una donna (notoriamente tutte le donne, a qualunque classe sociale appartenessero, dovevano fare le prostitute pubbliche prima del matrimonio), ha il tema desinenziale in -itu come Ištarītu ‘prostituta sacra dedicata a Ištar’ (per tali desinenze vedi anche i termini Istiritta e bagassitta).

ZEDDITA non è il diminutivo del cgn Zedda ma un composto avente base in tale cognome. Con Zeddita abbiamo un antico nome muliebre sardiano avente base nel sum. zeda ‘maialino’ + akk. ittu, ettu ‘marchio caratteristico’, ‘segno fausto’, col significato di ‘Fedele del Maialino’, ‘Nata sotto il segno del Maialino’. Indicò una seguace delle pratiche fertilistiche. Per la discussione, vai al cognome Zedda.

[/et_pb_text][/et_pb_column][/et_pb_row][/et_pb_section]

Translate »
Torna in alto