La tecnica etimologica

ARIANI

Razza Ariana. Ai tempi di Hitler essa comprendeva i Tedeschi e, concessivamente, qualche altro “popolo germanico”. Poi l’infinita “tela di Penelope” dell’Unione Europea, tessuta e disciolta, secondo convenienza, dai poteri forti sia interni che esterni, ha imposto altra espressione, e il termine razza subisce lo sfrego rosso dalla scuola perché scandalosamente sbagliato. S’impone stirpe, o altri termini sempre più vaghi, distillati volta a volta dall’alambicco delle accademie, le stesse che ai tempi di Hitler inneggiavano alla “razza”, secondavano le politiche di pulizia etnica, sorreggendo orgogliosamente le “leggi razziali”. Quante volte abbiamo letto sulle vetrine “questo è un negozio ariano”?

La seconda metà del secolo XX ha impegnato allo spasimo le accademie delle “democrazie” occidentali per riformulare decine di parole politically uncorrect. Pulizia linguistica. Ne è sortito il “teatro beckettiano”, la pantomima dell’assurdo e dell’alienazione, con la schisi tra il sentire e il parlare. Oggi il nostro linguaggio è scrizofrenico, un prodotto disumano imposto da un mondo violento (dove la “Pubblicità” è solo la punta dell’iceberg), il quale demonizza la parola negro sostituendola con l’equivalente nero, mentre in America e altrove i negri vengono assiduamente ammazzati nell’iimmobilità delle coscienze. La schizofrenia spunta anche per operatore ecologico al posto di spazzino; vale per non-vedente al posto di cieco, per diversamente abile al posto di invalido, per signore ( oppure per: scusi…!) al posto di cameriere, e per tante locuzioni imposte col marchio dell’imbecillità.

Vien detto: “Il mondo che abbiamo creato è il risultato del nostro pensiero; non possiamo cambiarlo senza cambiare il nostro pensiero”. Esatto. E allora, signori, cambiate il pensiero, non le parole che lo esprimono! Nessuno ancora capisce che ogni parola ha radici profonde, si è fatta carne nel corso di decine di millenni senza mai mutare; essa non può essere sradicata dalla coscienza perché è nata con la coscienza stessa. Invece un vocabolo nuovo imposto ex cathedra è come l’abito di moda, che i vanesi mutano al mutar di stagione, senza mai mutare la propria anima. Non si vuole capire che il pensiero è un universo arcaico eppure sempre pulsante e presente. Non possiamo cambiarlo inventando parole nuove, quando il nostro animo custodisce già migliaia di modelli, tutti antichissimi, fedeli come sposa castissima, ognuno fattosi carne, che non possiamo estirpare o sostituire senza violare la nostra essenza.

Nostro malgrado, i persuasori occulti irrompono con bieca violenza nel nostro vissuto calando parole nuove che mirano ad alienare il pensiero. Non a caso la gente clinicamente pazza aumenta senza freno. Non a caso i femminicidi giganteggiano ed avanzano impipandosi delle ramanzine della psicologa largite ogni ora in televisione e nei corsi popolari pianificati dalla Polizia.

Per domare le nostre coscienze lorsignori introducono pure i concetti della biologia e dell’antropologia, e rincarano l’impeto assoldando psicologi e psichiatri. Ciononostante, l’animo nostro rimane immutabile da decine di millenni.

Non si vuole capire che razza per se stessa è parola innocua, e persino espressiva, per di più è arcaica quanto la stessa civiltà. Deriva dal sumerico ra ‘puro’ + za ‘uomo’, col significato di ‘uomo puro’. Perché una tale parola dovrebbe far paura? Essa nacque, evidentemente, quando i primi gruppi umani cominciavano a disseminarsi col vēr sācrum, col “distacco sacro”, andando a concretizzare nuovi gruppi e nuove nazioni. Di qui la parola razza, che denota ‘l’insieme degli individui di una specie animale, vegetale che si differenziano dagli altri gruppi della stessa specie per uno o più caratteri trasmissibili ai discendenti’; significa anche ‘suddivisione degli abitanti della terra secondo determinati caratteri fisici, tipici di ogni gruppo’, ‘generazione, discendenza, schiatta’.

Ciononostante, razza è uno dei vocaboli più bistrattati e incompresi dai linguisti i quali, ignorandone l’origine e paralizzati dal politically correct, considerano la formula come “continuazione per aferesi del lat. generatio ‘generazione’”; altri pensano che razza derivi dal lat. ratio ‘natura, qualità, ragione’. I linguisti che si contendono i due campi sono stati Ferrari, Salvioni, Spitzer, Canello, Prati, Contini, Sabatini, Merk (DELI). Sappiamo che questa parola apparì in Italia col maschile razzo, spesso scritto razo (da cui l’agg. raziale, ingl. racial), e lo si credette derivato dal fr. haratz, haras ‘allevamento di cavalli, deposito di stalloni’ (DELI). Anche G. Semerano (FI IX) si è lasciato trascinare da questa deriva, dicendo che il lemma francese aveva la sua discendenza dall’assiro ḫaršâ ‘allevamento di cavalli’, mentre invece ḫaršâ diede corpo esclusivamente all’ingl. horse.

Sin qui abbiamo discusso tanto della voce razza e niente dell’aggettivale ariano, il quale fu imposto sia ai primi invasori dell’India sia ai baldi giovanotti nati in terra germanica, facendo trapelare l’identità tra i due gruppi e quindi rendendo tetragona la narrazione nazista che gli Ariani non fossero altro che Germani.

Prima di proporre la facile comprensione del termine ariano faccio una premessa importante. Per via etimologica (parlo di una etimologia che s’imponga per serietà e concretezza) è possibile stabilire l’originario reale significato dei nomi dei popoli apparsi alla storia come invasori. Almeno su una cosa possiamo infatti convenire: che gli Ariani fossero invasori. Ciò è ammesso universalmente. Di seguito intendo parlare soltanto dei “popoli invasori” (o comunque dei popoli prevaricatori). E posso confermare che nella storia dell’Umanità ogni popolo invasore o prevaricatore fu nominato e tramandato sui nostri libri proprio con l’appellativo della sopraffazione. Vediamo qua appresso un elenco incompleto e le relative dimostrazioni.

1. Gli Ariani sono detti in antico indiano aryàḥ ‘signore, lord, Herr’ (v. tra gli altri DELI I 72); possiamo tradurre l’epiteto anche come ‘dominatore’; ma quest’ultimo è un concetto seriore, più “dolce” rispetto all’epiteto originario. Essendo notoriamente ‘invasori’ (in quanto tali, erano armati), pare congrua per gli Ariani la base eg. åri ‘soldato, chi serve nell’esercito’ + suffisso sum. d’origine –an. Ma nulla osta a sostituire l’eg. åri con l’akk. ḫarû ‘to overcome, vincere, prevalere’. Ed ancora, nulla osta a considerare l’akk. ḫarû come forma già corrotta dello stesso eg. åri. Quindi occorre dare un colpo di spugna a tutte le illazioni relative agli Ariani (ivi compresa l’ideologia “lunare” creata dai Nazisti) poiché l’etimo più consono rimane quello accadico e significa ‘sopraffatori’.

2. Esaminiamo adesso gli Arabi, noto popolo invasore. Furono gli stessi Egiziani (o i sacerdoti egiziani), orgogliosamente consapevoli dei bagliori lanciati dalla propria civiltà, la quale già 5000 anni fa era considerata la più alta e inarrivabile del mondo (vedi Erodoto), a chiamare i Bèrberi stanziati nelle vastità desertiche della Libia ‘quelli senza parola’ (dall’eg. re ‘muover la bocca’ + bu ‘not’: Re-bu), forse perché i Berberi non usavano scrivere. Ricordo che in lingua egizia il bisillabo agglutinato Rebu significò storicamente ‘Libio’ (ossia “africano”). L’etnico (l’appellativo) di Arabi si sposa con quello dei Bèrberi, lo vedremo.

3. L’etnico Bèrbero corrisponde concettualmente (ed anche foneticamente) al gr. βάρβαρος. Non solo, apprendiamo che l’etnico eg. Rebu (‘Libio, Bèrbero’) fu talmente potente da ripercuotersi non solo nel gr. βάρβαρος ma pure in tutto il Vicino Oriente. Infatti anche gli Arabi mantengono nel proprio etnico la stessa parola egizia, che ritroviamo poi nell’akk. ḫarābu ‘essere o diventare deserto’; però disagglutinandola abbiamo ḫarābu, ḫarēbu, che in eg. significa ‘Invasori analfabeti’, da ha ‘to invade a country’ + Rēbu ‘senza parola’). Quindi va da sé che il concetto accadico di ‘deserto’ è seriore rispetto a quello primamente concepito dagli Egizi.

Rebu è parola autenticamente egizia, lo sappiamo. Fu proprio il popolo egizio a far emergere alla storia i Bérberi (i Rēbu), registrandone le spinte invasive negli “annali” dei faraoni. Gli Egizi ingaggiarono ripetute guerre contro i Berberi, i quali a ondate tentarono d’entrare nel Delta (gli episodi più noti sono le invasioni tentate dai Bèrberi uniti con i Sea Peoples)[9].

4. Bárbaros: scrutiamo più d’appresso questo appellativo. Il termine antico-greco è considerato specificamente “indoeuropeo” anche per il raffronto formale col skr. barbarah ‘balbuziente’; significò primamente ‘non greco, straniero, di lingua dura e incomprensibile’; passò presto a significare anche ‘incolto, incivile, zotico’ e infine ‘crudele’. Ma ricordiamo che Paolo di Tarso lo usò ancora, per i Maltesi, col significato di ‘gente parlante lingua non greca e non latina’. Qualcuno lo apparenta, con evidente difficoltà, al gr. βάζω ‘dico, parlo, discorro’, e con maggiore difficoltà al gr. βαμβακίζω ‘balbetto’. Sembra invece che la base, comune anche al sanscrito, sia stata l’ant. akk. barbaru(m) ‘wolf’. Il lupo era per antonomasia l’animale selvaggio più presente e quindi più pericoloso, ed il suo “parlare” era quantomai differente da quello umano. Originariamente, comunque, il termine oggi noto per barbaro non indicava la ‘parlata differente’, e nemmeno la possibile ‘balbuzie’ connessa all’uso d’una lingua poco conosciuta. Indicava semplicemente il ‘diverso’, lo ‘straniero’, la ‘persona sconosciuta nei suoi usi, nei rapporti socio-culturali’, appunto come può essere il ‘lupo’, animale libero e poco socievole che insidia gli armenti. Semerano (OCE, Dizionario Etimologico Greco 48) ricorda l’origine prima della parola accadica, dal sumero bar-bar-ra ‘straniero’, con la base in bar ‘che si trova accanto, confinante’. In accadico però abbiamo anche l’allotropo ḫarḫaru(m) ‘villano, rozzo, mascalzone’.

5. Ebrei. Una delle guerre di occupazione più note è descritta nel libro di Giosuè. Non a caso pure gli Ebrei nascondono nel proprio etnico il significato di ‘mascalzoni, malandrini’ (cfr. akk. ḫābilu, ḫabbilu ‘criminale, malfattore’, la cui pronuncia egizia è Ḫabiru, il più antico nome indicante il popolo ‘Ebreo’: Mario Liverani: Oltre la Bibbia, 2003).

6. Cabili, Cabilli. L’epiteto degli Ebrei stan in buona compagnia con quello dei Barbaricini in Sardegna, chiamati ancora oggi Cabilli (proprio come gli Ebrei) per la loro abitudine, nel passato, di operare grassazioni ed assalti contro i villaggi della pianura, quelli occupati dai Romani. Lo stesso avvenne con i Cabili dell’Atlante, detti appunto “mascalzoni”. Infatti Cartagine si lamentò più volte con Roma perché le genti di Masinissa (i Numidi, ch’erano bèrberi) scendevano spesso al piano per grassare le terre cartaginesi. Considerata la loro indole ribelle, l’epiteto dei Cabìli fu eternato dagli Arabi, e sino ad oggi il popolo montanaro della Cabilia ha conservato un nome ostico.

7. Barbaricini. Sono gli abitanti delle aree montuose della Sardegna centrale. La radice del loro etnico può essere analizzata pianamente come quella dei Barbari, Bèrberi, Arabi. Quindi anche i Barbaricini possono essere classificati come ‘invasori analfabeti’, poiché, in odio ai Romani, essi rifiutavano la lingua latina (un epiteto carico di odio, non di spocchia). Le assidue bardane – cominciate sin dai primi anni dell’occupazione romana, come ricorda Cicerone Pro Scauro – mosse dai Barbaricini contro i villaggi agricoli di pianura e di bassa collina, furono la causa del secondo membro dell’epiteto Barbari-cini, avente base nell’eg. tcha (leggi ča) ‘to strike down, oppose, resist; abbattere, opporsi, resistere’ + suffisso di appartenenza accadico-sumero-egizio –nu. In tal caso Barbaricini significò ‘Barbari resistenti, Barbari-analfabeti che si oppongono (alla conquista romana)’. Altrimenti disponiamo dell’eg. tchai (leggi čai) ‘to steal, theft; rubare, furto’: in questo caso per Barbaricini dobbiamo intendere ‘Ladri senza-parola’. Ma tchai significa anche ‘diavolo, nemico’: quindi abbiamo ‘Diavoli senza-parola’ o ‘Nemici senza-parola’.

8. Accadi. Tra i popoli oppressori (o comunque invasori) annoveriamo gli Accadi. Esattamente, fu questo l’epiteto che gli abitanti dell’Arabia si erano meritati già 5000 anni fa, in forza della loro millenaria tendenza ad occupare le terre fertili già colonizzate dai popoli stanziali. Furono proprio gli Arabi a soppiantare i Sumeri in Mesopotamia, ed ancora prima che si trapiantassero s’erano guadagnati la nomea di Accadi, dall’eg. aq, aqa, aqu ‘destruction, ruin’ + at ‘harm, violence, wrath; danno, violenza, ira’, ‘evil doer, enemy; malfattore, nemico‘: Aq-at ‘malfattore che arreca morte e distruzione’.

9. I Galli (detti anche Galati) derivano il nome dall’akk. galātu, galādu ‘incubo, terrore; to tremble, be afraid; tremare, aver paura, rabbrividire’. Questa parola antichissima ebbe largo uso nel Mediterraneo e fu certamente alimentata dalle ripetute invasioni dei Celti in Italia, nei Balcani, in Anatolia, dove si forgiò il nome di Galli, Galati. Chi non ricorda il “Galata morente”, copia di Epigono (220 aev.) conservata nei Musei Capitolini? Gia presso i Babilonesi il gallūm era un démone malvagio’ e rappresentava il ‘nemico’ per antonomasia, galtu ‘fearful, che incute terrore’.

10. Anche gli Etruschi ricevettero il proprio epiteto dagli altri (tra di loro si chiamavano Rasenna). Base etimologica dell’etnico Etruschi è l’eg. åṭer (leggi ether) ‘to destroy’ + usha ‘herdsman, pasturer or fattener of cattle’. A quanto pare, gli Etruschi in origine furono esclusivamente un popolo di pastori che s’allargò con azione lenta ma invasiva nel centro-nord Italia, specialmente a nord del Tevere. Se accettiamo l’ipotesi di Massimo Pittau ed altri, che indica gli Etruschi come costola proveniente dalla Sardegna e mossasi forse nel II millennio a.C., l’epiteto pare adeguato.

11. Greci. Lo stesso possiamo dire dei Greci, un etnico da loro sempre ignorato (preferirono quello di Héllenes). Pare che Aristotele considerasse i Graekoi una tribù della Grecia primitiva (Wikipedia). Altra ipotesi è che quest’etnico fosse usato dagli Illiri (ipotesi riportata da DELI, oltre che da Wikipedia). È certo che l’epiteto fu preferito dai Romani, ed essendo molto antico, va da sé che abbia una indiscussa dignità storica. Base etimologica è l’eg. har ‘to oppress’, ḥaå ‘enmity, war, fight’. Il composto significò ‘nemici oppressivi’ (e siamo alla celebre “Discesa dei Dori”).

12. Germani. Tacito, Germania 2, precisa che il termine «Germania è di recente importazione: i primi che, passato il Reno, cacciarono dalle loro sedi i Galli, furono allora chiamati Germani… Così tutti furono chiamati col nuovo nome di Germani, prima per paura, dato che era il nome degli invasori, poi per averli essi stessi fatto proprio» (Ceterum Germaniae vocabulum recens et nuper additum, quoniam qui primi Rhenum transgressi Gallos expulerint, ac nunc Tungri, tunc Germani vocati sint: ita nationis nomen… ut omnes primum a victore…).

Conosciamo bene questo popolo che diede filo da torcere ai Romani. Quindi è possibile che la base etimologica possa essere, stando al suggerimento tacitiano, l’akk. gērum ‘ostile’ + mān ‘companion, compagno d’arme’. Quindi Germani significò ‘guerrieri stranieri ostili’: nome inizialmente celtico.

13. Ungari. Questi invasori provennero dall’Asia centrale nei secc. IX-X, e con parola gotica furono chiamati ‘I Famelici’. Cfr. infatti got. huggrjan (leggi ungrian) ‘aver fame’ = ted. hungern, ingl. hunger ‘fame’, ags. hungor, hungur, aat. asass. hungar, afris. hunger, ol. honger; norr. hungr, dan. sved. hunger. Di questi termini germanici s’ignorò l’origine. Eppure la base etimologica è semplice da reperire: è il sum. ḫunu ‘to be weak, helpless’ + GARUD ‘bread’. Il composto ḫun-garud in origine significò ‘senza speranza di mangiare’.

14. Alamanni. Una delle prima nozioni sugli Alamanni fu il cognomen che Caracalla volle per sé: Alamannicus. Si sa che in origine erano un’alleanza di tribù germaniche, tra cui Catti, Naristi, Ermunduri, Iutungi, parte dei Semnoni, stanziate attorno alla parte superiore del fiume Meno. Nient’altro può arguirsi su questi guerrieri, chiamati in tal modo dal sum. ala ‘demon, essere malvagio’ + man ‘companion’. Il composto in origine significò ‘guerrieri indemoniati’.

15. Russi. Un forte dubbio sorge a proposito di questo popolo il quale – stando alle prevalenze morfologiche degli attuali abitanti – si presume di razza originariamente caucasica, perciò europea. Ma andiamo con ordine. Rùssia (territorio) = РОССИЯ, Russo (aggettivo) = РУССКИЙ, Russa (aggettivo) = РУССКOЙ. Noto che gli aggettivi “russo”, “russa” hanno esiti fonetici mediterranei: con alfabeto latino abbiamo: russkij, russkoj, con suffisso –kij, –koj. Nessun dubbio che il suffisso femminile sia identico a quello di Africa (parola mediterranea), la quale in arabo è detta Iifriqia, aggettivale in –a dal sumerico ki ‘terra, territorio’.

Nella lingua mediterranea gli esiti dei suffissi sono tra loro uguali, salvo il fatto che essa mantiene saldi legami con lo stato costrutto semitico, per cui il suffisso –co, –ca è introdotto dal legante –i-. Quindi dal lat. pudeō ‘ho vergogna’ > pud-ī-cus ‘che mostra vergogna’; it. antipàt-i-co (dal gr. anti-path-i-kós), gr. mágos > mág-i-kos. Così pure nel sd. -icu, –igu, –iga (suffisso di qualità: cfr. sum. igi ‘qualità, quality’.

Basta poco a scoprire l’origine comune (sponda Sud) di tanta parte del linguaggio europeo. In ogni modo, torno all’origine del radicale Rus’, sul quale serve ampliare la riflessione. Se la primitiva genia russa fu indiscutibilmente di razza caucasica, dobbiamo ammettere che la seriore commistione con razze mongoliche è storicamente evidente, almeno nei territori che dal Volga si perdono verso Est. Ciò è segno che il baluardo europeo degli Urali potè essere superato ad libitum dai “Popoli dell’Est”: basterebbe citare Attila e Tamerlano.

I Russi così chiamati appaiono alla storia intorno al periodo di Carlo Magno e risultano i fondatori di Novgorod prima e di Kiev poi. Facile pensare che in precedenza i Russi non fossero altro che Popoli delle steppe (dobbiamo pensare inzialmente ai Cimmeri, poi noti come Sciti: Erodoto). Potremmo supporre pure arcaiche commistioni con i “Popoli della taiga” e, perché no?, con i popoli provenienti dai vasti territori finnici.

Scaturisce opacità dall’arcaica mobilità di questi popoli pastorali, che non furono mai propriamente stanziali perché abituati a sentirsi “a casa” tra gli smisurati spazi delle pianure fluviali. Ciò non aiuta ad etimologizzare l’etnico. Però non c’è problema ad accettare Rus’ come l’etnico che infine prevalse, adottato autonomamente da un popolo ch’era ampiamente catalogato quale invasore. Tutto sommato, questo è lo stesso fenomeno dei soprannomi, i quali furono inventati da gente estranea al nucleo familiare, ma spesso furono adottati dal nucleo familiare come cognome, per essere meglio riconosciuto nel villaggio.

Stanti così le cose, rimane aperta la questione se il nome Rus’ sia nato propriamente nel territorio al centro-nord dell’Europa o – come spessissimo accade – sia un nome proveniente da altre zone, specialmente dall’amplissima zona Sud, la più abitata e – specie ai tempi dell’impero di Bisanzio – la più “civilizzata”, quindi la più autorevole nell’attribuire gli epiteti.

Sembra congrua la base eg. ruu ‘to frighten away, spaventare’ + shu (šu) ‘to rise up, sollevarsi, insorgere’, ma anche ‘shade, shadow, ombra’; oppure shuā (šuā) ‘to kill’. S’indica quindi la radice di Rus’ nell’eg. ruušuā ‘assassini che terrorizzano’.

16. Goti. Detti pure Gotones, furono nominati in tal modo dai popoli limitrofi, evidentemente dopo ch’essi, avendo attraversato il Baltico, risalirono il corso della Vistola durante il periodo imperiale, respingendo con tutta evidenza i popoli che ci abitavano. Il proprio etnico si basa sul sum. gud ‘to jump on, attack’. Secondo la nomea prevalente degli Ariani, furono nominati anche ‘guerrieri’, sempre da gud, che significa pure ‘hero, warrior’. L’altro etnico Gotones deriva dal sum. gud + una ‘wild’. Pertanto gud-una significò ‘invasore selvaggio’, ‘guerriero selvaggio’.

Come si può notare, non c’è popolo invasore che non abbia ricevuto il suo bravo epiteto a causa delle sopraffazioni etniche da lui prodotte. Gli Ariani scesi nella pianura dell’Indo provenivano quasi certamente dall’attuale Iran, o dall’Afghanistan. Quanto ai ghiacci da cui erano sortiti, bastano e avanzano quelli del vicino Hindu Kush. E, se volessimo indugiare sul colore della loro pelle (come a molti piace fare), non c’è ragione per dipingerli biondi con occhi di gatto (secondo il mito della “discesa ariana”) ma dobbiamo vederli realisticamente come gente di razza caucasica, quella che stava più accosta all’India, quella che generò gli stessi Persiani e gli Afgani. L’invasione dell’India avvenne, com’è opinabile, all’inizio della civiltà neolitica. Le troppe elucubrazioni fatte sul Ṛgveda, nel tentativo di stabilire razza e tempi degli invasori, non hanno mai beneficiato di addentellati scientifici.

Va da sé che oggi (anzi da 200 anni) la Linguistica Comparativa viene strangolata da teorie che l’azzoppano, che ne rendono impresentabili e indimostrabili certi risultati. In questo libro sento il dovere di denunciare quelle teorie poiché nel mondo sta montando una domanda corale di chiarezza. È giunto il momento di chiedere prove adamantine a molti cattedratici.

LA TECNICA ETIMOLOGICA

I chiarimenti sin qui fatti sono una premessa indispensabile. Infatti, nessuno studioso può aggiungere altro d’importante a riguardo della nascita del linguaggio, se non sulla scorta della tecnica etimologica la quale, se ben gestita, soltanto quand’è dotata di saldo e inoppugnabile metodo, riesce a produrre squarci illuminanti sulla nascita di una determinata parola, su come venne formulato un certo semantema che ebbe vita mediante un certo grumo di suoni.

Allora eccoci a chiarire cosa sia la buona “tecnica etimologica”, considerato che solo essa fornisce gli strumenti che portano a dimostrare l’origine delle parole e delle lingue. Ma prima è meglio chiarire che cosa non deve essere una buona “tecnica etimologica”. Essa dagli accademici è stata resa bifida: 1) nell’ambito della ideologia “neo-romanza” gli accademici confrontano soltanto spagnolo-francese-italiano, e pretendono legarli alla matrice latina; come corollario abbinano al mazzo anche la lingua sarda e quella rumena; 2) nell’ambito delle lingue del lontano passato, i confronti vengono fatti esclusivamente tra germanico, latino, greco, ittita, iranico, antico indiano, tocarico: sono lingue fatte pendere tutte assieme da un cordone ombelicale “indo-europeo”, ossia da una lingua-madre inventata perché inesistente, chiamata senza appello Ursprache.

Invero, la tecnica etimologica non può essere bifida, poiché distinguere ai nostri fini tra lingue vive (quelle romanze + l’attuale germanico) e “lingue morte” è artificioso, impraticabile, fuorviante. Tutte, proprio tutte le manifestazioni del pensiero sin dall’apparire del Neanderthal e del Sapiens sono ancora presenti alle genti di oggi, sono disponibili alla comunicazione, infarciscono ogni “lingua” o “dialetto”, galleggiano tutte assieme nell’immenso calderone della civiltà euro-mediterranea. Non esistono sub-strati, come purtroppo s’insiste a dire; non esiste un “prima” e un “dopo”; non esistono valori di “supremazia” tra i concetti: tutto ciò che in tanti millenni è sortito dall’ingegno umano ed in qualche modo è sopravvissuto, è ancora presente, pronto a illuminare le nostre menti. Spessissimo una parola che ritenevamo “morta” (non più usata da secoli e conservata soltanto da certi dizionari cartacei) rispunta dall’apparato glottale di un uomo mentre s’esprime col proprio dialetto. Sovente ho assistito di persona a tali “miracoli” mentre mi soffermavo sulla lingua sarda, o su parole napoletane, siciliane, padane. Peraltro, se vogliamo meditare culturalmente la rilettura di Dante o del Pulci, o di altri scrittori europei, ci accorgiamo che migliaia di quelle parole sono diventate démodé soltanto perché noi – dannati a gestire la comunicazione entro minimi spazi di efficacia – ci adattiamo sempre alla povertà lessicale dell’ascoltatore (…ed alla nostra pigrizia), mortificando il ricco vocabolario che avevamo imparato durante gli studi. La Chiesa, votata ad insegnare l’umiltà dell’espressione e la semplicità dei concetti, anch’essa non aiuta a rivitalizzare voci preziose, tantomeno quelle più desuete. Persino le relazioni interpersonali (il savoir-faire, il tatto, il galateo) c’inducono ogni giorno a “domare” e “piallare” i concetti prima di esprimerli fonicamente. La semplicità dell’eloquio si è arresa alla semplificazione. Va da sé che tali comportamenti fan seccare e dileguare lentamente qualsiasi vocabolario.

Pertanto non è vero – come invece sostengono certi dottori della linguistica – che il lessico mantenga l’equilibrio contabile tra morienza e sostituzione. Purtroppo, siamo tutti sodali, gestori e spettatori dell’estinzione delle lingue. I neologismi che sortiscono dalla bocca di rari personaggi sono pochi, e spesso sono “polpette indigeste” confezionate da gente ignorante orfana del genius linguae. Il bilancio tra morte e nascita delle parole pende tragicamente verso lo zero. I vocabolari smagriscono inesorabilmente. Le nuove parole (salvo eccezioni) sono esclusivo appannaggio degli scienziati, e rimangono chiuse nei cataloghi gergali, adatte alle lezioni universitarie.

Il triangolo. Il presente Dizionario tratta esclusivamente di etimologie. Nell’esercizio della tecnica etimologica mirata alle lingue europee di qualsiasi epoca è imprescindibile spaziare anzitutto tra tutti i vocabolari mediterranei ed europei (beninteso, sia tra le “lingue” sia tra i cosiddetti “dialetti”), tenendo saldo il “principio del triangolo”, ossia ponendo ai due angoli di base il vocabolo da analizzare e quello messo a confronto (essi devono essere omofoni o della stessa classe omofonica) e ponendo al vertice un semantema comune. Se uno dei tre “spigoli” non risponde a questa regola, l’etimologia non è valida. Ad esempio, manca il semantema comune (ossia manca il terzo spigolo) tra gli omofoni italici di base foro <> foro, poiché col primo intendiamo il ‘luogo dove si esercita la giustizia’, con l’altro il ‘pertugio’, il ‘buco’.

Il “carotaggio”. Ma senza un “carotaggio” rigorosamente scientifico, fatto mediante l’esame delle lingue più arcaiche, che sono a disposizione grazie a dizionari (e grammatiche) accreditati ed onorati, non è possibile condurre una ricerca etimologica seria ed esaustiva. In altri termini, quando ci applichiamo alla suddetta operazione del “triangolo” dobbiamo sempre supporre (o sospettare) che l’origine di una parola mediterranea o germanica non possa trovarsi entro un cluster coevo, e nemmeno poggiare sulle lingue classiche del Mediterraneo, ma invece debba opportunamente individuarsi tra le lingue cronologicamente sottostanti, tra le più antiche, tra quelle che han formato il vero plancher, l’organizzazione primaria della Lingua-Madre mediterraneo-europea-asiatica.

Per utilità di classificazione e per evidenziare, vocabolo per vocabolo, le diacronie storiche, qualsiasi ricerca etimologica tra lingue-dialetti mediterranei-europei non può dunque ancorarsi alle sole lingue classiche né a a quelle tra loro coeve ma deve scendere alle radici elementari più arcaiche. Queste radici, manco a dirlo, discendono nella scala temporale ed appartengono alla lingua accadica, più sotto a quella sumerica, più sotto a quella egizia, le quali presentano sequenzialmente le matrici primeve che furono generate dal Neanderthal-Sapiens nella prima espansione mediterranea. Penso sia inutile (direi dannoso) lasciarsi irretire da una nuvola di panico e ritirarsi davanti alla grandiosa visione che la lingua sumero-egizia apre sull’arcaicità dell’Ursprache. E non bisogna fallire retrocedendo davanti a chi (come il germanista Paolo Ramat, accademico dei Lincei) in una corrispondenza a me rivolta nell’ottobre del 2022 sostiene che di Ursprache «mai se ne è parlato come protolingua degli ominidi!!». Vorrei obiettare all’amico Ramat che qua non si tratta di ominidi (ossia di ‘animali simili all’uomo’) ma proprio di Homo Neanderthal ed Homo Sapiens, due homines che gli antropologi confermano pienamente capaci di creare e gestire attrezzi, quindi capacissimi di definire a parole il mondo entro cui ebbero il destino di vivere. Stupisce inoltre che il professor Ramat sia rimasto ancorato al retrivo concetto di “protolingua”, poiché non vi fu affatto una “protolingua” intesa come sorta di buffer entro cui in lungo lasso di tempo i bipedi dotati di glottide avrebbero educato la manciata di suoni che li avrebbero emancipati. L’Ursprache cominciò esattamente al momento in cui l’Homo cominciò a sfruttare una disposiziione fisica, la capacità di articolare la glottide, per produrre, oltre ai grugniti, una serie di suoni. La scoperta che la glottide poteva essere educata creò la cesura repentina tra l’Ante e il Post. In quel preciso momento furono catalogate le vocali, e con esse le prime decine di parole. Allo stesso tempo l’Homo scoprì l’esigenza di agglutinare le voci in sequenze significative. Era nata la grammatica.

Inutile girarci attorno, la lingua egizia – così com’è apparsa alla storia – è la tangibile depositaria, in linea diretta, della lingua del Neanderthal e del Sapiens. Quella egizia è la lingua-base del Delta, mentre quella sumera ne è la conseguenza; ma entrambe rimangono e ci appaiono mono-sillabiche ed agglutinanti, esattamente come lo fu in origine ogni lingua. L’accadico, apparso alla storia dopo il sumerico, mostra le voci già agglutinate ed una grammatica articolata che diventerà matrice di quelle future. Infatti la grammatica accadica pare esser la prima ad aver maturato la struttura flessiva che fu poi adottata dal greco e dal latino, nonché da tutte le altre lingue coeve delle sponde mediterranee, e pure dall’iranico, dall’indiano. La struttura flessiva fu adottata pure dalle lingue germaniche. Quindi è bene abituarsi all’idea che la struttura delle grammatiche euro-mediterranee si evolvette partendo da quella accadica, non da quella latina; nemmeno da quella germanica, e nemmeno da quella sanscrita. La grammatica latina è apparsa alla storia soltanto dal V-IV sec. a.C. Quella greca è apparsa qualche secolo prima. Quella accadica vigeva a dir poco dai tempi precedenti il 2300 a.C. Ogni confronto del nostro cluster mediterraneo-europeo non può quindi mancare di attingere a strati ancora più profondi, quello accadico in primis, coscienti però che esso è solo una tappa ed occorre approfondire il “carotaggio” etimologico entrando nelle matrici sumero-egizie, che sono le più elementari, quelle definitive, le più sicure ai nostri fini.

I confronti. In ogni modo, il “triangolo”, il “carotaggio”, i “confronti”, di per sé non bastano alla buona pratica etimologica. A monte occorre far pulizia, occorre scoraggiare i confronti fine a se stessi. Pochi si sono accorti che la pratica etimologica è stata lastricata sinora non da vere etimologie ma soltanto da confronti fine a se stessi (“comparativismo”). Sembra questione da poco, ma è importante. Ogni linguista va a comparare il vocabolo in esame con un altro o con altri uguali o simili, presi da una lingua o più lingue del cluster prescelto; qua egli s’appaga (senza esimersi però – guarda la contraddizione! – dall’indicare un “cordone ombelicale” che legherebbe le due parole, o l’intero cluster evidenziato, alla… lingua-madre, la quale però resta ignota, ed infatti il relativo radicale viene espresso con l’asterisco *). In tal guisa le cattedre universitarie hanno confezionato sinora “dizionari etimologici” zoppi. Le loro operazioni vengono spacciate come “pratica etimologica” ma non lo sono, poiché non presentano conclusioni scientifiche (cioè non dimostrano gli apparentamenti genetici con una lingua-madre accertata, certificata, realmente esistita). Chiarisco la questione soltanto con pochi esempi:

GAITS got. ‘capra’ è confrontato con lat. haedus ‘capro’, aisl. geit, ags. gāt, asass. gēt, aat. geiʒ. Fatto ciò, Mastrelli (Grammatica Gotica 88) indica il legame del cluster con la “madre” originaria che secondo lui sarebbe l’ie. *ghăydys. Ciò è doppiamente sbagliato: infatti, oltre al suo inaccettabile asterisco, Mastrelli è convinto che l’origine di questa parola fosse bisillaba, un’aberrazione della quale discuterò infra. Se invece Mastrelli avesse fatto il “carotaggio”, avrebbe trovato all’istante la base della parola gotica nell’accadico gadû ‘young goat’, a sua volta derivata dal sumerico ga ‘milk, suckling’ + du ‘to do, perform’. Con l’arcaico composto ga-du egli avrebbe risolto persino un problema di antropologia culturale, perché avrebbe capito che la capra (gaits) sin dal momento della sua domesticazione fu considerata la fornitrice di latte per i bimbi della famiglia.

UNSAR got. ἡμέτερος, ἡμῶν, ted. unser ‘nostro’. «I pronomi possessivi gotici sono derivati, come nelle altre lingue indoeuropee, dai pronomi di prima e seconda persona e dal pronome riflessivo e vengono declinati come aggettivi forti». Mastrelli (GG 157) ritiene concluso il proprio lavoro nel dimostrare certe identità tra pronome personale e pronome possessivo, ma non dice nulla sull’origine di quelle forme. A noi invece interessa l’etimo di tutte le parti di una parola, quindi suddividiamo unsar in tre membri riconducendoli alla base egizia, dove ricaviamo che un– deriva dall’eg. un ‘we, us’; la particella –s– deriva dall’eg. s, s[a] ‘human being, man, person’; il finale –r si riferisce all’eg. er ‘every’. Con tale indagine veniamo a sapere che in origine unsar (da un-s-er) significò ‘tutti noi assieme’.

GARDA got. αὐλή, Viehhof ‘cortile per il bestiame’. Confronto il termine gotico con ingl. garden, ted. Garten ‘giardino’. Infatti quel cortile, ossia il recinto col quale si difende il bestiame dalle fiere o dai ladri, fu lo stesso che – mutatis mutandis – servi a proteggere gli ortaggi e la frutta dall’invasione del bestiame. Le chiudende anticamente ebbero doppia funzione di difesa.

Nell’evidenziare la convergenza semantica di garda-garden-Garten, osservo che nessuno è mai andato oltre i tre elementi. Se avesse operato lo scavo, ne avrebbe rintracciato la base nell’egizio ḥer ‘house’ + ‘to set, place; collocare, fissare’. Il composto gotico in origine indicò la ‘casa stabile, fissa’ (la quale veniva sempre recintata da muro contenente il cortile o il giardino). Anticamente anche le vigne erano difese da muri o siepi (vedi got. weina-gards ‘vigneto’, e leggi la Carta de Logu la quale obbligava a recingere il bestiame, gli orti, specialmente le vigne).

Da ciò risulta palmare che il got. garda abbia la stessa etimologia dell’it. guardia, la cui base arcaica è il sum. gardu ‘soldier’, da cfr. con sd. árdia ‘gara di coraggio e bravura’. Però vedi anche got. hairdeis ποιμήν Hirt ‘pastore, mandriano’, da cfr. con ingl. herd, ags. hirde, hierde, aat. hirti, asass. hirdi, btm. herde, ol. herder; norr. hirdhir, dan. hyrde, sved. herde. In questo caso la base etimologica più consona all’intero cluster accennato è l’accadico ḫarādu ‘to be awake, on guard’, ‘to guard s.o.’, ma pure qarrādu ‘warlike, hero, warrior’ (con arcaica base nel sum. gardu ‘soldier’). Quindi scopriamo che in origine il got. hairdeis significò ‘guardiano (di greggi)’, ma all’occorrenza pure ‘guerriero’. Ed abbiamo pure notato che in questa analisi l’it. guàrdia gioca un ruolo da pivot.

Nonostante queste evidenze, Mastrelli (Grammatica Gotica 56) va a “colpo sicuro” considerando l’it. guàrdia di origine gotica (sic), poi espansosi (secondo lui) al port. guardião, sp. guardián, provz. gardian. Nient’altro. Mastrelli ci conferma di essersi fermato al “comparativismo”, col quale non si potrà mai tracciare la storia reale di una parola. Vediamo altri esempi.

AMMATTARE in it. significa ‘alberare, attrezzare una nave’; v. anche ammattái in camp. ‘guarnire una nave dei suoi alberi’. M.L. Wagner lo confronta col tosc. livorn. ammattare ‘alberare, attrezzare una nave’; còrso ammattà ‘alberare, alzare all’aria antenne e sim.’. Come conseguenza di ciò Wagner suggerisce (subliminalmente) la derivazione del termine sardo dal mini-cluster italico, rendendo però zoppa l’intera operazione, poiché la sola comparazione tra fono-semantemi lascia ignota la natura del radicale matta-.

Se oltre alla comparazione sincronica si fosse fatto “carotaggio” diacronico, avremmo scoperto che i vari lemmi mediterranei hanno base etimologica nel sum. ma da ‘to sail a boat’. Soltanto questa è l’operazione che guida al “vertice” del triangolo e conclude la prassi etimologica riguardante le due voci poste agli “spigoli” di base.

ÀNCORA. Il confronto non acquisirà mai valore, anzi peggiorerà, quando certi linguisti affiancano una voce non più ad altre dello stesso cluster (comparativismo) ma direttamente alla supposta “lingua-madre” del cluster (un intento che somiglierebbe al “carotaggio”, senza esserlo). Esempio: il Diz. Etim. della Lingua It. confronta l’it. àncora ‘organo che aggancia una nave al fondo marino’ col lat. āncora(m) proveniente (a suo dire) dal gr. ánkyra, derivato da ánchos ‘curvatura’. In questo caso DELI vuol farci accettare (subliminalmente) che àncora trova la propria origine, la propria “lingua-madre”, nel paniere del greco storico. Chiunque invece è in grado di accertare l’errore del DELI, che non completa il “carotaggio” diacronico perché non vuole staccarsi da una infruttuosa comparazione. Se avesse completato il “carotaggio”, avrebbe scoperto che àncora ritrova la base etimologica molto più a fondo rispetto al greco storico, arrivando alla base dell’egizio ånk ‘to tie, restrain, fetter; legare, trattenere, incatenare’; Ǻnku ‘un dio che incatenò i nemici di Osiride’.

MATS. Un altro esempio, tra i mille disponibili, illustra bene l’errore di quanti vogliono concludere il “carotaggio” – costi quel che costi – con l’ancoraggio alla (asteriscata) lingua-madre. Così vien fatto col got. mats, ‘cibo’, da cui got. matian ‘mangiare, essen’. Cfr. ingl. meat ‘carne’, ‘pasto’, ags. mete, aat. maz, asass. mat, afris. mete, norr. matr, dan. mad, sved. mat ‘cibo’. AEIT 214, tentando di guidarci all’etimo, vorrebbe fermarsi ad una (asteriscata) radice germanica *mati legata a suo parere al ted. Messer ‘coltello da tavola’ (e già in questa fase i suoni di base divergono in modo inequivoco!). Poi, tentando di sbrogliare la questione, AEIT presenta una (asteriscata) «radice indoeuropea *mad– ‘umido, ‘gocciolare’, grasso’». Questo secondo tentativo culmina nell’assurdo (chiunque è in grado di accorgersene), ed il disegno costruttivo del triangolo (il quale nel suo rigore detesta le fantasie) si sgretola davanti ai nostri occhi.

Se invece AEIT si fosse ancorato alla realtà, avrebbe trovato che mats ‘cibo’ ha base etimologica nell’eg. ma ‘to slay’, maā ‘to kill, slay’ + t ‘bread, loaf, cake’. A questo punto, poiché l’impianto della lingua egizia è arcaico e primigenio persino a confronto della lingua gotica, va da sé che questo dato vada interpretato. Il composto maā-t in origine significò ‘smembrare il cibo’ (nel senso di divorarlo facendolo a pezzi). Si può notare una concettualità del tutto primitiva, un’arcaicità risalente a centinaia di migliaia di anni, quando l’Homo nemmeno riusciva a gestire il fuoco e sbranava letteralmente la propria preda come qualsiasi altro animale. Mats è una delle numerose prove di quanto siano remote, e ciononostante ancora fresche, le radici della lingua gotica.

MITAϸS. Vien facilissima un’ulteriore prova della sana efficacia del “triangolo”, quando confrontiamo il got. mitaϸs ‘misura di grano’ con l’akk. madādu ‘to measure out’ (grain, other dry and liquid commodities).

SKŪRA. È infine più facile accertare l’origine di got. skūra, ted. Schauer ‘scroscio di pioggia’ (λαῖλαψ ἀνέμου Sturmwind, lat. procella venti) con la base eg. qer ‘wind’, qerå ‘rainstorm, tempest, hurricane, thunderstorm’. L’esempio di skūra è importante anche perché testimonia l’origine remotissima di un altro fenomeno – onnipresente nelle lingue europee – della s– polifunzionale (privativa, potenziativa, esaltativa, ostativa, ecc.), la quale si aggancia all’eg. s– (prefisso causativo): mentre i miei colleghi indoeuropeisti, com’è noto, presentano questa s– di origine indogermanica.

I MONOSILLABI

Il linguaggio umano s’articola in suoni differenti che si oppongono tra loro; soltanto l’opposizione di un suono all’altro può essere il criterio per distinguere un concetto dall’altro. Esempio di tre parole italiane distinte dal mutare di una sonante: mare ‘grande vastità d’acque’, mire ‘puntamenti al bersaglio’, more ‘frutti dal colore viola-marrone’.

Ogni forma lessicale concepita inizialmente dall’Homo Sapiens (o dal Neanderthal) fu monosillabica. Questa asserzione è così palmare che volerla dimostrare sarebbe ozioso. Però due esempi da manuale sono davanti agli occhi: le lingue morte considerate più arcaiche, quella egizia e quella sumerica, sono ambedue monosillabiche. Ed è ovvio che il patrimonio lessicale apparso alla storia con Egizi e Sumeri è lo stesso patrimonio elaborato dal Neanderthal e dal Sapiens, un vocabolario-dizionario tramandato immutato per migliaia di secoli, arricchito e mai logorato grazie alla religiosa custodia esercitata dalle successive generazioni sul Delta, le quali poi migrarono pure in Mesopotamia, oltreché nel Mediterraneo ed in Europa.

Una sola vocale, o una sola consonante: così furono espresse le prime parole. Ogni consonante a sua volta s’espresse con vocali d’appoggio (ed anche questo è ovvio).

È del tutto intuitivo che ai primordi l’opposizione tra suoni fu elementare; eppure ogni lingua, ogni popolo (sia pure tra motti di beffa o di stupore) accettò che un proprio fonema potesse significare cose differenti nelle lingue viciniori: e già questo processo fu la base perché ogni popolo si sentisse autonomo, distinto dall’altro. Quindi abbiamo /a/ nel sum. a ‘acqua’, nell’eg. a ‘andare’ e nell’eg. å ‘uomo vecchio’; abbiamo in opposizione /e/ nel sum. e ‘parlare’; parimenti si oppose /i/ (sum. i ‘vestito’, eg. i ‘una esclamazione’); si oppose anche /u/ (esempio sum. u ‘terra’, eg. U ‘una città mitologica’ ed anche ‘un Dio di Denderah’).

Quanto alle consonanti, ho già detto che sortirono alla storia del linguaggio appoggiandosi a vocali. Pertanto avemmo ba, be, bi, bu; ab, eb, ib, ub, cui corrispondono in sumerico le seguenti parole: ba ‘coltello’, be ‘misurare’, bi (particella avverbiale), bu ‘perfezione’; ab ‘vacca’, eb ‘forma ovale’, ib ‘arrabbiarsi, ub ‘grotta’. In egizio abbiamo ba ‘anima’, bi ‘meravigliarsi’, bu ‘casa’. E così via per ogni altra lettera dell’alfabeto e per ogni altro gemellaggio di questa con le vocali.

Già questi primi semplici e corti monosillabi, composti da una sola vocale o da consonante vocalizzata, consentirono ai loro formulatori di creare in breve almeno 300-400 parole. Ciò è strabiliante! Infatti chiunque sa che ancora oggi presso qualsiasi popolo, anche in Europa, per la comunicazione quotidiana s’usano non più di 300 parole (nonostante che ogni vocabolario nazionale ne contenga oltre 100.000, oltre 200.000). Ciò significa che ancora oggi, dopo un milione di anni, il genere umano usa quotidianamente lo stesso numero di parole dei primordi. Strabiliante!

È del tutto ovvio che quelle 300-400 parole furono la base necessaria al formarsi dei clans, i quali sono coaguli sociali sortiti per la naturale esigenza dell’Homo di consolidare le azioni economiche con delle pratiche comuni capaci di assicurare la sopravvivenza del singolo e del gruppo.

A questo punto rimarco un aspetto importante, peraltro già accennato. Qualunque sia il genere di Homo che gli antropologi hanno rinvenuto anche nel nord Europa ed in Asia (insomma, qualsiasi commistione sia avvenuta tra Sapiens e Neanderthal), è del tutto ovvio che il primo habitat ideale della razza umana furono le aree temperate (e quelle caldo-umide), cioè le aree rigogliose, irrigue, piovose, naturalmente feconde e produttrici di cibo abbondante o sufficiente. Soltanto in seguito la razza umana si è spinta a Nord ed in luoghi meno produttivi.

Come si esprimeva l’Homo Neanderthal?, come s’esprimeva il Sapiens? Qua appresso presento e commento un breve elenco di parole inizialmente monosillabe che dalle origini arcaiche (forse 200.000 anni fa, se non più) sono rimaste tali sino ad oggi tra le varie lingue europee: es. in quella gotica, latina, greca, italica, sarda, inglese.

AGŌ lat. ‘faccio, agisco’ (durativamente); ‘spingere avanti a sè’ (bestiame); ‘dirigersi’, ‘avanzare, andare’; agmen ‘armata in marcia’; agilis ‘che avanza rapido’; quid agis? ‘a cosa ti stai impegnando?’. Cfr. il parallelo gr. ἄγω, nonché l’armeno acem ‘io conduco’, irl. –aig ‘egli conduce’, skr. ajati, avest. azaiti ‘egli conduce’. La base arcaica è il monosillabo sum. ag, aka ‘to make’, eg. akht ‘thing, affair, business’. Per il vb. faciō (indicante l’azione momentanea) vedi infra.

A-LA-LÀ, αλαλή è il grido di guerra degli antichi Greci, ma pure un grido in genere, che può essere di gioia, di dolore, ecc. Lo si considera voce onomatopeica (Rocci, Frisk), e lo è veramente, in quanto tale ripetuta per le volte che il momento suggeriva; è una esortazione sumerica (alala, a.la.la) significante ‘al lavoro!’.

AM it. è voce che indica il ‘mangiare’, specie il ‘mangiare vorace’, che fu considerata onomatopea. Invece ha base etimologica nell’eg. ām ‘to eat, swallow, devour; mangiare, ingoiare, divorare’, ‘food’. Va da sé che la voce è paleolitica.

AMO it. ‘uncino d’acciaio che serve alla cattura del pesce’. I filologi romanzi ne propongono l’origine dal bisillabo lat. hāmu(m) e ritengono questo di etimologia incerta (come dire, ignota: vedi DELI). Invece l’etimo è sicuro, avente base nell’eg. ḥåm ‘to catch fish’, am, amu, amm ‘to seize, grasp’; cfr. il bisill. akk. amû (un pianta spinosa), dal che apprendiamo che in origine i pesci furono pescati legando tali spine (ad es. quella dell’Acacia horrida) a un filo. Indubbiamente la parola egizia è paleolitica.

ANCHE it. ‘pure, ancòra’; è congiunzione coordinante che rafforza il rapporto copulativo con l’elemento verbale precedente: es. hai parlato anche troppo (= tu hai parlato + hai parlato troppo); con lei viveva anche il figlio; per la fame mangiò la minestra ed anche il piatto. Si noti che in italiano e in latino le congiunzioni e gli avverbi sono spesso chiusi da una –e funzionale (funzione avverbiale, congiuntiva, di origine sumerica), la quale amplia in bisillabo l’originario monosillabo.

DELI dichiara che l’etimo di anche è “incerto” (un modo per dire che non si conosce). In realtà la base etimologica esiste, però i millenni e le vicissitudini politiche del Mediterraneo hanno spezzato inesorabilmente i vari legami col passato. Ma l’intuizione e l’interpretazione possono venire in soccorso, specie in questo caso, consentendo di riallacciare i legami e facendo riaffiorare la struttura che il linguaggio aveva nell’alta preistoria.

Anche ha base etimologica nell’eg. ‘nḫ (leggi ank) ‘vita’, ‘vivere’; ‘viva’ (imperativo). Va da sé che nel Mediterraneo, millenni prima di Roma, questa parola egizia ebbe tante funzioni, e funzionò pure come l’attuale anche. Pertanto, dopo una frase si aggiungeva ‘nḫ per indicare un elemento aggiuntivo al soggetto o all’oggetto già espressi. Stessa origine – l’abbiamo notato – ha l’it. àncora.

ANS got. = gr. κάρφος ‘materia arida vegetale, pagliuzza, festuca’; ted. Balken ‘sbarra’ (Lu VI,41-42). Cfr. ans con sum. ANIŠ (a type of plant). Invero, la reale base etimologica è l’eg. ån ‘eyebrows, sopracciglia; hair of any kind’, nonché ån ‘pillar, column’.

Da qui si riesce a chiarire perfettamente il celebre passo evangelico: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo?». Infatti Gesù voleva contrapporre icasticamente un sopracciglio a un pilastro, a una colonna; ma in greco, mancando i giusti termini, dai Settanta furono preferiti al loro posto κάρφος e δοκός (‘pagliuzza’ e ‘trave’). Fu Wulfila a rimettere le cose a posto; egli ad ogni parola gotica ridiede i significati delle origini.

ARA got. = gr. ἀετός ‘aquila’, ted. Aar. In egizio Ḥarw (gr. Horus) era il dio-falco figlio di Osìride. Cfr. la base originaria, che è il monosillabo eg. ar ‘be captured, put in restraint, to strangle, be netted; esser catturato, impedito, strangolare, essere intrappolato’, ar ‘disgrace’.

AVO it. ‘nonno’, ritenuto dal DELI originario dal lat. āvu(m), a sua volta di “origine indoeuropea” col sign. di ‘anziano’. Invero l’origine di avo sta nel campo semitico, specificamente nell’ebr. āv ‘padre’ ( אׇב ): cfr. il seriore akk. abu ‘padre’.

ASSO it. ‘figura nelle carte da gioco’, anche ‘punto sulla faccia di un dado corrispondente al valore uno‘. La base sta nel sum. ‘uno’, hittita ‘uno’.

BADU sd. ‘guado’. Cfr. lat. uādum ‘idem’, aat. watan, airl. vađ. L’arcaica base etimologica è il sum. bad ‘stare separato’, ‘vallo’, ‘aprire’.

BALLA sd. ‘palla’; parola pan-europea e mediterranea avente base nel sum. bal ‘restituire’ (così funziona l’antichissimo gioco della palla), bala ‘capovolgere, trasferire, ruotare’ (parimenti riferito all’arcaico gioco della palla). Cfr. it. palla, longob. balla, ingl. ball.

Quanto all’it. balla nel senso di ‘frottola, fandonia, grossa bugia’, appare per la prima volta ai primi dell’800 con gli scrittori milanesi, ma è parola già esistente a livello popolare (DELI). Pare ovvio che il termine prese avvio come similitudine delle grosse palle di pietra lanciate dalle catapulte contro gli assediati. In questo caso rientra pure il sd. balla in quanto ‘pallina (da gioco o da fucile)’, con base nel sum. bal ‘sasso’. Da qui ha origine il significato italico e sardo. Infatti, le palle dei fucili e dei cannoni furono inizialmente di pietra, e tali restarono per secoli, in concorrenza con quelle di piombo (materiale più raro).

CIAO interiezione it., ‘termine di saluto amichevole, confidenziale’. DELI scrive che il termine deriva dall’italico del nord, anzitutto veneziano s-chiao (leggi s-ciao); così anche nel piemontese s-ciao, che viene interpretato come ‘schiavo dal (vostro)’. Ma il saluto schiavo vostro è formula semantica mediterranea, non solo italiana, è antichissimo, sorpassato da quasi due secoli, pronunciato diversamente secondo le lingue, e fu saluto di commiato altamente reverenziale rivolto a persone di alto rango, quindi è il contrario di s-ciao.

In realtà, s-ciao ha base etimologica nell’eg. s-tchai (leggi s-čai) e significa ‘to be well, happy, amused, enjoy oneself; star bene, essere felice, divertirsi, gioire’. È l’equivalente dell’ebr. ša(-lom), ar. sa(-lam) ‘stai bene’ (-lom < eg. rur piacere’, quindi il seriore bisillabo šalom significò ‘star bene e divertirsi’).

CÙA fu l’antico nome log. della ‘civetta’ e del ‘gufo’, sopravvissuto grazie al cognome Còa, registrato nel condaghe di Bonarcado 57, oltre che nelle locuzioni. Base etimologica l’akk. ḫū’a ‘civetta, gufo’, got. ḫū ‘uccello’. V. log. fàghere a sa cùa ‘agire di nascosto’, ossia ‘agire come la civetta’.

CUT (to cut) ingl. ‘tagliare’. Base etimologica nel sum. kud ‘tagliare’.

DE lat. particella invariabile marcante l’origine, l’allontanamento, idea accessoria di movimento dall’alto in basso. La particella agisce in parecchi composti, oltreché in preposizione e in preverbio: es. flumen de monte labitur in planitiem ‘il fiume scende dal monte al piano’; migrare de vita ‘morire’; oleum quod de matura olea fit ‘olio che proviene da olive mature’. La particella ha migrato poi nella lingua italiana, dove si trova in moltissimi usi linguistici, ivi compresi i cognomi d’origine. Parimenti accade nella lingua sarda, dove però il de è originario, avente basi sumeriche, come peraltro accade al latino.

Stando all’Ernout-Meillet, il de latino si ritrova soltanto nel celtico (irlandese di, gallese di-). In realtà il lemma dovette essere molto espanso nell’antichità, avendo base etimologica nel sum. de6 ‘portar via’.

DO (to do) ingl. ‘fare, agire’. Base etimologica nel sum. du11(-g) ‘consegnare’, ‘offerta’; ‘agire’; anche ‘parlare’, nei casi aš du(g) ‘dire una maledizione (maledire)’, di du(g) ‘dire una causa (giudicare)’, anir du(g) ‘dire un lamento (lamentarsi)’, ĝiš du(g) ‘fare il pene (far l’amore)’, maškim du(g) ‘fare l’ufficiale giudiziario’, ecc. Da questi ultimi esempi si nota l’identità di azione e di forma del verbo sumerico con quello inglese.

Ē lat. preverbio e preposizione. In latino si nota l’alternanza e / ex in dipendenza dall’iniziale o gruppo d’iniziali del vocabolo seguente. Il termine ha base etimologica nel sum. e ‘to go out’, ‘to come forth, uscire’. Quanto ad ex, forse possiamo trovare l’archetipo nel sum. e ‘to go out’ + ki ‘luogo, sito’ + se ‘stay, live in’: e-ki-se, col significato di ‘andar fuori luogo’.

EWE ingl. ‘pecora’ (leggi //). Base nel sum. u ‘pecora’. Cfr. eg. åa ‘ox, cattle; bue, bestiame’.

FACIŌ. Il vb. lat. faciō è usato per indicare l’azione momentanea, mentre agō indica l’azione durativa. Si può osservare che, esclusa l’iniziale f-, sia f-aciō sia agō condividono la stessa base etimologica, che è il sum. ag, poi aka ‘to make, to act, to perform’. L’azione momentanea di f-aciō si distingue dall’azione durativa di agō per la presenza di sum. b-, marcatore di ergativo verbale.

GÁIA gr. γαῖα, γῆ ‘la terra, la dea Terra’. I grecisti riconoscono che il termine è senza etimologia (Chantraine), mentre in realtà la base è il sum. ge ‘forma, shape’, ki ‘la terra’, che può anche aver subito l’influsso di gu ‘interezza, somma, totalità’. Cfr. Nor-ge ‘Norvegia’ < sum. nur ‘luce, bagliore’ + ki ‘territorio’: Nur-ki = ‘Terra dei bagliori, Terra delle aurore boreali’.

GÀIO it. ‘allegro, lieto’. Cfr. al riguardo l’aprvz. gai ‘idem’ che DELI vuole derivare da un (inesistente) got. *gâheis ‘impetuoso, veemente’. L’etimo del bisillabo gàio si basa invece sul monosillabo eg. ḥāi ‘to rejoice, rallegrarsi’.

GÁMOS gr. ‘nozze, sposalizio’, base etimologica nel sum. gam ‘vulva’.

GARUM presso gli antichi Romani era la salsa che si preparava con pesci marinati, come ad es. il garus (pesce sconosciuto) e particolarmente con lo scomber (vedi Orazio, Seneca e altri). In gr. fa γάρον (salsa d’interiora di pesci con vari condimenti). Base il sum. gar, poi gara ‘crema’.

GUAI it. ‘disgrazia, sventura’. Guai ai vinti!, lat. uae victis! Base etimologica l’eg. uai ‘to destroy, vanquish, be master of’.

HALS got. = gr. τράχηλος, Hals ‘collo, gola’ (L 15,20: et accurrens cecidit super collum eius et osculatus est eum).

Ai fini dell’etimo, le parole gotica e tedesca vanno cfr. con l’it. collo ‘arto che unisce la testa al torace’, per la cui origine DELI propone soluzioni svianti e senza senso, del tipo che «l’it. collo deriva dal lat. collum ‘pacco, merce imballata’ perché tale ingombro viene portato sul collo». Quest’incredibile asserzione non tiene conto che i pesi notevoli non hanno mai gravato sul collo (membro corporeo assai delicato) ma semmai sulla spalla. A parte ciò, DELI rinuncia a cercare con procedura onesta gli etimi di collo e collum, ed ignora che l’it. collo, got. hals, ted. Hals hanno base nel sum. kul ‘to bring together, collect’. In questo caso, il collo in quanto ‘organo del corpo umano’ si distingue dal collo in quanto ‘balla trasportabile’ perché collega due parti del corpo, il torace e la testa (brings together, collects).

A sua volta, la ‘balla trasportabile’ (collum) ha una base solo foneticamente identica: è il sum. kul ‘to be heavy’, ‘to gather up, glean; raccogliere, racimolare’.

HE ingl. ‘egli’. Base etimologica nell’aram. hi ‘ella’.

HIC lat. pron. dimostrativo di 1a sg. L’Ernout-Meillet non produce l’etimo. Esso ha base nell’aram. ‘questo’.

IO pron. italico di 1° pers. sing., identico al pronome-suffisso egizio –i (vedi anche ingl. I): A. Gardiner EG 39.

LÙI, COLÙI. Faccio notare che l’it. lùi, pron. pers. di terza p. m. sg. ‘egli, esso’, ‘lo’ esiste da prima del 1294: lo usò Brunetto Latini come soggetto, poi usato da Dino Compagni e da altri. È registrato come termine d’uso popolare, il che vuol dire ch’era decisamente in uso già secoli prima. DELI, sulla scorta di molti etimologisti, lo propone dal lat. parl. *(il)lui per il dat. class. illi (sul modello di qui, cui → ‘chi, cui’. Questa ipotesi del DELI è sufficientemente logica, ma tralascia con sé il fatto che in italiano, a traino della forma lùi, si presenta in parallelo anche la forma colùi pron. dimostr. ‘quello, quegli’, usato dapprima nel 1292 da B.Giamboni ma preesistente, e creduto da un lat. parl. *(ec)cu(m) illūi, propriamente ‘ecco a lui’. Però osservo che sia *(ec)cum sia *illūi sono forme supposte, mai documentate, ed è azzardato, nonché ascientifico, arguire un etimo da forme inventate. In realtà la forma documentata esiste, ed è il sum. lu ‘uomo’, ‘persona’, ‘colui che’, ‘quello/a che’, ‘di’, cui fu apposto il suffisso –i di origine ebraica.

NO it. negazione. Base etimologica l’eg. n, nn ‘not’.

PAPA it. ‘capo e sommo sacerdote della chiesa cattolica, vicario di Gesù Cristo in terra e successore di Pietro’; ha l’antecedente nel lat. tardo pāpa(m), gr. pápas ‘padre’, bisillabi considerati dal DELI di origine infantile. Non lo sfiora neppure l’idea di abbinare la voce all’it. papà ‘padre’, col quale papa condivide la stessa forma e lo stesso significato. Purtroppo, anche questo secondo termine è considerato dal DELI di origine infantile. In realtà i due termini non sono infantili, e risalgono al sum. pap ‘padre’, ‘primo e più importante’, dove troviamo rappresi in uno i due significati che andarono poi divergendo in epoca cristiana. Cfr. il monosillabo eg. ‘ancestor’, Pāpā ‘a birth-goddes’ (un monosillabo raddoppiato in Denderah).

nome del fiume più grande d’Italia, dai Romani chiamato Pādum, Pādus. Parola certamente celtica, ma la base etimologica è il sum. ‘bocca’, ant. akk. (m) ‘bocca, sorgente’ (di fiume), cfr. ant. akk. pā᾽um ‘idem’. Da pā᾽um si sviluppò il nome lat. Pādum, Pādus.

QUA. Stando al DELI, l’italico qua ‘in questo luogo, in questo posto’ dovrebbe avere base etimologica nel lat. (ěc)cu(m) hāc ‘ecco per di qua’. Ma non serve grande acribia per notare la fantasia sfrenata del DELI: quel Dizionario infatti ci fa assistere dapprima alla distruzione di una parola intera (ěccum), poi alla religiosa delicatezza con cui se ne preleva un pezzetto (-cu-), infine all’azzardo da Frankenstein che appiccica –cu– al lat. hāc e crea il minotaurico –cuhāc, senza più curarsi della fine che possano aver fatto tutti gli altri membri abbandonati, compresa la velare finale (-c). Lasciando i metalinguistici esperimenti del doktor Frankenstein; resta un’unica risorsa: attingere al dizionario sumerico, dove troviamo ku ‘to place, collocare, mettere, porre’ + –a (suffisso locativo con valore ‘in’): ku-a, significò ‘in questo luogo, in questo posto’, proprio come in italiano. Cfr. anche eg. qaå ‘by, near’ (esattamente uguale alla voce nap. ca, a ca ‘qui’).

QUE lat. cong. ‘et’. Cfr. eg. ḥå ‘and’, k, ka, kai ‘moreover, another, also’.

QUIS lat. ‘colui che’, chi it. ‘colui che, coloro che’ pronome indefinito. Frase: maestro è chi conosce bene una disciplina. Base etimologica è il pronome indefinito eg. ky ‘altro’ (pronome indefinito). La forma egizia precede sempre il nome cui si riferisce: quindi ky s ‘un altro uomo’ (da cui lat. quis).

RE it. ‘re, capo supremo di un popolo’ (per lat. rex, regis vai a rege). Base etimologica l’eg. ‘Dio Sole’.

SACCO it. ‘recipiente cilindrico di tela o altro’; ha riscontro nel bisillabo lat. saccus ‘sacco di grano, di denaro’, gr. σάκκος, akk. saqqum ‘sack(cloth)’; però nota il monosillabo eg. saq ‘to collect, gather together, assemble’.

SAEPE lat. ‘spesso’ < eg. sep ‘a sign of multiplication, to multiply’. Si può notare che pure in latino la voce è monosillabica: essa è stata resa bisillaba aggiungendo il monema funzionale –e connotante gli avverbi.

SCIUÈ SCIUÈ avverbio nap. ‘alla buona’, ‘superficialmente’, ‘con semplicità’; agg. ‘semplice’. La locuzione, ripetuta in termine superlativo, è celebre per la ‘pastasciutta veloce’ (pasta allo scarpariello ‘pasta del calzolaio’ o pasta sciué sciué), oltre che per la canzone di Renato Carosone dove un innamorato dedica all’amata una serenatiella sciué sciué, una ‘piccola serenata alla buona’.

Secondo F. D’Ascoli NVDN, l’etimo della locuz. sciuè sciuè avrebbe base nel fr. échoué part. pass. del verbo échouer ‘non riuscire, andare a vuoto’; échouer ha pure il significato di ‘essere bocciato’, ‘arenarsi, incagliarsi’; e pure fig. ‘finire’: ne sachant où aller, nous avons échoué dans un bar ‘non sapendo dove andare, siamo finiti in un bar’; je me demande comment ce papiers ont échoué dans ce tiroir ‘mi chiedo come queste carte siano finite in quel cassetto’; significa anche scaduto: passeport échu ‘passaporto scaduto’, ed anche ‘maturato’: les intéréts échu ‘gli interessi maturati’.

Però si nota facilmente che i significati francesi sono assai discosti dai significati napoletani; e Carosone, uomo del XX secolo di questa Era, non avrebbe usato la locuzione sciuè sciuè, se la sua serenatiella avesse dovuto “fallire”. Non basta quindi l’omofonia per giustificare un etimo, quando manca il “vertice del triangolo” e non si sanno giustificare i significati divergenti. La cultura del D’Ascoli, un filologo romanzo, traspare dalle sue etimologie, esclusivamente agganciate alle tre “consorelle neo-latine” (francese, spagnolo, italiano) ed al cordone ombelicale latino. Il D’Ascoli, nell’abbinare la voce napoletana e quella francese, ignorava che ambedue s’agganciano a basi arcaiche, quelle che lui non seppe rintracciare. Infatti, la base etimologica di questa locuzione (ove la ripetizione è un superlativo rafforzante l’idea della “semplicità, della povertà d’ingredienti”) sta nell’eg. šui ‘helpless, indigent; impotente, indigente’; šuu ‘a needy man, un uomo bisognoso’; šua ‘to be weak, miserable, wretched, poor, helpless; debole, miserabile, povero, indifeso’.

SE it., si sassar., log. e camp. avverbio condizionale ‘se, nel caso che, nell’eventualità che’: indica esitazione, incertezza, dubbio, condizione. Vedi aprvz. si ‘idem’. Di questa voce mediterranea s’ignorò l’origine. Ha base nell’akk. Sê’, Sîn ‘Dea Luna’. Nel lontano passato entrava in ogni e qualsiasi invocazione rivolta alla Dea. Si deve assumere per certo che l’onnipresente Se, Si (valore desiderativo) fosse a capo di quasi ogni frase, così come ancora oggi fanno gli Arabi con Insciallah (dove l’arcaico Allah agli albori era pur sempre la Dea Luna). Nell’it. mediev. il se era usatissimo nel senso di ‘possa avvenire che, voglia il Cielo che…’ (es. Inf. 16-64: Se lungamente l’anima conduca le membra tue; Inf. 10-82: Se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi…). Ancora oggi è usato in Sardegna: si ti fales unu ráju ‘che ti cada un fulmine!’, dove quel si desiderativo esprime ancora l’invocazione alla Dea Luna.

SÉRIO agg. it.; séru sassar. ‘senno, saggezza, accortezza, giudizio’. Questo singolare vocabolo è stato concepito sulla scorta di sénnu. Così come quello prende le mosse dal sum. šennu ‘priest, sacerdote’ (tutto un programma); parimenti séru prende le mosse dal monosillabo eg. sr ‘funzionario’ (leggi ser); akk. ṣīru ‘augusto, eccellente, di rango primario’. Peraltro in log. ant. sèr(e) era il titolo che si dava al Giudice o Re (CSMB 100: iudice sere Ugo de Bassu; 164: ser Remundu c’arreiat corona). Cfr. it. sire ‘signore, sovrano’. Il titolo euroasiatico è usato in Italia per rivolgersi al re, ma ciò avvenne poco prima del 1566 ad opera di Annibal Caro. In Italia la voce appare prima del 1250 ad opera di Cielo d’Alcamo. DELI, non avendo altri raffronti, lo propone dal fr. ant. sire, apparso nel 980 nel significato di ‘padrone, signore’, in riferimento a Dio. Una voce ancora più arcaica è l’ingl. sir ‘titolo nobiliare’ (pronuncia sér, come la voce sarda e quella egizia). Altra voce collegata è l’it. sèrio ‘dall’aspetto concentrato, grave, responsabile’, antico aggettivale da séru.

SHE ingl. ‘ella, lei’ (pron. dimostr. di 3a persona, e pronome indipendente) < akk. šī ‘ella, she’.

avverbio it. affermativo. Appare in tale forma nel Novellino 819 alla fine del XIII secolo. Lo si deriva dal lat. sic ‘così’ nella formula sic est ‘così è’. Invece ha base etimologica nel sum. ši-, preformativo verbale affermativo, che sottolinea il rilievo di quanto già esposto; cfr. pure sum. sig ‘to be clear’, ‘chiaro’.

SUD ‘parte del mondo rivolta al sole di mezzogiorno’, dal sum. šud ‘preghiera’, intendendosi con esso il punto esatto verso cui la proscinesi dell’orante avveniva, in onore ovviamente del Dio Sole.

SUN ingl. ‘sole’, con base etimologica nel sum. šun ‘risplendere, brillare’. V. ted. Sonne ‘sole’.

SŪS. sūs, sŭis lat. ‘porco, maiale, scrofa’. Base etimologica nel sum. suš ‘grasso, lardo’: termine antonomastico.

TABULA lat. ‘piano, panca, tavola, piano per scrittura’, da cui tabulae ‘libri dei conti’ etc., it. tavoletta ‘tabella di terracotta per scrivere’.

L’Ernout-Meillet non trova l’etimo, il quale ha base nel sum. tab ‘eguale, simmetrico’. Non a caso il suo segno scrittorio cuneiforme equivale al segno = .

TESI it. ‘proposizione che richiede di essere dimostrata’. La si propone dal gr. thésis ‘azione di porre, stabilire’. Invero, la base etimologica è l’eg. thes ‘to compose a connected statement, to arrange words in logical sequence’, ‘what a man wants to say aphorism’.

TILL, until ingl. preposizione che esprime l’estensione da un punto a un altro. La base etimologica sta nel sum. til ‘terminare, portare a termine’.

TIPO it. ‘persona originale, singolare, bizzarra’ (questa interpretazione è del DELI). In realtà la voce indica una ‘persona qualunque’, appunto un ‘tipo’, un ‘individuo’. L’accezione indicata dal DELI è seguita da un aggettivo: es. un tipo strano, ossia ‘un individuo strano’. Base etimologica è l’eg. tep ‘person, man or woman, individual’. Quindi la base non è quella indicata dal DELI, cioè dal lat. typu(m) ‘statua, modello, maniera, carattere’.

TU it. ‘tu’; túe, túi log. e camp. 2a pers. sing. del pronome personale. Corrisponderebbe, si dice, al lat. ‘tu’. Ma contesto la derivazione dal latino, alla cui forma quella sarda è stata assimilata semplicemente perché anche il termine latino ha basi egizio-sumeriche. Infatti la forma sarda originaria ha base nell’eg. tu, tw (pron. masch. dipendente: ‘tu, te, ti’), da confrontare con quella sumerica, che è tu ‘tuo, yours’. Presso gli Egizi tw è spesso forma di rispetto per indicare il sovrano (Pernigotti 159).

TŪS, tūris lat. ‘incenso’, gr. thýos ‘il bruciare nei sacrifici’. Base etimologica l’eg. ṭur ‘to clean, purify’.

UR fono-semantema mai mutato sin dall’origine dei tempi: è rintracciabile nel prefisso tedesco indicante l’arcaicità, l’altissima antichità, la primogenitura, come nei vocaboli Urahn ‘avo’ (cfr. gr. Οὐρανός, dio del Cielo, secondo Esiodo figlio e coniuge della Dea Mater, da eg. ur– + sum. An ‘Dio del Cielo’ = ‘Anu originario’). Vedi anche uralt ‘vecchissimo’, Urbegriff ‘concetto primitivo’, Urbewohner ‘aborigeno’, Urbild ‘originale, prototipo’, Ureltern ‘progenitori’, Urgeschichte ‘preistoria’, Ursprache ‘linguaggio originale’, ecc. Base etimologica l’eg. ur ‘eldest, senior; maggiore, più anziano’.

I falsi monosillabi, spia di processi linguistici seriori. Abbiamo già detto che i primi monosillabi costituirono le prime parole. Fa lo stesso dire che le prime parole furono monosillabe: ogni suono (o amalgama elementare di suoni) indicò una cosa, un vivente, una situazione.

In breve tempo seguirono i bisillabi, forme più elaborate di linguaggio, sortite come sintagmi, ossia come minime associazioni significative tra concetti, rapporti primordiali tra due parole (un monosillabo legato ad un altro monosillabo), evidenzianti le reciproche dipendenze tra cose o persone o idee. Molto spesso si è trattato di rapporto generativo (genitivo): es. sd. Déu ‘Dio’ è un’antica parola bisillaba dal sum. de ‘creare’ + u ‘universo’ e significò ‘creatore dell’universo’.

Un osservatore sprovveduto potrebbe catalogare déu tra i monosillabi, qualora ne ignorasse la genesi. Ciò può succedere con migliaia di altri (falsi) monosillabi, molti dei quali hanno subìto il “rimpicciolimento” in tempi storici, ossia in tempi più vicini a noi, secondo le leggi del sandhi. Un esempio paradigmatico è il monosillabo ingl. John, semanticamente uguale al trisillabo it. Giovanni, che migliaia d’anni prima fu pentasillabo, nome teoforico dall’ebr. Yeho-chānān, Yeho-chānaan, composto da Yeho (Geova) + Chānān col significato di ‘Dio di Canaan’. L’ags. John è una contrazione portata all’eccesso ma nella quale ancora s’intravedono i due radicali Jo (dalle tre apofonie Yah, Yeh, Yoh) + Hn (Chānān). A sua volta Canaan < ebr. כְּנַעַן ha base etimologica nell’ant. akk. qanānu ‘fare il nido, insediarsi’, qannu ‘il costruito’, qanu, qanā’u ‘tenere il possesso di’, ‘acquisire’; ma anche kânu ‘divenire permanente, stabile’ (di casa, territorio).

Un altro monosillabo derivato da bisillabo è il got. ains (leggi ens) ‘uno’, ted. ein: cfr. gr. οινή ‘asso’, lat. ūnus, sd. unu, aisl. einn, ags. ān, afris. ān, ēn, asass. ēn, aat. ein, apruss. ains. Mastrelli GG 88 immagina la base di queste voci germanico-mediterranee nell’ie. *ŏynos, sbagliando doppiamente. Il primo errore è quello di creare “a tavolino” ed attribuire arbitrariamente un vocabolo ad una lingua mai esistita; il secondo è l’immaginare che i bisillabi siano sortiti, come niente fosse, fin dall’origine del linguaggio, assieme ai monosillabi, mentre essi sono, categoricamente, un prodotto linguistico seriore, mentalmente più elaborato: sono la prova più eclatante delle prime costruzioni sintattiche volute dall’Homo Neanderthal/Sapiens.

Per l’etimologia di ains occorre partire dal sd. unu ‘uno’, la cui base è il sum. u ‘dito’ + nu ‘creatore, genitore’: unu, col significato di ‘dito generatore, che dà l’origine’. Si noti che il sum. unu significa anche ‘bastone, scettro’, il quale per antonomasia indica proprio l’unità; ciò è chiarito pure dal lat. ūnus, espresso mediante la cifra I, indicante l’idea di un bastone ritto, di uno scettro. La controprova è che in latino la cifra dei numeri superiori viene scritta affiancando tanti “bastoni”: II ‘due’, III ‘tre’, IIII ‘quattro’; mentre V indica il palmo aperto, ossia le cinque dita. Dal sum. unu ‘dito generatore’ prese origine l’uso sacro di rizzare il dito medio della mano e abbassare gli altri, allo scopo d’indicare l’effige del sacro phallos (l’Uno, segno apotropaico). Quindi col “dito generatore” fin dalle origini s’indicò a un tempo sia il sacro phallos, sia il dito che genera la molteplicità aritmetica. Si noti un fatto importante, che nell’antico Egitto ‘il Dio dell’Esistenza, the Begetter, il Generatore’ per antonomasia, era chiamato Un.

Altro monosillabo attuale derivato da bisillabo è l’ingl. deep ‘profondo’; aat. tiof, asass. diop, dan. dyb; gr. dépas ‘coppa’; georg. toba ‘lago’. Base etimologica l’akk. ṭebû ‘sprofondare, andar sotto’.

Altro monosillabo derivato da bisillabo è l’it. Eèa, gr. Aιαίη, soprannome di Circe, sorella di Eeto (Odissea). Si credeva che ella abitasse un’isola di questo nome. Da questo epiteto della maga derivarono le espressioni latine Aeaeae artes e Aeaea carmina, indicanti le arti magiche. La base etimologica sta nel sum. e ‘casa, dimora’ + e ‘delirare’ + a ‘acqua’, col significato di ‘dimora dell’acqua del delirio’, con riferimento al fatto che Circe faceva bere ai visitatori una pozione che li trasformava in maiali.

Altro monosillabo derivato da bisillabo è il gr. Ἕως, la “dèa dalle dita rosate”, l’Aurora, avente base etimologica nel sum. e ‘portar fuori’ + u ‘sonno’, col significato di ‘Colei che porta (il Sole) fuori dal sonno’.

Altro monosillabo derivato da bisillabo è il got. gaits (leggi gets: g– dura) ‘capra’, χίμαρος, Ziege; lat. haedus ‘capro’, aisl. geit, ags. gāt, asass. gēt, aat. geiʒ. Mastrelli GG 88 ne indica la base nell’ie. *ghăydys, un doppio errore per cui rinvio alla mia critica fatta per ains. Semerano OCE II 423 indica invece la base nel bisillabo akk. gadû ‘young goat’.

Altro monosillabo derivato da bisillabo è l’ingl. net ‘rete’; ted. Netz, got. nati, ags. net(t), etc. Base etimologica è l’akk. nêtu ‘racchiudere, circondare’, dove si notano più gli effetti della rete che le esigenze che ne determinano l’uso.

Ulteriore monosillabo derivato da bisillabo è Pān, Πάν, base etimologica nell’akk. pan, poi panû, penû ‘faccia, apparizione’ (apparizione del Sole, faccia del Sole). Pān era l’originario dio dell’Arcadia, ipostasi del Sole. Non a caso il celebre panico (πανικός) arrivava all’ora meridiana, quando il Sole risplende e accalda in sommo grado, richiamando la terribile insostenibilità del Dio. Abbiamo pure la corrispondenza ebraica: pāne, pānīm ‘faccia, apparizione, apparenza’; cfr. ebr. Penû ’El ‘la faccia di Dio’, al cui santuario si recavano gli Israeliti per adorare la faccia splendente di Dio, il Sole, col suo severo potere giudiziale.

Infine, per non tediare, indico soltanto il monosillabo ingl. set (to) ‘mettere, porre’, ‘regolare’, ‘fissare, stabilire’; cfr. sd. séttiu, sédiu ‘giusta posizione’, ‘modo di stare’; torrare a séttiu is cosas ‘mettere le cose a posto’; cfr. it. assettare ‘mettere a posto, sistemare’, assetto ‘sistemazione o disposizione coordinata allo svolgimento di un’operazione’. Ha base nel sum. se ‘stabilire, dimorare’, ‘vivere’ + du ‘costruire’, ‘piantare’, ‘tenere saldamente’: se-du significò ‘stabilire saldamente’, ‘stabilirsi saldamente’, onde lat. sēdēs ‘luogo dove si vive’, it. sedia’, lat. sedēre ‘sedere, stare fermo’.

Gli attuali polisillabi, seriori forme sintattiche. Nelle parlate delle origini la funzione agglutinante fu utile per legare le parole/concetti tra loro, dando ad ogni parola una precisa funzione grammaticale secondo la posizione nella catena parlata.

I polisillabi nacquero con questo fine (costituivano, cioè, dei sintagmi), mentre oggi vengono percepiti soltanto come espressione sintetica priva di valore sintattico. Ad esempio, il trisillabo lat. Aurora viene percepito con una sola immagine mentale (un ‘chiarore purpureo che anticipa l’apparizione del sole’). Invece le sue origini egizie evidenziano il complesso processo mentale che fu necessario a comporre il trisillabo. Infatti furono impiegati tre fono-semantemi: åur ‘to conceive, be pregnant’ + ur ‘great god’ + ‘Sun-God’. Il trisillabo Åur-ur-Rā significò ‘Colei che partorisce il gran dio Sole’; in esso percepiamo sinteticamente ed unitariamente 1. l’immagine della dèa gravida che partorisce ogni giorno davanti allo spettatore stupefatto, 2. l’immagine della gloriosa immensità di questo parto, 3. l’immagine del Sole in quanto Dio Sommo.

LA GRANDE KOINÉ LINGUISTICA MEDITERRANEA

Migliaia di parole mediterranee ed europee sono tra loro affratellate, immerse nell’originaria Koiné Mediterranea che ho voluto delineare supra. Possiamo anche chiamarla Koiné Deltizia. Essa si produsse nel Mediterraneo quando l’Homo Niloticus stava sperimentando il balbettio delle iniziali forme di linguaggio: è ipotizzabile che dal Delta la Koiné Mediterranea s’espandesse almeno 100.000 anni fa, forse 200.000 anni fa, o molto più.

È bene osservare due fenomeni che sembrerebbero opposti: da una parte è la stessa autoctonia dei popoli, vie più suddivisi e lontani col trascorrere dei millenni, a sancire l’arcaicità di certe loro parole rimaste peculiari (abbiamo visto l’esempio di marikreitum); d’altra parte una parola polisillaba può essere parimenti arcaica, e ciò vien testimoniato proprio dalla sua comunanza con le altre e dall’ampiezza della loro condivisione geografica. In questo secondo caso, se una parola appartiene alla Sardegna, all’Italia, a mezza Europa, al Vicino Oriente, ai Goti, persino alla Russia, ebbene, non può che essere arcaica, perché dimostra di essere stata adottata come espressione comune fin da epoche remotissime.

Alcune parole primitive sono condivise non solo in Europa, nel Mediterraneo, nella Mezzaluna Fertile, ma persino in Cina e in Giappone. In questo raro caso abbiamo l’ingrato compito di discernere se il focus della parola sia l’Estremo Oriente o la Mesopotamia o il Mediterraneo, o l’Europa continentale. Un esempio è la voce sd. caccu, frutto e albero che Devoto presenta come “albero delle Ebenacee (Dióspyros kaki) originario della Cina e del Giappone”. Notiamo che il nome è ritenuto di origine giapponese, ed anche DELI fa le stesse presentazioni, scrivendo che il termine apparve in Italia soltanto nel 1836.

Questi ricercatori però non tengono conto che di tale frutto abbiamo la base etimologica nel bab. ḫaḫḫu ‘albero da frutta’ (susina o pesca, sostengono i semitisti, evidentemente intimoriti dalla credenza prevalente in Italia, mentre io penso proprio al ‘kaki’). Se la pianta è d’origine cinese, c’è da immaginare che nell’alta antichità l’albero o il suo frutto (o il seme) sia pervenuto in Mesopotamia attraverso le vie carovaniere e da qui si sia espanso nel Mediterraneo. Il nome in babilonese significa anche ‘phlegma, mucus’, e sembra originato dalla consistenza organolettica del frutto, che è “mucosa”. Sembrerebbe pertanto chiaro che, mentre il frutto provenne dall’estremo Oriente, il nome sumerico-accadico sia migrato invece in estremo Oriente grazie all’alta considerazione che in Asia si è sempre avuta per la lingua e la civiltà sumerica. Vedi comunque il sum. ḫaḫala ‘commestibile’.

Per la stragrande quantità di vocaboli la ragione sufficiente a postulare il loro collocamento agli albori della Koiné Mediterranea può essere soltanto la primitività del loro concetto, specie quando viene espresso con un monosillabo (es. lat. sūs), poiché – giusto quanto sappiamo della lingua egizia e di quella sumerica – il linguaggio primitivo si espresse esclusivamente a monosillabi.

Il polisillabismo e la sintassi. Però occorre acribia, poiché la massima parte degli attuali vocaboli europei, pur non essendo monosillabi, a scrutarli bene non sono meno arcaici dei monosillabi. Basta intendersi. Nella ricerca etimologica la presenza dei polisillabi non può essere affatto deviante ma va interpretata con i giusti mezzi. Abbiamo già osservato i bisillabi, ed abbiamo appreso che l’agglutinazione primordiale dei monosillabi in bisillabi (e poi in polisillabi) avvenne per l’esigenza di articolare la massa dei vocaboli (dei concetti) entro un reseau sintattico. Così nacquero le primitive grammatiche, ossia le prime regole espressive del linguaggio. Buoni paradigmi per abituarsi a capire gli antichi fenomeni grammaticali sono: 1. Rafael Jiménez Zamudio, Gramática de la Lengua Sumeria, Ediciones Clásicas, Madrid, 2000; 2. Dietz Otto Edzard: Sumerian Grammar, Society of Biblical Literature, Atlanta, 2003.

Essendo il fenomeno dell’agglutinazione reciproca delle sillabe nient’altro che un’antica procedura grammaticale, dobbiamo abituarci a vedere i polisillabi attuali come esiti fossili di arcaici processi d’agglutinazione sintattica tra monosillabi (lo abbiamo già visto nell’esempio di Aurora).

Pertanto i vocaboli che di seguito presento casualmente, sebbene non monosillabi, sono comunque divisibili nelle antiche basi monosillabiche. Operando questa “disintegrazione” torniamo alle Origini e – restituendo il giusto valore ai singoli monosillabi così recuperati, grazie al confronto con gli identici o simili monosillabi sumerici o egizi – siamo in grado di “rileggere” la trafila sintattica delle origini, ridando all’attuale parola polisillaba la vitalità che i millenni le avevano sottratto fossilizzandola in un grumo di suoni incrostati entro un solo significato.

AEDĒS, antico aidēs, lat. ‘focolare domestico’, ‘casa’, ‘camera’, ‘tempio, dimora degli déi’. Gli indoeuropeisti hanno sbagliato a proporre l’etimo dal lat. aestŭs ‘ardore, vampa del fuoco’, aestās ‘estate’, gr. αἴθω ‘accendo’, skr. édaḥ, idhmaḥ ‘legno da bruciare’. Essa invece ha base nel sum. e ‘casa. tempio’ + de ‘to shape, create’: e-de, col significato di ‘casa edificata, tempio eretto’ (ovviamente in contrapposizione alle capanne di frasche, abituali dimore del popolo). Non a caso il termine sumerico si oppone al semitico bait ‘casa’, che normalmente, almeno alle origini, era una capanna, una tenda.

AÈNA, avèna sd. ‘avena’. Il nome della piantina è stato accostato al lat. avēna, con la pretesa che il termine sardo derivi da tale fonte. Il che non è vero. Lo stesso termine latino fu poi accostato, per suo conto, al lit. avižà, lett. àuza, ant.pruss. wyse, asl. ovĭsŭ: ma se ne ignorò l’origine. È nell’accadico che abbiamo l’attestazione di questo fitonimo mediterraneo e paneuropeo: essa è, per sd. aèna e lat. āvēnā, ḫāwû, amû ‘’lettiera per animali’, ‘spazzatura’ (l’uso che se ne fa ancora oggi). Base etimologica è l’eg. åu ‘bread, cake’ + ‘to set aside’. Il composto åu-nå in origine significò ‘cibo conservabile’.

ANDÀRE it. ‘muoversi a piedi o con mezzi di locomozione’. Secondo DELI, l’etimologia del lemma è “controversa”, come dire, ignota. In realtà essa è chiara, avendo base nel sum. du ‘to go’ (vedi il dialettale italico du-ma!, an-dù-ma! ‘andiamo’, sardo an-do ‘vado’). La particella prefissa an– ha basi accadiche, da an, ana (con significato simile al gr. ana).

ARCHÉ gr. ‘principio, cominciamento, origine, prima causa’. Vedi anche il cgn sd. Arca, che deriva dall’akk. (w)arḫu ‘la luna’, ‘primo giorno del mese’, ‘inizio della lunazione’. Base etimologica è l’eg. år ‘creare, generare’ + ha ‘day, time, season’. Il composto in origine significò ‘che genera il tempo’.

BABÁY è uno degli appellativi del Sardus Pater venerato nel tempio punico-romano di Antas. Babay è voce šardana ancora viva nell’ant. sd. Babbu, babbáy, con tutte le conseguenze del caso: < sum. babaya < ba-ba-ya ‘old man’. Tra gli Egizi, Babai era il figlio più anziano di Osiride, e Ba era ‘the Ram-god’, il ‘dio della virilità e della generazione’.

BABBU ‘padre’, anche ‘Padre Eterno’, termine pansardo; tosc. babbo. Nelle carte medievali (CSP 15, 262; CSNT 15,63; CSMB 33) prevale patre per designare il proprio padre, almeno nelle donazioni ufficiali dei Giudici, i quali evidentemente, se non altro nell’uso della lingua aulica, erano influenzati dalla lingua latina.

Il termine è collegato con l’akk. abu ‘padre’, cui si è aggiunta nel tempo la b– per influsso di sardo babay ‘babbo’ < sum babaya ‘uomo vecchio’. Il termine si è confuso poi con bābu ‘piccolo ragazzo, bambino’ ed ha contributo ad espellere dalla parlata sarda l’omofono accadico bābu ‘porta (di casa, del tempio, della reggia, della città)’. Ma babbu ha un forte aggancio originario, etimologico e semantico, col sumerico Babay o Baba, che indicava la Gran Madre universale, corrispettiva della Astarte fenicia. Notisi la strabiliante trasformazione di questo appellativo, inizialmente femminile, che poi è arrivato a denotare una entità maschile, ivi compreso l’appellativo che ancora oggi in Sardegna si rivolge sia al genitore sia al Padre Eterno. Per il resto, l’etimo della presente voce va benissimo anche per la voce babáy, alla cui base sta sempre il monosillabo Ba ‘dio della generazione’.

BARRA, sbarra it. ‘sbarramento, steccato, palo traversale di separazione’ (vedi barrare, sbarrare; barricata; barriera); ingl. bar. DELI lo crede italico di origine preromana. Ed invero ha base nell’ebr. barr ‘separare’; akk. barru ‘purificato’, ‘seen, checked’.

BASTARDO it. ‘figlio non riconosciuto’, un tempo detto ‘figlio di nessuno’. Per estensione anche ‘innaturale, non autentico’. Secondo DELI, la voce sarebbe derivata dal fr. ant. bastard, di cui nessuno conosce l’etimo. La voce apparve in Italia con Jacopone nel 1304-1313, ma già vigeva nel lat. med. bastardus (Salimbene, 1281-88), e ciò denota che la voce è mediterranea. DELI, dando valore spregiativo al suff. it. –ardo, avvalora l’ipotesi di chi pensa che, in rapporto a un figlio illegittimo, bastardo voglia riferirsi a chi è “nato sul basto (dell’asino)”: ignominiosa ipotesi degli eruditi che non sanno mettere la mordacchia alla propria dissolutezza. Questa obbrobriosa forzatura manca di argomenti, poiché non si è voluto cercare tra le lingue semitiche alla ricerca della verità.

Bastardo è un composto con base nell’akk. bâštu ‘dignità, orgoglio’ + (w)ardum ‘schiavo’. Quindi bâšt-ardum in origine significò ‘schiavo che ha dignità’ (contrapposto evidentemente a tutti gli altri schiavi, cui per definizione la dignità non era riconosciuta). Per capire questo concetto particolare occorre andare alla tradizione nobiliare medievale, allorché – causa le numerose premorienze dei bambini – i figli nati fuori del matrimonio erano tenuti in gran cura dai nobili e dai re, allevati e tenuti in riserva per una eventuale successione all’eredità o al trono in caso di assenza o premorienza dei figli legittimi. Di qui l’etimologia.

Tra i tanti bastardi dei tempi andati, si possono citare Ebalus il bastardo (ca. 850 – ca. 934, sovrano franco, conte di Poitier e duca d’Aquitania); Bastardo d’Orleans, soprannome di Jean de Dunois, nobile e militare francese; Guglielmo il Bastardo, appellativo di Guglielmo il Conquistatore, re d’Inghilterra; Giacomo II di Lusignano, detto il Bastardo (1439 ca. – 1473), re di Cipro, di Gerusalemme e d’Armenia. Uno noto bastardo dell’antichità fu Perseo figlio di Filippo, che divenne re di Macedonia nel 179 a.C.

BELLUM lat. ‘guerra’. Base etimologica nel sum. be ‘tu cut off’, ‘to reduce in size’ + lu ‘uomo’: bel-lu, col significato originario di ‘fare a pezzi un uomo’. La controprova sta nell’akk. belû(m) ‘essere estinto, finito’ (di vita, malattia); ‘distruggere’ (un popolo, la vita).

Un’altra controprova si ricava proprio dalla lingua latina, dove inizialmente bellum era pronunciato duellum, riferito alla lotta tra due guerrieri (nell’antichità molto spesso una guerra era decisa con un combattimento tra i due capi).

BIÁNCU cognome tipicamente mediterraneo, presente in Italia (Bianco e varianti), Còrsica, Gallura, in varie parti della Sardegna.

L’agg. it. bianco e il cgn Bianco sembrano di origine germanica, da blank ‘ripulito, vuoto’ (originariamente ‘lucente’, ‘luce pura’). Apparve in Italia nel sec. XII a Savona, Cast. Ant.t. 175 (DELI). Ma a quell’epoca Biancu era già cognome sardo (è attestato nel codice di Sorres 192, dal quale possiamo evincere che il cognome esistesse già da molti secoli): quindi sembra più antico di quello italico. In realtà la forma germanica, quella italica, quella sarda appartennero tutte alla Koiné Mediterranea. Biancu, blank, Bianco hanno base etimologica nel sum. bar6 ‘bianco’, ‘libero’ + an.ki ‘cielo e terra’: bar-an-ki, col significato di ‘vuoto assoluto dell’Universo’. Vedi anche il cognome sd. Branca, Barranca.

BOGHE log., boke barbaric. ‘voce’. Questo vocabolo sardo, oramai contaminato dal latino e da altre lingue europee, ha la lontana base etimologica nella lingua sumerica: gu ‘voce’, uḫ ‘trachea, uvula’, ug ‘lamentation’, u ‘urlare a squarciagola, muggire; to bellow’ + ka ‘bocca; dire, parlare’ (u-ka = ‘urlare con la bocca’); cfr. armeno gočem ‘io grido’, lat. uōce(m) ‘voce’, toc. A wak, B wék ‘voce’.

BOMBO it. ‘insetto degli apidi dal corpo tozzo e peloso, a strisce nere-gialle-bianche’, noto per l’indefessa ricerca di nettare sui fiori; cfr. lat. bombus, gr. bómbos. Base etimologica nell’akk. bûm ‘uccello’ + bu”û ‘ricercatore’: bûmbu”û.

BUSTO it., imbustu sd. (Sardegna: Perdasdefogu, Escalaplano), bustu log. e camp. ‘busto’. Non ne fu capita l’origine (cfr. DELI). In Sardegna si volle indicare con busto una ‘pietra cultuale’, quella che oggi vien chiamata perda fitta ‘pietra infissa (in terra)’, da sum. burtum: bur ‘cultic location, cultuale’ + tum ‘stone, pietra’. Fu all’inizio del Neolitico che prese vigore la moda dei “mezzi-busti”, segnalata anzitutto in Sardegna (menhirs di Macomer), poi in Corsica (menhirs di Filitosa), poi in Grecia (erme), infine a Roma.

CASTÒNE it. ‘sede metallica per pietra preziosa, costituita da un’incavatura e da un contorno’. DELI scrive che la parola appare la prima volta nel lat. mediev. di Roma del 1295, e lo presenta dal fr. ant. caston (1200 ca.), dal germ. kasto ‘scatola’.

Invero, il termine è di età neolitica ed era comune all’Eurasia. Infatti, oltre che tra i popoli germanici lo troviamo in Italia in modo autonomo, e si ripete identico nell’Asia antica. La base etimologica è l’akk. kasû ‘legare, trattenere, incapsulare, imprigionare, afferrare’, e simili, il cui sostantivo kasûcaptivus, trattenuto’ ha il femm. kastû. Ancora prima dell’accadico, abbiamo la testimonianza del sum. kasu ‘calice’, ḫaštum ‘buco’; principalmente vedi l’eg. qass-t ‘to fetter, bond, tie; incatenare, legare, stringere’.

CHAOS, Χάος in greco indica ‘l’apertura immensa, lo spazio immenso, le tenebre, l’abisso’, dalla base di χάσκω nel senso di ‘spaccare, spalancare’; da sum. ḫaš ‘rompere’, akk. ḫašû, ebr. ḥāšaḥ ‘essere oscuro, to be or grow dark’, ḥāšōḥ ‘profondo, oscuro, low, dark, obscure’ (OCE II 314). Per Arrighetti T 138, «che cosa Esiodo intendesse per Chaos è ancora un grosso problema. La parola sembra collegata col verbo χαίνω ‘aprirsi, spalancarsi’, per cui viene facile pensare che Esiodo designasse con Chaos il luogo dove le cose vengono a sussistere. Che poi nell’immaginare la collocazione dello spazio vuoto Esiodo non sappia pensare che alle regioni poste al disotto della terra non è cosa che meravigli». Base originaria l’eg. ḥa ‘to strike, destroy’ + usi ‘quite, wholly’. Il composto in origine significò ‘distruzione totale, universale’.

CRISTALLO it.; criłtállu agg. sassar. ‘cristallino’: kissu abaùnza l’éba criłtalla ‘quello sporca l’acqua cristallina’ (detto di persona sgradevole). Voce dota dal gr. κρύσταλλος ‘ghiaccio, acqua gelata’ < ebr. qōraḫ ‘ghiaccio’, aram. qerar, ar. qarra ‘freddo’ (OCE II 152) + akk. tallu ‘dividing line, transverse line. Anticamente si credeva che i cristalli perfetti (es. il quarzo) fossero nient’altro che acqua gelata incapace di fondersi. L’aggiunta di tallu ‘linea divisoria, trasversa’ volle indicare la particolare formazione dei cristalli, evidenziata dalle perfette linee geometriche che si ripetono. In ogni modo, la base etimologica può anche essere il sum. kur ‘to alter, alterare’ + ‘mountain’ + taḫ ‘to add, increase’ + lu ‘ciò che, that which’. In questa seconda ipotesi non c’è bisogno di tirare in ballo il concetto di “acqua cristallizzata” ma si osserva invece il fenomeno di ‘ciò che cresce alterato sulla montagna’.

CUCCU sd. e sassar. ‘cùculo’ (Cuculus canorus); anche ‘civetta’ (Athena noctua). Nella ricerca dell’etimo possiamo evidenziare, en passant, i seguenti lemmi: dravidico kaka ‘cornacchia’, sum. kuku ‘nero’ (due termini adatti alla ‘cornacchia nera’, Corvus corone, meno adatti alla ‘cornacchia grigia’, Corvus cornix, sufficientemente adatti alla ‘civetta’, Athena noctua, assolutamente disadatti al ‘cùculo’, Cuculus canorus).

Nella lingua italiana la ricerca etimologica dell’avionimo cùculo si complica, in virtù dell’errata pronuncia cucùlo pretesa dai linguisti (Devoto, Oli, Battaglia, DELI, ecc.) che credono all’origine onomatopeica dell’avionimo e si meravigliano che in tutta Italia il popolo insista a pronunciare diversamente: cùculo, insinuando che l’accento sdrucciolo sia voluto e dovuto per distinguere *cucùlo da cùlo (sic!). Quando un linguista afferma che la pronuncia popolare è “volutamente sbagliata”, vuol dire che è caduto nell’abiezione della superbia e dell’ignoranza. Il popolo non sbaglia mai la pronuncia. Quindi occorre perspicacia per dipanare la questione, aiutandosi anche con l’osservazione del comportamento dei volatili. Intanto il sd. cuccu indica sia il ‘cùculo’ sia la ‘civetta’ (da qualcuno impropriamente chiamata gufo). E già la combinazione dello stesso nome per due volatili crea complicazione. La quale però viene sanata dalla considerazione che i due uccelli hanno comportamenti diversi e basi lessicali diverse.

La base etimologica di sd. cuccu (it. cùculo in quanto ‘Cuculus canorus’) è il sum. ku ‘prender posto, posarsi’ + kul ‘pianta’, col significato di ‘uccello che si nasconde negli alberi’. Infatti non c’è uomo che possa vantarsi d’aver visto il cùculo cantare, ma solo d’averlo ascoltato, avendo questi il comportamento d’infilarsi negli alberi folti e da là mandare il richiamo alla femmina.

La base etimologica di cuccu in quanto ‘civetta’ è il sum. ukuk ‘uccello’ (un evidente raddoppiamento) + akk. ḫu’u, ḫu’a ‘civetta, gufo’ (stato costrutto uk-uk-ḫu’u > (u)kuk-ḫu’u, con caduta di u– avvertita come corruzione dell’art. det. su ‘il’) + influsso del termine sum. kukku ‘nero’; il termine sardiano significò quindi ‘uccello della notte’.

Dalla civetta, e non da cùculo, origina il detto sassarese vécciu che lu cùccu. Ma non si riesce a capire per quale ragione la civetta (o il cùculo) sia da considerare l’animale più longevo del mondo, a meno che non interpretiamo cuccu come paronomasia.

Alla base di questo pasticcio moderno (indicativo della perdita di memoria storica) sta il mito della Notte, gr. Νύξ, -κτός, lat. Nox, –ctis, dèa ritenuta figlia del Chaos e sorella di Erebo, dal quale generò l’Etere e il Giorno. Omero (Iliade 14,261) ricorda il timore che essa suscita persino in Zeús, re degli dèi. La Notte risiedeva nelle tenebre dell’Ade. Un mito orfico la legava all’origine del mondo e ne faceva la protagonista di una antichissima cosmogonia: secondo questa leggenda la Notte era un grande uccello dalle ali nere che, fecondato dal vento, depose un uovo d’argento nelle tenebre. Dall’uovo scaturì Eros, il dio dell’amore dalle ali dorate; nell’uovo si trovava il mondo intero, generato dalla notte.

Va da sé che anche questo mito orfico ha origini mesopotamiche e sardiane, poiché è proprio nella lingua sarda, più precisamente nel dialetto sassarese, che il detto vécciu che lu cùccu si connette al mito orfico. Cuccu si basa sul sum. kukku ‘buio, tenebroso’, kukku ‘luoghi tenebrosi (a indicare gli Inferi, l’Ade)’, akk. kukkûm ‘buio, tenebre’ come designazione del mondo infero. Prima che intervenisse la paronomasia moderna che mette in campo il cùculo, il sassar. vécciu ke lu cùccu significò ‘antico come le origini del mondo’.

DÉBAUCHÉ fr. ‘dissoluto, debosciato’. Termine composto con de– ridondante, rinforzativo, mentre la radice sta nel secondo membro bauch-, con base nell’ant. ebr. bōš ( בּוֹשׁ ) ‘svergognato, ashamed’.

DÉDALO era un personaggio mitico nel quale gli scrittori greci impersonificarono il primo sviluppatore dell’arte architettonica e scultorea. Nella sua arte ebbe un allievo particolarmente dotato chiamato Calos, o Talos o Perdix, ch’era figlio di sua sorella. Manco a dirlo, Perdix ha lo stesso nome del lat. perdix, sd. perdìxia ‘pernice’. Siamo nel mondo degli uccelli, e non fa meraviglia che il personale Dédalos abbia a base il composto sum. de-dal-lu ‘il costruttore volante’ (de ‘formare, costruire’ + dal ‘volare’ + lu ‘colui che’).
Avendo ucciso Perdix perché la bravura di quello oramai gli dava molta ombra, Dédalo partì da Atene e si rifugiò a Creta guadagnando l’amicizia di Minosse. Per Pasifae, moglie lussuriosa di Minosse, costruì la famosa vacca. Nato il Minotauro, Dédalo costruì il Labirinto ma Minosse ve li rinchiuse ambedue, affinché l’infamia non avesse testimoni. Però la sua complice Pasifae lo liberò ma egli per scappare non trovò alcuna nave. Così costruì le ali per sé e per Icaro.

DICŌ lat. ‘pronunciare, dire, proferire, esporre’. Base etimologica nel sum. di ‘to say, tell, speak’ + ku ‘depositare, porre in loco’: di-ku, col significato di ‘deporre la sentenza’ (ie. ‘parlare solennemente’); vedi sum. dug ‘to speak, talk, say’. Cfr. it. (imperativo).

DÍKĒ, δίκη gr. ‘giudizio’. Ha base etimologica nel sum. diku, dikud ‘giudice’. Ma v. lat. dicō.

EROS, gr. Ἔρως figlio di Gáia. Dal sum. ere ‘prendere alla strozza’, ‘pressare’ > akk. erēšu ‘desiderio, oggetto del desiderio’. «Eros non ha una discendenza sua propria e diretta, e ciò è facilmente spiegabile in quanto Eros …rappresenta la forza e l’impulso a generare… quindi potrebbe apparire in contraddizione all’ampiezza di questo suo ruolo cosmico il farlo generatore di una sua discendenza particolare» (Arrighetti T 138).

GÁMOS gr. ‘nozze, sposalizio’ ha base etimologica nel sum. gam ‘vulva’.

GARUM presso gli antichi Romani era la salsa che si preparava con pesci marinati, come ad es. il garus (pesce sconosciuto) e particolarmente con lo scomber (vedi Orazio, Seneca e altri). In greco fa γάρον (salsa d’interiora di pesci con vari condimenti).

Il termine ha per base il sum. gar, gara ‘crema’.

GOOSE ingl. ‘oca’. Base etimologica l’akk. ūsu(m), us’um ‘oca’.

GURGES lat. ‘gorgo, vortice, corrente impetuosa, onda’, ‘profondità, abisso (delle acque)’. Le ipotesi etimologiche dell’Ernout-Meillet (vedi) sono alquanto improprie. È preferibile la base sumerica gur– del ripetitivo (plurale) gurgur ‘vaso’, ‘silos’.

GUTTA lat. ‘gotta’, ‘artrite’, letteralmente ‘goccia’: si credeva scendesse direttamente dal cervello a provocare l’artrite. Osserviamo i segni della gotta, per capire se possiamo avere più elementi di riflessione: l’articolazione si presenta molto infiammata; le sedi più spesso colpite sono l’alluce, la caviglia, l’anca, il ginocchio e il polso; l’immobilità, per il dolore, è quasi assoluta; possono essere presenti febbre, brividi, malessere generale. Per l’etimo abbiamo la base sum. gu ‘forza’ + tab ‘bruciare’: gu-tab ‘forza che brucia’.

HABITATIŌ, habitationis lat. ‘l’abitare’, ‘domicilio, stanza, dimora, abitazione’ < sum. ḫa ‘vegetale’ + akk. bītu ‘casa’: ḫa-bītu ‘casa di vegetali’ ossia ‘capanna’ (v. sem. bet, ebr. bait ‘casa’).

HUMUS termine universale, derivato dal latino, per indicare il suolo, il terriccio, che specialmente nelle foreste si crea per interazione biochimica delle foglie morte e della base rocciosa o terrosa. L’humus è l’effetto della lenta decomposizione delle foglie e dei rametti, ridotti a fertile poltiglia, grazie anche a una serie di insetti e vermi che la colonizzano.

L’Ernout-Meillet fa una lunga disquisizione, illustrando una serie di termini indoeuropei apparentati con quello latino. Lo stesso fa Semerano OCE II 429, che in più introduce il lemma sumerico che può esserne l’origine, ossia ḫum ‘bassura di terreno, depressione’.

Semerano coglie la base che è sumerica, ma essa è diversa da come egli l’ha concepita, essendo un’agglutinazione di ḫa ‘vegetale’ + mu ‘maciullare, stritolare’ + šu ‘totalità’ (composto ḫa-mu-šu > ḫu-mu-šu per attrazione modale della –u– intermedia).

ILLŪC lat. ‘colà’, ‘là’ (moto a luogo). I latinisti lo deducono da ille ‘quello’ (pron. dimostrativo), e la finale –c viene interpretata come forma epidittica (Ernout-Meillet). In realtà questa forma è da confrontare con l’aram. illek ‘quelli’.

LACCÁJU, laccàja log., sd. ‘servitore, serva’ (oramai si parla al tempo passato, poiché oggi il termine ha senso spregiativo); a Ovodda sa laccàja è una donna d’aiuto non retribuita, che sfaccenda per la casa magari anche in momenti particolari quale l’uccisione del porco; essa fa la sguattera, va al fiume a lavare i panni, etc. A Cagliari laccàju è anche il nome di un pesce, altrimenti detto lakkè.

Wagner lo fa derivare dal cat. alacajo, sp. locayo ‘servitore che precedeva o seguiva la carrozza del padrone’; fr. laquais, it. lacchè. Sul termine italiano DELI osserva che «si dibattono con esito ancora incerto tre diverse proposte etim.: la catalana-araba (alacay ‘valletto d’armi’, dall’ar. al-qā᾿id ‘alcade’, vedi cadì: Spitzer), la provz. (lecai ‘ghiottone’: Diez, Corominas), la turca (ulaq ‘corriere’).

Il primo etimo proposto dal DELI (‘alcade’ ossia ‘primo cittadino’) sta agli antipodi del significato sardo, e va scartato perché contraddittorio. La seconda e la terza ipotesi sono un po’ attendibili. Peraltro va osservato che in un’area così remota e conservativa come Ovodda, un tempo isolata dalle grandi comunicazioni isolane, è molto arduo immaginare che sa laccàja fosse nominata “alla francese”, quale lacché, sia pure a mo’ di scherno. Nessuno, in paese, avrebbe mai osato creare un neologismo offensivo contro una lavoratrice o un lavoratore locale, salvo attendersi sangue e faida. Quindi il termine un tempo non ebbe significato negativo; quantomeno il significato fu neutro fin dalle origini (la coloritura attuale merita altro discorso).

Laccáju, laccàja sono termini aborigeni, anche mediterranei, primitivi, con base nell’akk. alāku ‘andare’, ‘venire’: verbo usato spesso in contesti dove risalta il concetto di ‘servire, attendere, badare a, soccorrere’, quale ālik maḫri ‘chi cammina davanti’, alāku idu ‘andare al fianco di qualcuno’ (nel senso di andare in soccorso), ilka alāku ‘fare il servizio militare’. Il tutto ha base nel sum. a (prefisso dat. in catena verbale) + laḫ ‘to bring, portare’: a-laḫ, col significato di ‘portare a…, soccorrere’.

LIBER lat. ‘libro’, cioè ‘fogli cuciti insieme contenenti generalmente testi scritti o stampati’. Al posto della carta o del papiro inizialmente si scrisse spesso su pelli d’agnello o di capretto ben rasate, legate fra due tavole (pergamena). Il papiro o la pergamena spesso furono conservati in rotoli (ad es. i “Rotoli del Mar Morto”). Il fondamento di tutte queste voci è il lat. liber, librī ‘parte della corteccia d’albero’, su alcune delle quali in origine si scrisse, benché poi nessun reperto organico sia sopravvissuto. Ovviamente in origine si scriveva anche su altri elementi disponibili, ed il fine dello scrivente era far durare una testimonianza, tramandarla ai posteri fin quando possibile.

Base etimologica di liber è dunque il sum. libir ‘to be old, long-lasting, essere antico, assai duraturo’. Ma vedi anche l’akk. libbu ‘mind, spirit’, ‘sede delle emozioni, dei pensieri’, trasl. ‘contenuto (di lettera); statement, asserzione’. Vedi infine l’eg. re ‘chapter or section of a book’, ‘mouth’, ‘determined speech’, ‘talk too much’, ‘to set the mouth in motion’ + bu ‘place, house, site’, ber ‘eye’, brr ‘to become hard, ossify’. Se componiamo re (< le) + bu abbiamo re-bu ‘luogo della parola’ (ossia teca che conserva ciò che si dice); se componiamo re + ber abbiamo ‘discorso per gli occhi’; se componiamo re + brr abbiamo il significato di ‘ossificazione del linguaggio’ (ossia “mummificazione”, conservazione intatta delle parole). Ricordo sempre che in eg. l > r.

Lo stesso gr. βίβλος ‘libro’ non è una sillaba raddoppiata (βί-βλ-ος) nell’usuale schema superlativo delle grammatiche semitiche; invece è un antico bisillabo egizio in stato costrutto (con –i– nel primo membro), dall’eg. bu-brr significante ‘luogo ossia supporto per gli occhi ossia per lettura’.

LÓGOS gr. ’Εν ἀρχῇ ἦν ὁ Λόγος… καὶ Θεὸς ἦν ὁ Λόγος: In principio erat Verbum et Deus erat Verbum, scriveva Giovanni, intendendo che la Sapienza esiste in Dio già prima del Mondo, come puro spirito, per mezzo del quale fu creato tutto. Ma il lat. verbum ‘parola’ era altro, ebbe l’originario significato di ‘mettere in relazione, impegnarsi, garantire’, dall’ebr. ‘erābōn ‘impegno, garanzia’, ‘rendersi garante’, ug. ‘rbn ‘garante, mallevadore’, ‘aver relazione, aver scambio, garantire’, siriaco ‘erab ‘impegnare’. Col che veniamo a sapere che il verbo, la parola per eccellenza, era usata concretamente, per impegnarsi, per i giuramenti, per i patti che non potevano essere traditi: altrimenti si preferiva il silenzio. Così è sempre stato nella storia della lingua sarda. E su bérbu, la ‘parola magica’ che s’usa per le guarigioni, gli scapolari, le scaramanzie, ha base nell’akk. bȇru ‘scegliere, selezionare’, perché quelle parole sono scelte tra tante per avere effetto, perché sono concretamente al servizio dell’uomo. Anche il gr. Λόγος ‘pensiero puro’ ha base nel sumerico: lug ‘posizione’, ‘abitare, dimorare’, onde il sd. lόgu ‘luogo’, ‘regno’, sum. lugal ‘re’ ossia ‘colui che governa nel luogo’, ma anche ‘pianta’, nel senso di ‘colei che si radica’.

MALUM. Di questa parola latina indicante il ‘male’ si è fatto uso ed abuso. Visto che nessun linguista è mai riuscito a raccapezzarsi sull’etimologia del termine, non si è trovato di meglio che abbinare malum ‘male’ a malum ‘mela, pomo’, e farne così una sola cosa e spacciare la gustosa ‘mela’ quale causa del peccato originale di Adamo. Questo procedimento, mai ostacolato, è diventato una delle pantomime delle quali si nutre l’indecoroso teatro delle ricerche etimologiche. Nessuno è andato a vedere l’origine di malum ‘mela’ nel sum. ma ‘to burn’ + lum ‘to fruit’: ma-lum col significato di ‘frutto di fuoco’ (a causa del vivace rossore delle mele di un tempo). Parimenti, nessuno è andato a vedere l’origine di malum ‘male’ dall’akk. malû ‘ingarbugliare’, ‘capelli sporchi arruffati’. Fu in Mesopotamia che si ebbe la prima intuizione tra la sporcizia e il peccato, il male. Il quale poi, per metafora, divenne anche “sporcizia” dell’anima.

MÉTALLON gr. ‘mina, galleria’, lat. metalla ‘gallerie minerarie, miniere’. Il termine è da secoli usato universalmente con l’unico significato di ‘metallo, Metall’ (elemento chimico estratto dalle ganghe minerarie, buon conduttore di calore e facile ad ossidarsi); ma già in latino era giunto gradualmente ad indicare solo il prodotto di scavo delle miniere.

Di questa parola greca s’ignorò l’origine (DELI); l’enigma s’insediò per la confusione creata da quel mét– creduto < μέτα, μετά ‘nel mezzo, tra, con, dopo’; nonché per la confusione di –allon (creduto < ἄλλος ‘altro, diverso’). Ovvio che mét-allon apparve un osso duro da rosicchiare, perché non è possibile credere a un significato originario di ‘oltre l’altro’, ‘con l’altro’, ‘dopo l’altro’. Tantomeno possiamo fondere -allon col fr. aller ‘andare’ (quindi un ‘andare oltre’), perché la prudenza trattiene dal fare connubi tra lingua classica e lingua neolatina. Pare si debba schivare persino il gr. μεταλλάω ‘investigo’. Così si scatenarono le fantasie, e si supposero misteriose parole pelasgiche (van Windekens “Sprache”,4,1952, 135 ss.), o strani prestiti (Debrunner “Eberts Reallexikon” 4,2,525), ed in mancanza di meglio si pensò al “fondo di miniera” (Petruševsji “Ling. Balkanique”, 6,1963, 25-28). Semerano OCE II 181-82 s’avvicinò molto alla soluzione citando l’omofonica parola ant. akk. matallum ‘pietra preziosa, pezzo di rame’, ‘ein wertvoller Stein’.

Considerata l’antichità della parola accadica, risalente indubbiamente alla prima Età del Rame, s’intuisce facilmente ch’essa venne formulata per la rara bellezza del rame puro, paragonato alle ‘pietre preziose’ che già l’Homo sapiens si procurava scalzandole dalle pareti rocciose con bastoni duri e appuntiti, i quali tuttavia non erano adatti alla penetrazione mineraria.

In ogni modo, si badi che il nome matallum sortì dapprima tra i Sumeri, che bruciavano le ganghe per estrarre i primi metalli: vedi infatti sum. ma ‘tu burn’ + da ‘to stir, mescolare’ + lu ‘to flare up, divampare’. Possiamo tradurre il trisillabo come ‘mescolanza (ossia ganga) bruciata a fiamma viva’. Deriva da questo trisillabo il nostro metallo.

NERO agg. italico, ‘detto di corpo che assorbe tutti i raggi luminosi, che sta in antitesi al colore chiaro’. Non deriva dal lat. niger, avendo base nel sum. neru ‘nemico’ (da ni ‘fear’ + ri, re ‘quello, il tale’). Non a caso il termine italico viene indicato quasi a demonizzare una serie di cose, personaggi, situazioni: bestia nera, cronaca nera, giornata nera, libro nero, mercato nero, messa nera. Vedi niger.

NIGER lat., nĭgrum acc. ‘nero, oscuro, tenebroso, maligno, malvagio’, a sua volta di etimo oscuro, secondo i latinisti. Invece la forma latina deriva dal sum. ni gur ‘che incute timore, spaventoso’. V. comunque nero.

NŪBES lat. ‘nuvola’. L’Ernout-Meillet non trova l’etimo. Esso ha base nel sum. nu ‘sperma’ + u ‘Terra’: nu-u ‘sperma della Terra’.

OCCĪDERE lat. ‘abbattere a colpi’, composto col preverbio ob– e cāedere ‘tagliare, abbattere tagliando’. Infatti secondo Festo occīsum si distingueva da necātum perché quello era ammazzato con un colpo, questo senza. Il verbo era proprio della lingua popolare in confronto con il colto interfīcere. La base etimologica del lat. occīdere è il sum. ug5 ‘to kill’ + kid ‘tu cut’, ‘to demolish’, ‘to scratch’, ‘to dissolve’: ug-kid, col significato di ‘uccidere abbattendo a colpi’.

OGÝGIA è la celebre isola di Calypso (Odissea 1, 85). Esiodo usa l’aggettivo ῶγύγιος per l’acqua dello Stige (la cui base è l’akk. ugu ‘death’ < sumero). Si usò quest’aggettivo anche per Tebe, e pure per il fuoco. È anche il nome dell’isola greca di Cos, e vien chiamato così pure l’Egitto. Ricordo infine il mitico re Ogìge.

Secondo l’etimologia corrente Ogýgia significherebbe ‘sacra per antichità’, ma non si adducono prove serie. In realtà la base etimologica di Ogýgia è l’akk. ugu ‘madre’ < sum. + agû, agiu ‘acqua, onda’. Significa quindi ‘la madre (la signora) delle acque’, forse per il fatto di essere in mezzo all’Oceano e per giunta abitata da una dea. L’etimologia va bene anche per qualificare il Delta dell’Egitto.

OMEN, ominis lat. ‘augurio o profezia’. Dal sum. um ‘uccello’ + en ‘incantesimo’: um-en, col significato di ‘incantesimo degli uccelli’. È un puro caso che il termine latino sia omofono dell’ant. ebr. òmen ‘certezza, verità’ < āmen ( אָמֵן ) tradotto ‘sicuramente’, ‘certamente’, formula solenne che accompagna un giuramento o un’affermazione; essa invece deriva dall’eg. Åmen ‘il dio Amon, dio-Sole’. Quindi āmen in origine non fu altro che un richiamo rivolto al Dio Supremo quale garante delle affermazioni, degli impegni, esauditore dei desideri.

L’egizio Åmen era ad un tempo un ‘Dio dalla testa di cane’, un ‘Dio-leone’, un ‘Dio dalla testa di serpente’, ma era anche ‘Amon, Amon-Ra, il Dio nascosto, che sta nei Cieli’. Inoltre in egizio åmen fu il verbo significante ‘render forte, stabile’.

ORCA, Orco. Il termine in Sardegna è rimasto a connotare parecchie domus de janas, tombe di giganti, nuraghi, chiamati domu e s’orcu e interpretati come ‘casa dell’Orco’. Sappiamo che la divinità latina degli Inferi fu facilmente trasformata e plasmata nell’immaginario popolare ad opera del clero cristiano: Orco è un essere terribile che vive nelle tenebre, nelle caverne, e si appalesa per mangiare i bambini. Abbiamo, sotto questo aspetto, la base sum. urku ‘cane’; cfr. sum ur-gi, ur-ki ‘cane’, e si pensa a Cerbero; ma avverto che Orca è originariamente la ‘Dea Luna’, chiamata dagli antichi accadici Urḫu(m), (W)arḫu(m).

PĀDUM, Pādus, nome lat. del maggiore fiume italiano. Certamente fu parola celtica, ma la base etimologica è il sum. pu ‘bocca’, ant. akk. (m) ‘bocca, sorgente’ (di fiume), ant. akk. pā᾽um ‘idem’ (da cui italico Po). Da pā᾽um si sviluppò la dizione latina Pādum, Pādus.

PĀN. Stando ai miti greci, gli uomini appresero dai Satiri la musica, che all’origine era un’imitazione del canto degli uccelli, del soffiare del vento, del mormorio delle fonti. I Greci trasformarono tutto in mito e in poesia. Ma ciò non toglie che i loro termini mediterranei avessero una base più arcaica della loro stessa lingua. Ad esempio, Pān (Πάν) ha base etimologica nell’akk. pan, panû, penû ‘faccia, apparizione’ (apparizione del Sole, faccia del Sole, poiché Pān era in realtà l’originario dio dell’Arcadia, ipostasi del Sole). Non a caso il celebre panico (πανικός) arrivava all’ora meridiana, quando il Sole risplende e accalda in sommo grado, richiamando la terribilità insostenibile del Dio. Abbiamo pure la corrispondenza ebraica: pāne, pānīm ‘faccia, apparizione, apparenza’; cfr. ebr. Penû ’El ‘la faccia di Dio’, al cui santuario si recavano gli Israeliti per adorare la faccia splendente di Dio, il Sole, col suo severo potere giudiziale.

PIAZZA it. (nell’agglomerato urbano è il luogo alquanto largo creato per ampiamento d’una via, d’un sito). Termine sardo, sassarese, paneuropeo, eurasiatico, del quale uno dei riferimenti sta nel gr. πλατύς ‘largo, ampio’, fem. πλατεῖα ‘via ampia nella città’; cfr. lat. plătēa ‘via ampia, cortile’. Pompeo Calvia (Sàssari): Li Candaléri fàrani in piàtza / cu li vétti di rasu trimuréndi… ‘I Candelieri scendono in piazza (ossia nella via più larga di Sàssari), con i nastri di raso tremolanti…’. Vedi anche sp. plaza ‘piazza’, fr. place ‘piazza’ ma anche ‘posto, sito’ = ingl. place ‘luogo, sito’ (tre latinismi da plătēa). Il sd. pratza, paltza e simili, così semplice e così complesso, ha numerose parentele semantiche, oltre a quelle viste, ad iniziare da it. pertùgio (da dividere in pert-ùgio) ‘stretta apertura naturale o artificiale’, sd. paltùsu, partùsu ‘foro’, per estensione ‘ano’; camp. pratzìri, log. paltìre ‘dividere, staccare’, lat. partior ‘divido’; it. partìre ‘dare origine al moto di allontanamento’.

Il termine sardo non è latinismo, non lo è nemmeno il termine italico, e nemmeno lo sono i derivati sardi come pratzìri, paltzìri ecc. Il termine è arcaico, mediterraneo, primamente sumerico: appunto da sum. pad, padr, par ‘rompere, spaccare, dividere’ + zu ‘lama o punta dell’aratro’: par-zu ‘spaccare con l’aratro’, oppure par + tab ‘compartire in due, suddividere’: par-tab ‘rompere in due’.

SAME ingl. ‘identico’, ‘stesso’, ‘medesimo’. Base nel sum. sa ‘essere uguale a’ + me ‘to be’: sa-me, col significato di ‘essere uguale a’.

SET (to) ingl. ‘mettere, porre’, ‘regolare’, ‘mettere’ (es. una trappola), ‘fissare, stabilire’; cfr. sd. séttiu, sédiu ‘giusta posizione’, ‘modo di stare’; torrare a séttiu is cosas ‘mettere le cose a posto’, assettiái ‘mettere a posto’; cfr. it. assettare ‘mettere a posto, sistemare’, assetto ‘sistemazione o disposizione coordinata allo svolgimento di un’operazione’. Ha base nel sum. se ‘stabilire, dimorare’, ‘vivere’ + du ‘costruire’, ‘piantare’, ‘tenere saldamente’: se-du, col significato di ‘stabilire saldamente’, ‘stabilirsi saldamente’, onde lat. sēdēs ‘luogo dove si vive’, ‘sedia’, ‘trono’, sedēre ‘sedere, stare fermo’.

SĬNŬS lat. ‘seno, sinuosità, piega, rifugio, piega della stoffa, petto’. Se ne ignorò l’origine. Si tratta di due voci omofone: akk. sūnum ‘seno’, ‘fianchi, grembo’ (come luogo di ricezione dell’amore maschile) < sum. sun ‘entrare’; sūnu ‘parte di stoffa’.

SIRÈNA nella mitologia greca è il mostro marino in forma di donna, con la parte inferiore di pesce, il cui canto affascinava i naviganti. Il termine classico Sīren, che i linguisti romanzi dànno di etimo incerto, in realtà ha base nel sum. šir ‘cantare’ + en ‘incantesimo, fascinazione, opera di magia’.

SORS, sortis lat. ‘bastoncini di legno gettati per l’interpretazione oracolare’. Dal sum. šur ‘pezzetti di rami’.

SUMĔRE lat. ‘prendere, pigliare, ‘consumare’, ‘comprare’. L’Ernout-Meillet non apporta elementi per l’etimologia. Questa ha base nel sum. su ‘mano’ + me ‘to be’ ovvero mi (compound verbal nominal element): su-me, con un significato generico che rientra nel campo semantico relativo al “prendere con la mano”.

LA MINIERA DI DIAMANTI

Spero sia palese ormai che l’origine della lingua gotica non vada cercata tra i ghiacci del Circolo Polare ai tempi dell’Era Glaciale, ma entro i dizionari egizio e sumerico i quali, di per sé e sino a prova contraria, sono i documenti scientifici attestanti l’originaria parlata dell’Homo Sapiens (anche del Neanderthal). In tal guisa la lingua gotica ha la stessa origine delle altre lingue quale l’accadico, l’iranico, l’indiano, il greco, l’italico, il sardo-còrso, il celtico (per citarne alcune). La differenza lessicale tra il gotico e le altre lingue antiche – laddove si riscontri – è prova dell’avvenuta separazione dalla primitiva tribù unitaria che aveva scelto di dimorare nel Delta cento, duecentomila, un milione di anni or sono. Ogni lingua appartiene a una tribù staccatasi da quella primitiva, ogni lingua s’ingrandì con l’ingrandire della propria tribù la quale poi, divenuta popolo, salvò i contatti reciproci che in epoca arcaica erano rimasti fitti, costanti, solidi, ma vie più affievoliti dalla distanza; finché il popolo dei Goti – forse seguendo la Vistola sino alla foce, quindi traghettando in Scandinavia – non aspettò millenni per operare una sorta di viaggio di ritorno e presentarsi durante l’Impero romano entro i confini di Bisanzio.

Hermann Schreiber ( I Goti, Garzanti) ha descritto la gloriosa odissea dell’ingresso dei Goti nelle terre imperiali, senza però averne potuto descrivere il ver sācrum, ossia l’arcaico doloroso distacco dall’originaria tribù deltizia che li aveva indotti a migrare quale corpo coeso fino alla Scandinavia, dove si presume abitassero per millenni e donde poi si staccarono lasciando spazio ai Normanni.

Non c’è che dire, l’intero spazio europeo fino agli Urali fu occupato dal Sapiens facendo lentamente sparire il Neanderthal. Il Sapiens sin dai primordi si presume compatto e numeroso, poiché il primitivo stanziamento sul Delta si alimentava millennio dopo millennio con la discesa di altri Sapiens lungo il Nilo dalle alture etiopiche, ingrossando e determinando a sua volta spinte centrifughe in tutta Europa, sul Caucaso, in Lybia-Marocco, a Canaan, in Mesopotamia, tendendo anche all’Iran e all’India. Fu con queste diaspore ripetute e millenarie che la lingua, inizialmente unica, si frammentò dialettizzandosi ed infine creando numerosi linguaggi distinti, sia pure mantenendo ampie prove di parantela. La lingua dei Goti è una delle tante in Europa, e l’analisi etimologica dei suoi vocaboli illustra che l’intero vocabolario – nessuna voce esclusa – ha origini nel Delta, ha vistosissimi agganci nel Delta, oltre ad avere saldi addentellati con le parlate mesopotamiche, iniziando ovviamente dalla contigua ed arcaica lingua sumerica.

Sbaglia chi pensasse che la lingua gotica si fosse imbastardita in età imperiale per il secolare soggiorno entro i confini di Bisanzio. Questa lingua – al pari di tutte le lingue europee – mostra forti e tenaci contatti con i popoli limitrofi (questo è certo) ma ad un tempo mostra un grosso apparato di voci forgiate in perfetta autonomia mediante il proprio genius linguae, che conferiscono alla lingua gotica un tetragono spazio identitario tra le lingue prelatine e pregreche. Tra moltissimi esempi cito marikreitum, gr. μαργαρίτης, ted. Perle. Ai fini dell’etimo il lemma va smembrato in mari-kreitum, che significa esattamente ‘seme, grano del mare’ (vedi got. marei ‘mare’ + kaurn, kaurno ‘grano, seme’). Questo vocabolo fu creato dai Goti in perfetta autonomia, e notiamo che il suo significato rimane assai discosto da quello greco. Infatti il gr. μαργαρίτης ‘perla’ in principio significò ‘gioia del mare’, dall’eg. ma-ri ‘mare’, ossia ‘ciò che consente alle navi di muoversi (da ma ‘ship’ + ri ‘to let go’) + gr. χάρις, -ιτος ‘gioia, piacere’ < eg. heri ‘to be content, satisfied’, ‘pleasing’.

Affinché questo fenomeno venga capito bene, mostro di seguito qualche altra etimologia che dimostra l’assoluta originalità del formarsi della lingua gotica; rinvio al Dizionario per i moltissimi esempi non accolti qui per economia di spazio.

AHTAU = ingl. eight, ted. acht, log. otto, camp. óttu ‘eight’: Cfr. lat. octō, gr. ὀκτώ, ai. aṣṭá, aṣṭáu, aat. ahto, airl. ocht, gall. wyth, fr. uit, air. ocht, toc B oct, aisl. ātta, ags. eahta, asass. aat. ahto. Secondo Mastrelli GG 181, queste voci avrebbero origine dall’ie. *oktōw. Ma non è vero. Questa voce germanica ed eurasiatica è un chiarissimo indice del primitivo modo di contare dell’Homo Sapiens, il quale numerava in base quattro, ossia considerando come elementi di calcolo soltanto le quattro dita, mentre il pollice era considerato un elemento destinato soltanto alla presa ed alla formazione del pugno.

Le varie forme eurasiatiche ahtau, octō, oct, ottu etc. non sono altro che elementi contratti, un arcaico bi-composto accadico costruito con akk. u ‘both, l’uno e l’altro’ + qātu ‘mano, quattro’. Il composto significò in origine ‘quattro e l’altro quattro, l’una e l’altra mano, ambedue le mani’.

AIRUS ἄγγελος, πρεσβεία, ‘nunzio, deputazione’, Bote, Gesandtschaft ‘corriere; legazione’. Base etimologica l’eg. åri ‘to visit’.

AIZ ‘metallo’, aisl. eir, ags. ār, asass. aat. ēr, ted. Erz ‘minerale, metallo’, lat. āes (antico ais) ‘bronzo, rame’, ai. áyaḥ. In gr. invece c’è una parola notevolmente diversa, che non indica genericamente il ‘metallo’ ma specificamente il ‘rame’: χαλκός.

Secondo Mastrelli (Grammatica Gotica 103), le voci comparate con aiz ‘metallo’ avrebbero origine nell’ie. *áyes. Ovviamente sbaglia.

Tornando al gr. χαλκός, gli antichi Romani per il ‘rame’ avevano una voce diversa: āes, basata sul sum. a’aš ‘desiderio, brama, cupidigia, struggimento, libidine’. La voce sumerica s’apparenta strettamente con quella gotica e fornisce la nozione originaria, il primo concetto che i popoli arcaici ebbero del fenomeno della metallurgia. Per loro la metallurgia fu un evento rivoluzionario, al limite del miracoloso.

Si notino i due radicali latini relativi al ‘rame’: nominat. āes, genit. āeris. Abbiamo visto che il nominativo ha base nel sum. a’aš; le altre forme della declinazione (āeris ecc.) hanno base nell’akk. eriu(m), werium, (w)erû(m) ‘rame’ < sum. erida ‘rame’.

ALAN got. wachsen ted. ‘crescere’; ἐντρεφόμενος ‘allevato, fatto crescere’. Cfr. lat. ālere ‘far crescere, nutrire, allevare’. «Vengono richiamati airl. no-t-ail ‘qui te nourrit’; aisl. ala; aingl. alan ‘nutrire’, aingl. eald, aat. alt ‘vecchio’» (OCE II 337).

Osservo che la base più arcaica di questi radicali germanici è l’eg. ara ‘to bring, to be high’, arar ‘high, exalted’, åār ‘to ascend’, ‘cypress tree’, år ‘more than’, ‘to create, beget; creare, generare’, Åri ‘the creative God’. Cfr. infine Ararat dall’eg. arar ‘high, exalted’ + åaṭ-t ‘ground, place, region’. Questo composto significò ‘Regione alta’ ed indicò in origine l’intera catena del Caucaso. Serve notare che la lingua egizia rotacizza la /l/.

BEIST ζύμη ‘lievito, fermento’ (K I 5,7: ‘un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta’); ted. Sauerteig ‘pasta madre’. Ai fini dell’etimo questo lemma si cfr. con l’it. pasta ‘farina impastata per fare il pane; i derivati di tale impasto (spaghetti ecc.); dolce avente un’alta componente di farina’. Base etimologica l’eg. pås-t ‘cake, loaf’.

BOKA Buchstabe ‘lettera, carattere’, ted. Buch, ingl. book. Base etimologica l’eg. beḥ ‘to cut, hack, carve, hew stone; tagliare, intagliare, incidere pietra’. Il libro, the book, in origine non fu altro che l’attività del lapicida o dello scriba egizio, che lasciava ai posteri le memorie del proprio popolo.

BOKAREIS γραμματεύς ‘scriba’, ted. Schriftgelehrter, Schreiber ‘id.’. Per l’etimo vai a boka, dall’eg. beḥ ‘to cut, hack, carve, hew stone’ + re ‘man’. In origine significò ‘l’uomo che scrive, che incide’.

BROϸRAHANS ἀδελφοί, Brüder ‘fratelli’ (Mc 12,20). Per l’etimo vai a broϸar. Ricordo che il gr. ἀδελφοί significa letteralmente ‘nati dalla stessa vulva’ (ἀ- ‘con, insieme’ + δελφύς ’vulva, matrice’). Lo stesso vale per la semantica del gotico –han-s il quale ha l’identica base fonetica di sd. cun– in cunnus ‘vulva’. L’arcaica parola sarda, che poi passò al lat. cunnus, deriva dal sum. ku ‘hole, buco’ + nu ‘creator’, ‘offspring, prole, discendenza’. L’agglutinazione dei due monemi di cunnu significò ‘foro della discendenza’, o ‘foro della creazione’.

DAURO got. ‘porta’, afris. dure, asass. dura, aat. tura, lat. foris, gr. θύρᾱ ‘porta’, ingl. door, ted. Tür. Secondo Mastrelli GG 96, queste voci avrebbero origine dall’ie. *dhwrā. Ovviamente è falso.

Ma intanto osserva Dόuro nome di un fiume del Portogallo sul cui estuario è stata edificata la città di Porto (il ‘porto’ per antonomasia). In origine Dόuro significò ‘porta’ (cfr. gr. θύρᾱ), un modo per dire ‘bocca d’estuario’. Lo stesso nome in origine dovette avere il fiume che sfocia accanto a Porto Torres (Sardegna). Vi si edificò Turris Libysonis. Turris (cfr. ted. Tür ‘porta’) è paronomasia latineggiante, poiché i ri-fondatori romani di Porto Torres la interpretarono erroneamente come ‘torre’, mentre la radice Tur– non s’addice ad alcuna ‘torre’ essendo riferita all’estuario in quanto ‘rifugio’ (cfr. akk. tūrum ‘refuge’ ma anche ‘porta’). Si riferiva, per antonomasia, al ‘rifugio’, ossia alla ‘protezione’ che il porto (la ‘porta’) di Turris offriva per essere situato all’estuario del riu Mannu, il quale proteggeva le navi dalle tempeste di maestrale. Lo stesso “rifugio” della Sardegna offriva l’estuario portoghese, anch’esso rivolto alle tempeste atlantiche provenienti da occidente. Quel concetto dei Lusitani interessò pure i Romani, che costruirono il porto di Ostia (‘la porta’) alla foce del Tevere, di fronte alle tempeste di Maestrale.

DAUϸEINS νέκρωσις ‘stato di morte’, absterben ‘morire, perire’. Cfr. ingl. death ‘morte’. Base etimologica l’eg. ṭuai-t ‘death, morte, distruzione’, ṭuaut ‘abysses, empty places; abissi, luoghi vuoti’, Ṭua-t ‘a very ancient name for the land of the dead’.

FAIHUϸRAIHNA got. = gr. μαμωνᾷ ‘a mamona, di mamona’. Mamòna è voce aramaica, personificazione del denaro, della ricerca del guadagno. Base etimologica di mamòna è il sum. ma ‘to burn, bruciare’ + munu ‘scorching, rovente’: evidentemente si richiamò fin dalle origini uno spirito maligno del’Inferi, rovente e fiammeggiante. Si noti che i vangeli gotici presentano una sola volta il lemma μαμμωνᾶς (M 6,24), mentre l’originale gotico faihuϸraihna appare tre volte (L 16,9.11.13). Ciò indica chiaramente che i Goti avevano un proprio originale concetto per tale figura, e lo preferirono persino nel tradurre dalla lingua greca. Ai fini dell’etimo faihuϸraihna va scomposto in faihu-ϸraihna. Per faihu– vedi faihw ‘beni mobili, denaro’, aat. fihu ‘gregge’, lat. pecū; sd. pécus (Bitti, Nùoro, Olzai); pégus log. e camp. ‘capo di bestiame’. Cfr. lat. pecus, pecoris ‘bestiame, mandria, gregge’. Base etimologica è l’akk. peḫûm ‘sealed, closed; stupid’. Questa idea accadica si attaglia perfettamente al bestiame domito, che si lascia facilmente rinchiudere nella stalla.

Per –ϸraihna vedi l’eg. tår (leggi ter) ‘to destroy’, ter, terri ‘to destroy’. Il composto faihuϸraihna significò ‘estinzione dei beni materiali’.

FAURAFILLI ἀκροβυστία ‘prepuzio’, Vorhaut (K 7,19). Ai fini dell’etimo, per faura– vai a faur; il membro –filli ha base nel sum. pil ‘maschio, virile’. Faurafilli fu sin dall’origine una parola castigata, e significò la ‘parte anteriore della virilità’.

FRA-HINϸAN αἰχμαλωτίζειν, gefangen nehmen ‘arrestare’ (R 7,23: captivantem me in lege peccati ‘mi rende schiavo della legge del peccato’). Cfr. ingl. hinder ‘impedire, ostacolare’, ags. hindrian, aat. hintarōn, afris. hinderia, ol. hinderen; norr. hindra, dan. hindre, sved. hindra. AEIT lega i radicali relativi a questa voce germanica con quelli esaminati per la preposizione hindar (‘dietro’), proponendoli come reciprocamente geminati, quindi appartenenti ad identico campo fono-semantico. Ma la procedura di AEIT è inaccettabile poiché la semantica tra i due aggregati vocali non converge affatto ma anzi diverge senza scampo. A disdoro dell’interpretazione dell’AEIT, noto che tra hindar e –hinϸan è stato il caso, nient’altro che il caso, ad aver tenuto vicine le pronunce, non così contigue però da ottenebrare gli iniziali campi fono-semantici (che sono: da una parte kindar, dall’altra kunzi).

Pertanto il radicale hinϸ– di fra-hinϸan non è altro che una forma apofonica del radicale ags. hund– ‘to chase, cacciare, prendere in trappola’. Quest’ultimo ha base nel sum. kunzi ‘fish’, kunzida ‘weir, sbarramento’. È evidente che in origine questa voce gotica alludeva in generale alla ‘pesca’ (kunzi) nonché alla tecnica della pesca fluviale e lagunare (kunzida), da cui allargò il campo semantico con allusione alla caccia degli altri animali e alla cattura dei nemici. Peraltro il sum. kunzida fu prolifico nell’antichità, e diede pure luogo al sd. kunzatu, cungiatu, indicante il ‘muro a secco o la siepe spinosa che circonda e racchiude una proprietà terriera al fine di preservarla dall’invasione del bestiame altrui’.

HALBA ted. Hälfte, Seite ‘metà; fianco, lato’: in ϸizai -ai; ἐν τούτῳ τῷ μέρει, in dieser Hinsicht, in diesem Punkte (k 3,10: quod claruit in hac parte). Cfr. ags. healf, aat. halp, asass. afris. half, ol. half; norr. halfr, dan. sved. halv. Mastrelli GG pone a capo di queste forme «l’agg. germ. comune HALBAZ», ignorando che, andando a ritroso verso l’arcaicità, si trovano soltanto monosillabi, mai bisillabi. Altre soluzioni inaccettabili sono quelle di AEIT 173 (vedi). Invero, di halba s’ignorò l’origine. Base etimologica è il sum. ḫal ‘to divide, open’ + ba ‘half’. Quindi ai primordi il composto ḫal-ba significò ‘aprire metà per metà’. Si può notare che soltanto il mondo germanico conservò il concetto iniziale generato dai Sumeri, mentre gli altri popoli durante la loro diaspora innovarono il concetto.

HAKULS got. = φελόνης Mantel: hakul ϸanei (t 4,13: Paenulam, quam reliqui Troade apud Carpum, veniens affer tecum ‘Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade’). Ai fini dell’etimo il got. hakul è da cfr. con it. giacca ‘parte superiore dell’abbigliamento’, registrato jaque in afr. (1364) col derivato jaquette (1375). DELI nel tentativo di restituire l’etimo di jaque crea un pasticcio poco decoroso (vedi).

Invero, la base arcaica del termine gotico è il sum. ĝi ‘night’ + aka ‘fleece, vello’. In origine il composto ĝi-aka significò ‘mantello da notte’. Tale concetto originario rimase identico soltanto tra il popolo gotico, in quello italico, in quello celtico.

HALS got. = τράχηλος, Hals ‘collo, gola’ (L 15,20: et accurrens cecidit super collum eius et osculatus est eum).

Ai fini dell’etimo, le parole gotica e tedesca vanno cfr. con l’it. collo ‘arto che unisce la testa al torace’, per la cui origine DELI propone soluzioni svianti e senza senso, del tipo che «l’it. collo deriva dal lat. collum ‘pacco, merce imballata’ perché tale ingombro viene portato sul collo». Quest’incredibile asserzione non tiene conto che l’uomo ha sempre avuto varie opzioni per trasportare un peso, e peraltro i pesi notevoli non hanno mai gravato sul collo (un membro corporeo assai delicato) ma semmai sulla spalla. A parte ciò, DELI rinuncia a cercare con procedura onesta gli etimi di collo e collum, e pertanto ignora che l’it. collo, got. hals, ted. Hals hanno base nel sum. kul ‘to bring together, collect’. In questo caso, il collo in quanto ‘organo del corpo umano’ si distingue dal collo in quanto ‘balla trasportabile’ perché collega due parti del corpo, il torace e la testa (it brings together, collects). A sua volta, la ‘balla trasportabile’ (collum) ha una base solo foneticamente identica: è il sum. kul ‘to be heavy’, ‘to gather up, glean; raccogliere, racimolare’.

HILMS helm ted., elmo it. ‘armatura difensiva del capo, normalmente in ferro’, περικεφαλαία; lat. mediev. del Friuli dell’867 helmus. Mastrelli GG 56 lo parifica al port. elmo, suggerendo anche per questo tramite l’origine gotica della parola italiana e tedesca. Invero, la base etimologica è l’eg. her ‘a metal pot, una pentola di metallo’ + mu-t ‘vase, pot, vessel’. Ma fin dal medioevo si uso anche la parola elmetto, che non significa ‘piccolo elmo’ ma parimenti deriva dall’egizio: her ‘a metal pot’ + meṭ ‘to strike, colpire’. Il composto significò ‘casco da combattimento’.

HIMINS got. = gr. οὐρανός, Himmel ‘Cielo’ (M 5,16: qui in caelis est). Base etimologica l’eg. ḥemu ‘rudder of heaven, timone del cielo’, sum. ḫum ‘to move, be in motion’; it. camm-inare ‘spostarsi a piedi’; fr. chemin-ement ‘camminamento’ (sec. XIII). La base sum. ḫum ‘to move’ s’agglutinò fin dalle origini arcaiche col got. mēna ‘mese’ e divenne *ḫum-me-n, che in seguito subì la metafonesi > hi-(himins).

Nel Mediterraneo e in Europa la denominazione del mese è attecchita un po’ dovunque e fu ereditata da altri popoli: toc. A mañ, B meñe; lit. ménů (OCE II 472); ingl. month. I prototipi classici sono lat. mēnsis ‘mese’, gr. μήν ‘mese’, μήνη ‘luna’; ma un’altra base arcaica per le altre parlate italiche e per il sardo è mese, mési < sum. me ‘Essenza, divina proprietà motrice dell’attività cosmica; Being, divine properties enabling cosmic activity’ + šid ‘to count, contare’. Il composto mešid fin dal Primo Paleolitico significò ‘computo dell’Essenza cosmica’ (ossia mese). L’Essenza cosmica, il Motore dell’Universo in origine fu la Dea Luna, che impersonificò la Dea Mater Universalis. Per mese vedi anche l’eg. mes ‘to walk’; mentre per l’esito lat. mens, mensis vedi eg. Menāt ‘the Nurse-goddess Isis’, men ‘to bring’, menå ‘to herd cattle’, menmen ‘to move towards’; anche menu ‘firm, permanent, stable’, men ‘to be permanent, stable, fixed’, men ‘a name of the sky’.

HINDAR preposizione got. hinter, jenseits ‘dietro, oltre’: ὀπίσω (Mc 8,33: vade retro me satana); εἰς τὀ πέραν τῆς λίμνης ‘al di là dello stagno’: hindar ϸana marisaiw (L 8,22: Trasfretemus trans stagnum). Cfr. ingl. hinder ‘posteriore’, ags. hinder, aat. hintar, btm. hinder, afris. hindera, norr. hindri. AEIT 183 scrive che è «formato con un suff. in -TERO- dell’avv. germ. che appare in tedesco hin (cfr. la voce hence). La variante aggettivale ted. (già aat. hintaro) ha dato in seguito luogo alla sostantivizzazione Hinterer m. ‘deretano’ (nella lingua parlata nella forma Hintern). Il ted. mod. conosce inoltre l’avv. hinten ‘dietro’ < aat. hintana, cfr. con got. hindana e ags. hindan; quest’ultimo è a sua volta conservato nel cp. behind avv. e prep. ‘dietro’ (ags. bihindan), di cui prob. l’agg. hind ‘posteriore’ è una retroformazione (sec. XIII)». Dopo la lunga disquisizione comparativa, AEIT, al solito, non fornisce alcuna etimologia.

Invero, la base di hindar è il sum. kindar ‘hole, crevice; buco, crepa, fessura’. Per antonomasia, in origine indicò il ‘(luogo della) ‘fessura col buco’, ossia il culo. Quest’ultimo a sua volta è voce latina, culus, dal sum. ku ‘buco’ + lub ‘to clean, wash’: in origine indicò il ‘foro dell’evacuazione, della pulizia corporale’. Quindi AEIT sbaglia a suddividere il got. hindar in hin-TERO-, immaginando un “suffisso” bi-trisillabo del quale non riesce a dare alcuna spiegazione.

HIUFAN got. = ted. wehklagen, Klagelieder singen ‘lamentarsi, cantare lamenti (funebri)’: ἐθρενήσαμεν ὑμῖν: ufum (M 11,17: lamentavimus et non planxistis). Base etimologica è l’eg. ḥau, ḫaiu ‘men who recite the praises of the dead at funerals, criers, mourners’ + ba ‘soul’. Queste persone erano le prefiche (o il loro corrispondente maschile), che cantavano le lodi per l’anima del morto.

HUGJAN got. = ted. denken, meinen, δοκεῖν (J 11,13: illi autem putaverunt…); νομίζειν (M 5,17: nolite putare ‘non pensiate che…’); φρονεῖν (G 5,10: quod nihil aliud sapietis ‘che non penserete diversamente’). Cfr. lat. cogitō ‘penso’, vb. frequentativo in –to, da arcaico *co-ḥi-tō. Base etimologica l’eg. hu ‘with’ + ḥi ‘to discover, inspect; watcher, overseer, inspector, spy’.

HUNϸS* got. Fang, Beute ‘cattura, preda’ αἰχμαλωσίαν (E 4,8: captivitatem). Cfr. ingl. hunt ‘caccia’, hunter ‘cacciatore’. Base etimologica il sum. kundar ‘animal’.

IBAI got. (iba L 17,9 G 6,1). 1. Fragepartikel, particella di domanda, num, doch nicht? ‘no?, non è vero?’ Antwort verneinend, risposta negativa; a) con indicativo nelle domande dirette: μή (M 9,15: numquid possunt filii sponsi lugere, quamdiu cum illis est sponsus? ‘possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro?’); μήτι (M 7,16: numquid colligunt de spinis uvas aut de tribulis ficus? ‘si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi?’). 2) nelle domande indirette con ottativo nach Verben des Fürchens, Sorgens, Verhütens ‘dopo i verbi temere, preoccupare, prevenire’: μήπως (G 4,11: timeo vos, ne forte sine causa laboraverim in vobis ‘temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo’).

È pure particella di divieto con ottativo: daẞ nicht etwa ‘non quello’: μή (k 12,21: ne iterum cum venero, humiliet me Deus apud vos ‘temo che alla mia venuta Dio non mi umilii davanti a voi’). Base etimologica l’eg. åab (leggi: iab) ‘to wish for, desire’.

Quest’arcaica forma peculiare, che s’accorda soltanto tra egizio e gotico, ha un corrispettivo soltanto semantico nell’it. se, sassar. log. camp. si, avverbio condizionale ‘se, nel caso che, nell’eventualità che’: indica esitazione, incertezza, dubbio, condizione. Vedi anche aprvz. si ‘idem’. Della voce mediterranea si, se s’ignorò l’origine. Ha base nell’akk. Sê’, Sîn ‘Dea Luna’. Nel lontano passato entrava in ogni e qualsiasi invocazione rivolta alla Dea Luna. Si deve assumere che l’onnipresente Se, Si (valore desiderativo) fosse a capo di quasi ogni frase, così come ancora oggi fanno gli Arabi con Insciallah (dove l’arcaico Allah agli albori era pur sempre la Dea Luna del deserto). Nell’it. mediev. il se era usatissimo nel senso di ‘possa avvenire che, voglia il Cielo che…’ (es. Inf. 16-64: Se lungamente l’anima conduca le membra tue; Inf. 10-82: Se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi…). Ancora oggi è usato in Sardegna: si ti fales unu ráju ‘che ti cada un fulmine!’, dove in quel si l’invocazione alla Dea Luna è ancora evidente.

INKILϸO got. = ted. schwanger ‘gravida, incinta’: -o warϸ, συνέλαβεν empfing (L 1,24: concepit Elisabeth uxor eius).

Questo termine gotico è quasi identico, tranne la –l-, all’it. incinta. Dell’aggettivo incinta s’ignorò l’origine. DELI non sa indicarne la fonte, e ricorda l’imbarazzante frase dantesca Alma sdegnosa, – benedetta colei che in te s’incinse: la quale sembra cozzare contro l’etimologia medievale, già azzardata da Isidoro di Siviglia, id est sine cinctu; quia praecingi fortiter uterus non permittit. Il Sassetti scriveva da Madrid nel 1581 che questa voce è castigliana antica, le cui attestazioni risalgono almeno al XIII secolo (DELI).

Comunque vada, la ricerca etimologica del termine gotico fa affiorare il sum. ḫili ‘luxuriant, lussureggiante, improntata a una esuberante abbondanza, ricchezza’ + du ‘to heap up, accumulare’: quindi in-kil-ϸo ha base nel sum. in-ḫil-du e significò ‘che accumula esuberante abbondanza’. L’agg. it. incinta è una semplice variante popolare del primitivo termine gotico, ed ambedue sono gli unici sopravvissuti all’arcaica formulazione ideata dai Sumeri.

IUMJO got. = gr. ὄχλος, Haufe ‘folla’ (M 8,1: turba). Ai fini dell’etimo v. sum. umia ‘people, humanity’. Si può apprezzare l’originalità del vocabolo gotico, condivisa soltanto con la sua base remota. Il lemma va pure cfr. col lat. summa ‘somma, il totale, l’insieme di più elementi’, calcolato come femminile di summus ‘sommo, che sta al disopra di tutti’, il quale però discende dal sum. umuš ‘exalted, supreme, outstanding’.

JAIN-AR got. Ruhe-adverb, ἐκεῖ an jenen Ort, dort ‘in quel posto, lì’ (M 5,23: et ibi ‘e proprio lì’). Per l’etimo vedi jains, agg. pron., nur stark flektion, alleinstehend und bei Sust., ἐκεῖνος jener ‘quello’. Base etimologica l’eg. ån ‘in, to, for, because, by’.

Questo lemma acquisisce la nozione di “stabilità, fissità” mercé il suff. –ar, il quale ha base etimologica nell’eg. ār ‘to come or go up to someone or something, or ascend’, ‘stairs, staircase’ (donde ricaviamo il concetto del salire sopra un punto fisso). Peraltro la lingua egizia conserva anche år preposizione ‘to, towards, from’.

JAIN-D got. Richtungs-Adv., dorthin ‘lì, là’: gaggis jaind, ὑπάγεις ἐκεῖ (J 11,8: et iterum vadis illuc). Base etimologica l’eg. åni ‘to bring, convey’ + ‘to give, to set, to place’, ṭa ‘to flee, to escape, to pass away’.

KAUREI got. = βάρος Schwere, Fülle ‘pesantezza, pienezza’: kaurein waurkjada unsis: βάρος κατεργάζεται ἡμίν (k 4,17: pondus operatur in nobis ‘quantità smisurata’). Il termine gotico è da cfr. col vb. iterativo it. caricare ‘porre qualcosa sopra un sostegno o un mezzo di trasporto’, ‘gravare di un peso’, che secondo DELI è forma di un lat. parlato derivante da lat. cărrus ‘carro’ (invero, la base di cărrus è il sum. ḫara ‘container’). Invece la base etimologica di got. kaurei (leggi kori) e dell’it. caricare è il sum. gur ‘unità di peso, a measure of dry capacity’, gurgur ‘silos’ (plurale). Si osservi l’originalità della voce gotica, condivisa soltanto dall’italiano e dall’arcaica fonte sumerica.

KILϸEI got. = γαστήρ, Mutterleib (L 1,31: concipies in utero). Base etimologica il sum. ḫili ‘luxuriant, sex appeal, to have pleasure’ + dim ‘to create, engender’. In origine il composto ḫil-dim significò ‘generatore del piacere, del sex-appeal’, riferito evidentemente alla vagina e latamente all’utero.

KINDINS got. = ἡγεμών, Statthalter (M 27,11: Iesus autem stetit ante praesidem). Base etimologica il sum. kindu ‘path, strada, sentiero’. Quindi per i Goti il ‘capo, comandante in capo’ era ‘colui che guidava’, ‘colui che apriva la strada’. Si noti l’originalità arcaica del termine gotico.

KINNUS got. = gr. σιαγών, Wange ‘guancia’: taihswon ϸeina -u (M 5,39: maxilla). Cfr. lat. gena, genae ‘gota’, gall. gen ‘gota, mento’, ted. Kinn ‘mento’, ingl. chin ‘mento, mascella’, gr. γένυς ‘mascella inferiore’, γνάθος ‘ganascia, mascella’, lett. žuôds ‘mento’, lit. žándas ‘mascella’ (OCE II 417). Base etimologica il sum. gina ‘clamp, morsetto’. Il concetto gotico è condiviso in area greca, italica, celtica, germanica.

KINTUS got. = gr. κοδράντης, Heller: ϸana minnistan -u (M 5,26: donec reddas novissimum quadrantem ‘fino a che tu non abbia pagato fino all’ultimo centesimo’). Il denominale gotico si cfr. col lat. cĕntum ‘cento’. Base etimologica l’eg. khentu ‘preeminence, exalted condition’; khenti ‘to advance, bring forward, promote a man to high rank’.

LAMB got. ‘agnello’, Lamm, Schaf, ἄρην (L 10,3: mitto vos sicut agnos inter lupos); πρόβατον (M 7,15: veniunt ad vos in vestimentis ovium). Cfr. ingl. lamb, ags. lamb, pl. lambru, aat. lamb, pl. lembir, asass. afris. lamb, ol. lam; norr. lamb, dan. lam, sved. lamm. Base etimologica il sum. lam ‘sapling, to flourish; alberello, fiorire’ + bu ‘perfect’. Il composto in origine significò ‘alberello perfetto’ (ossia ‘in crescita’).

LAUDI got. Gestalt: μορφωθῇ (G 4,19: donec formetur Christus in vobis). Base etimologica il sum. lud ‘tableware, stoviglie’ + du ‘suitable, fitting’, ‘to build, make, do’. Il composto lud-du ‘stoviglia, utensile creato in forma adatta’ fornisce l’idea genuina del processo mentale originario che portò l’uomo a creare i primi contenitori fittili utili sia a conservare sia a cuocere i cibi. Questa voce gotica è veramente singolare nel rapportarsi in esclusiva alla sua base arcaica.

LAUFS got. Laub, Blatt φύλλα Blätter (Mc 11,13: ficum habentem folia). Cfr. ingl. leaf ‘foglia’, ags. lēaf, aat. loup, asass. lōf, afris. lāf, ol. loof; norr. lauf, dan. løv, sved. löv. Base etimologica il sum. la ‘to hang, suspend, show, display’ + bu ‘to flit, svolazzare’. In origine significò ‘le sospese svolazzanti’. Si noti che il mondo germanico condivide questa voce soltanto con la sua base sumerica.

LUFTU got. ἀήρ, Luft (E 2,2: aer ‘potenze dell’aria’). Base etimologica il sum. lu ‘abundant’ + bu ‘svolazzare’ + tu ‘incantation’. Cfr. eg. tu, tua ‘air, wind, breath’, thau ‘wind, air, respiration, breath’. Il tricomposto sum. lu-bu-tu in origine significò ‘incantesimo immenso che svolazza’: questa parola è condivisa soltanto tra egizio-sumero-gotico-tedesco.

MAGAϸS got. παρθένος Jungfrau, unberührt (L 1,27: ad virginem desponsatam viro). Base etimologica il sum. maḫ ‘cow’, ‘to be great’ + tab ‘to burn’, tabus ‘companion’; tag ‘to touch, take hold of, to bind’; taḫab ‘to ooze, drip; gocciolare, trasudare’.

Il peculiare genius linguae gotico si conferma spesso tramite vocaboli originali come questo, il quale va ad esprimere un concetto che ciascuna delle lingue classiche forgiò in modo autonomo, distinto da quello similare di altre lingue. Il lat. uirgō, uĭrginis ‘donna non ancora amata dall’uomo’ ha base nel sum. ir ‘(uomo) forte’ + gin, gim ‘con’ (accompagnamento). Il composto ir-gin in origine significò ‘compagna del potente’, ossia ‘(donna) che può accoppiarsi con uno che ha raggiunto la potentia coeundi’. Il gr. πάρθενος, παρθένος ‘vergine’ (‘donna non conosciuta da uomo’) ha base nel sum. par ‘canale, condotto’ + te ‘membrana, imene’, te ‘perforare’ + nu ‘no, non, senza’: partenu significò ‘(donna) col condotto dell’imene non ancora perforato’.

A sua volta il concetto propriamente gotico può definirsi con più opzioni sumeriche, una più originale dell’altra: talché il sintagma maḫ-tab, divenuto magaϸs, si traduce come ‘(donna) adulta in calore’, oppure ‘(donna) da accoppiare’, oppure ‘donna cui unirsi’, oppure ‘(donna) in età mestruale’.

MAILE. A riguardo delle peculiari originalità della lingua gotica propongo anche il got. maile (leggi mele), gr. ῥυτίς, ted. Runzel (E 5,27: lat. ruga). Si osservino quattro differenze in quattro lingue. Base etimologica della voce gotica è l’eg. mer ‘to bind up, tie together’, ma specialmente mer-t ‘lane in a town’ (ricordo che in egizio la /r/ si sovrappone alla /l/ che invece nelle altre lingue citate rimane distinta). Si può notare la freschezza e l’icasticità dell’immagine offerta da maile, che presenta le rughe facciali come una serie di viuzze strette e buie, immagine accattata direttamente dalla lingua egizia.

Pur mutando fono-semantema, la stessa freschezza primitiva e lo stesso concetto sta nel gr. ῥυτίς ‘Runzel’, che confrontiamo col fr. route ‘strada, via’, e con it. rotta ‘traccia direttiva di nave o d’aereoplano verso la meta’, avente però base nel sum. rub ‘to go’, ‘sail upstream’ + ti ‘arrow’: rub-ti in origine significò ‘direzione della freccia, avanzamento della f.’ poi, metaforicamente, ‘direttrice di marcia’.

Lo stesso avviene nel lat. ruga ‘grinza della pelle’, che però ha base nel sum. rub-gag ‘direzione della punta di freccia’ (concetto assai primitivo). E se cogliamo l’apofonia, aggiungiamo per affinità l’etimo di it. riga ‘linea dritta tracciata su una superficie’, che DELI fa discendere dal longobardo e che comunque ha base etimologica nel sum. ri ‘to let go, walk along’ + gag ‘arrowhead’, dove il composto ri-gag indicò in origine la ‘direzione della punta di freccia’.

MATJAN got. essen. Propongo anche questo verbo, da cfr. con ingl. meat ‘carne’, ‘pasto’, ags. mete, aat. maz, asass. mat, afris. mete, norr. matr, dan. mad, sved. mat ‘cibo’. Non condivido i fuorvianti arzigogoli di AEIT mentre tenta di convincerci del proprio etimo. Questo ha base nell’eg. ma ‘to slay’, maā ‘to kill, slay’ + t ‘bread, loaf, cake’. Il composto maā-t in origine significò ‘smembrare il cibo’ (nel senso di mangiarlo, divorarlo). Si può notare il concetto del tutto primitivo, un’arcaicità risalente a centinaia di migliaia di anni, quando nemmeno si riusciva ad usare il fuoco.

MAWI. Le peculiarità creative della parlata gotica sono innumerevoli, e pressoché tutte hanno una personalità fresca e primigenia, come mawi ‘bambina, fanciulla’. Questo è un vocativo (L 8,54: puella, surge). Ai fini dell’etimo cfr. eg. måui ‘he-cat, gatto’. Considerato che i gatti per gli Egizi erano sacri, e che l’episodio evangelico riguarda la risurrezione di una bambina, la quale fu sollecitata da Gesù affinché si levasse, sembra persino ovvio che Gesù le dicesse: ‘Gattina, alzati’, anziché (prendo dal greco) ἡ παῖς, ἔγειρε ‘bambina, svegliati’.

SELS agg. got. gut, gΰtig ἀγαθός (L 8,15: in corde bono). Quest’aggettivo, assieme al nome selei ‘bontà’, ha base etimologica nel sum. sila ‘litro’ (era un’unità monetaria, una misura di capacità dove si metteva l’orzo, il quale fu la prima moneta della storia umana). In varie lingue il concetto di “buono” rientra spesso nello stesso campo semantico dei pesi e delle misure, per ovvi motivi.

SPARWA got. στρουθίον (M 10,29: duo passeres). Cfr. ingl. sparrow ‘passero’, mingl. sparwe, sparewe, sparowe < ags. spearwa; norr. spörr, dan. spurv, sved. sparv; aat. sparo > amt. spar > ted. Sperling (diminutivo).

Base etimologica il sum. par ‘small canal, irrigation ditch’ + u ‘shepherd’. Il composto par-u in origine significò ‘pastore dei canali’, nome poetico attribuito per il ruolo calmierante esercitato da tale uccello contro le popolazioni d’insetti che abitano nei luoghi umidi: tutto sommato, è la stessa azione esercitata dalle ròndini < lat. hirundō, la cui base etimologica è il sum. ḫirim ‘ditch, fosso’ + dur ‘bird’: ḫirimdur ‘uccello dei fossi’ (ossia frequentatore dei canali idrici, che sono ricchi d’insetti e zanzare). In s-par-w-a la particella s-, anch’essa di origine egizia, ha significato esaltativo.

SPAURDS Got. στάδιον Rennbahn ‘pista di gara’ (K 9,24: qui in stadio currunt). Cfr. ingl. sport ‘gara, divertimento’. Base etimologica di spaurds è l’eg. per-t ‘battlefield’, ‘vigour, strength, attack’, perti ‘mighty one, might, strength, a professional soldier’ (v. anche perå, peri ‘he who comes forth, he who appears, he who attacks, he who is prominent’’, peri ‘fighting man, soldier, bold warrior’). La particella s-, di origine egizia, dona a per-t, perti un significato esaltativo.

STAMMS Got. adj. μογιλάλος lallend, stammelnd: -ana (Mc 7,32: et adducunt ei surdum et mutum). Base etimologica l’eg. tami ‘to be silent’. La particella s-, di origine egizia, ha significato rafforzativo: vedi skūra.

TUGGO got. γλῶσσα Zunge. Cfr. ingl. tongue, ags. tunge, aat. zunga, asass. tunga, afris. tungo, ol. tong; norr. tunga, dan. tunge, sved. tunga (AEIT). Base etimologica l’eg. ṭa ānkh ‘to keep alive’. Possiamo tradurre il significato primordiale del lemma come ‘colei che tiene vivi’, ‘quella che esprime la vita’: è difficile trovare un concetto più pertinente e più primitivo.

TUNDNAN brennen: οὐκ ἐγὼ πυροῦμαι: ik ni –nau (k 11,29: et ego non uror? ‘che io non ne frema?’). Cfr. lat. taeda ‘torcia, fiaccola’, sd. s-tudái ‘spegnere’, gr. δαΐς, accus. δαΐδα ‘fiaccola’, akk. ditallu, didallum ‘fiamma’, sum. dal ‘fiamma’, dalla ‘splendente’ (OCE II 584).

ϸANK got. χάρις (L 17,9: gratiam habet servo). Cfr. thanks ingl. ‘ringraziamento’, ted. Dank, ags. ϸanc, aat. danc, asass. afris. thank, norr. ϸökk, dan. tak, sved. tack. Vedi anche i verbi: ags. ϸancian, aat. dankōn, asass. thankon, ol. danken, norr. ϸakka, dan. takke, sved. tacka. Secondo AEIT 295 queste forme germaniche derivano da un vb. germ. *ϸANK- (cfr. ingl. think) con evoluzione di significato dal “pensare” all’essere “gentili, dolci”. Ma AEIT non coglie affatto il centro del problema.

Invero la base etimologica è l’eg. , ṭa ‘to give’ + ānkhu ‘the living’ per antonomasia (i.e. ‘the beatified in heaven’, epiteto rivolto ad Iside). Il composto ṭ-ānkhu fin dalle origini significò ‘render grazie, dare auguri di salute’.

ϸRUTSFILL Na λέπρα Aussatz (M 8,3: et confestim mundata est lepra eius). Base etimologica il sum. duru ‘to be wet’ + uzu ‘flesh’ + pel ‘to defile, deturpare’. Il composto significò ‘carne umida e deturpata’ (è tipico della lebbra).

ϸUTHAURN Na σάλπιγξ Trompete: D. (K 15,52: novissima tuba). Ai fini dell’etimo il lemma va scomposto in ϸut-haurn. Il primo membro ha base nel sum. dud ‘combat, strife’. Per il secondo membro vai a haurn ‘corno’. È evidente che i Goti in questo caso intendevano una ‘tuba da combattimento’, ossia quella che lanciava i diversi segnali di movimento durante la pugna.

UHTWO got. Fn Morgendämmerung ‘crepuscolo del mattino, alba’: vor Tagesanbruch ‘allo spuntar del giorno’, πρωΐ ἔννυχον λίαν früh morgens im Dunkeln (Mc 1,35: Et diluculo valde surgens ‘ed alzatosi di mattina prestissimo, quand’era ancora buio’).

Base etimologica l’eg. akhā ‘to enter, go’; ākh ‘to raise up’ + ṭua ‘the morning’, ‘to praise, adore, honour’. Il got. uhtwo in origine significò ‘il levar del giorno’. Guarda caso, con l’eg. ṭua s’indicava pure la ‘preghiera’, ‘l’adorazione’ (evidentemente era la prima preghiera del giorno, quella che gli antichi facevano rivolgendosi al sole nascente (“saluto al sole”).

ULBANDUS got. κάμηλος Kamel: G. -aus (Mc 1,6: vestitus pilis cameli). Base etimologica il sum. ul ‘greatly, very much’ (cfr. eg. ur ‘idem’ + banda ‘stanchion, to stanchion; supporto, munire di supporto, di montanti, di puntelli’. Il composto ul-banda (eg. ur-bann ‘grande scatola, grande cassa’) fu evidentemente il primo nome euro-mediterraneo ricevuto dal cammello, una bestia portentosa che si dice importata dall’Asia centrale molto prima dei cavalli. Questo nome antonomastico fu dato al cammello per la sua rara capacità di sopportare e trasportare su grandi distanze dei carichi superiori a quelli del cavallo, del mulo, dell’asino.

ŪT got. Adv. hinaus, heraus; folgt auf das Verbum (auẞer M 9,32 L 14,35): ἔξω, hiri ut: δεῦρο ἔξω (J 11,43: Lazare, veni foras), attiuha ut: ἄγω ἔξω (J 19,4: adduco vobis eum foras). Base etimologica l’eg. ut ‘to go away’.

WAGGARJA got. Dat.Sing. προσκεφάλειον Kopfkissen (Mc 4,38: super cervical ‘sul cuscino’). Base etimologica l’eg. ua ‘warden, governor; guardiano, governante‘ + ānkh ‘vita, salute’. In origine significò ‘che governa la salute’.

WAGGS* got. παράδεισος Paradies A. (k 12,4: raptus est in Paradisum). Base etimologica l’eg. u ‘serpent’ or ‘serpent-god’, ‘a kind of well or spring in the Great Oasis’ + ānkh ‘life’, ‘life, prosperity, all health’, ‘life and content for ever’, ‘to whom life is given’, ‘everliving’, ‘oath’, ‘plant or wood of life’; ānkhu ‘man’, ‘the living, i.e. the beatified in heaven’. Traduciamo w-aggs (leggi u-ang-s) come ‘giardino della vita eterna’. In subordine possiamo tradurlo come ‘giardino del Dio-serpente’.

WULAN got. unreg.abl.V.4 (207) wallen, sieden ‘sguazzare, ribollire, bollire’: τῷ πνεύματι ζέοντες: ahmin -andans (R 12,11: spiritu ferventes). Cfr. it. bollìre ‘formare bolle, detto del liquido che passa allo stato di vapore’. Si ritrova in Vitruvio (bullīre), che sostituì fervēre (DELI). Ma la base di queste parole è molto arcaica, risale a tempi in cui l’uomo non conosceva nemmeno il fuoco. Esse derivano dal bab. bullu ‘decadimento’, bullûm ‘putrido’; bullûtum ‘stato di decadimento’. Esso s’incrocia con l’altro termine bab. bubu()tu(m) ‘foruncolo, pustola’, sum. buluĝ ‘to grow up, diventar grande’, bun ‘vescica’ + la ‘versare liquido’ (bunla > bulla), col significato di ‘vescica che versa liquido’. Da queste etimologie si capisce che l’innovazione linguistica di Vitruvio è assai seriore rispetto all’osservazione dei vari tipi di vesciche conosciute dall’uomo sulla propria pelle.

WULLAREIS got. Mia γναφεύς Tuchwalker ‘panno più pieno’ N. (Mc 9,3: nix ‘neve’). Il composto significa esattamente ‘pioggia di lana’: è composto da wulla ‘lana’ + rign ‘pioggia’, ted. Regen, ingl. rain, con base etimologica nell’akk. reḫûm ‘versare, scaturire’ (cfr. Rhein, nome tedesco di un grande fiume della Renania).

WULWA got. Fō ἁρπαγμός Raub A. (Ph 2,6: rapina). Base etimologica il sum. ul ‘terror’ + u ‘pitfall, tranello’. In origine il composto significò ‘tranello del terrore’.

L’INVENZIONE DEL “TEMA” VERBALE. I MORFEMI

Possiamo concludere il presente excursus metodologico portando definitivamente il lettore nella specola dell’indagine innovatrice e chiarificatrice al fine d’illuminare una volta per tutte la funzione e l’origine dei “temi” nonché l’origine dei suffissi grammaticali (o morfemi). Di ambedue si è parlato e scritto più che altro a vanvera, e mai sono scaturite sentenze degne di elogio. Anzi, a dirla tutta, i suffissi (nonché i “temi”) rimangono incarcerati entro un insopportabile “mistero” d’origine, e sono diventati armi di “distrazione” di massa in mano a cattedratici incauti. Le accademie brandiscono quel genere di funzioni grammaticali proprio come fossero armi, e lo vedremo. A quegli studiosi è bastato capire quanta benevolenza susciti tra la gente il mistero dei temi e dei suffissi (ostentati dall’alto come angeli partorienti, e in quanto tali venerati dalle masse). Proprio per essere riuscite a far accettare questo “mistero della fede”, le accademie han creduto opportuno gestirsi temi-e-suffissi come cerberi latranti contro i rompiscatole che tentino d’entrare a lacerare i veli del mistero e ridiscutere la dottrina “indoeuropea”, della quale esse, le accademie, sono i sacerdoti tutelari.

Riconosco (e il lettore lo ha capito dai precedenti capitoli) che la linguistica, se male gestita, se male insegnata, può fare danni epistemologici letali, minando ab imo l’intera materia. Danni ingenti sono gia stati inferti. Per tentare il recupero della verità contro i “misteri della fede” è doveroso intervenire con rigore, poiché a nessuno giova avere tra i piedi una scienza ridotta a religione, incolonnata tra i misteri.

I suffissi mediterranei sono diventati insieme mistero, trastullo e arma, quel tanto da conferire alle accademie l’ybris con cui difendono la turris eburnea. Ebbene, dichiaro che la teoria “indo-europea” non crollerà mai, nemmeno con gli argomenti svolti nelle precedenti pagine, se prima – con l’acqua cristallina della ragione – non avremo dissolto il suo piede d’argilla costituito proprio dai “temi” e dai morfemi. Per le accademie i “temi” ed i morfemi “indoeuropei” sono vere e proprie “Colonne d’Ercole” dove sta scritto Nec plus ultra ‘di qui non si passa’. Invece è proprio lì che occorre passare, se vogliamo aprire le porte alla critica pura e restituire alle lingue europee il peso esatto che loro spetta.

Sino a che la ragione rimarrà incarcerata entro la pregiudiziale “ariana” (che tuttora infetta le accademie), i morfemi delle lingue “indoeuropee” saranno forzatamente e fedelmente creduti come “innati”, “primitivi”, “autentici”, come “specialità sortita in area germanica” e poi adottata da tutte le lingue del cluster indo-europeo, fino all’India. I linguisti accreditano i morfemi come brand, trademark del sistema indoeuropeo, modelli originali, tetragoni e immutabili, sortiti da processi partenogenici. Giammai vorranno confrontarli con le lingue più arcaiche della sponda-Sud, al fine di capire che cosa siano veramente, per capire anzitutto cosa siano stati.

Dobbiamo riconoscere e ribadire che i “piedi d’argilla” della costruzione “indoeuropea” sono primamente i morfemi. Ciascun linguista è messo con le spalle al muro e deve accettare la seguente verità: che l’intero sistema morfematico indoeuropeo proviene da arcaiche parole semitiche, o sumeriche, o egizie; parlo di parole, ossia di nomi-aggettivi-verbi, con i quali ogni e qualsiasi desinenza europea, antica e moderna, fu perfezionata nell’arco di millenarie elaborazioni sintattiche. Ma entriamo in medias res.

Anzitutto affrontiamo i “temi”. Chiedete ad un docente universitario di linguistica o ad un professore di liceo classico di definire un “tema” in termini grammaticali. Darà le stringatissime risposte esposte qua appresso, che possiamo trovare, oltre che in Wikipedia, soltanto nelle più corpose ed ariose grammatiche (esempio, in quella annessa al Grande Dizionario della Lingua Italiana).

Anzitutto, i grammatici individuano i “temi” soltanto nel sistema verbale: e già il preferire una sola tra le numerose ripartizioni della grammatica è sospetta. Perché solo i verbi?

Ma rompiamo gli indugi prendendo da Wikipedia: “Si chiama vocale tematica un elemento linguistico composto da una vocale che può trovarsi aggiunta alla radice (di un verbo) per formare il tema. In termini più formali, la vocale tematica è un morfema grammaticale che può realizzarsi sotto forma di vocale oppure sotto forma di un morfo vuoto”.

Il lettore, quale che sia la dote culturale in fatto di grammatiche, capirà che nelle due frasi precedenti nulla sta come dovrebbe, non c’è niente che conduca alla definizione di un concetto: le due frasi precedenti sono un esempio classico di come si possa confezionare “aria fritta”, allineando tante parole per non dire niente. Che significa infatti la vocale tematica è composta da una vocale aggiunta alla radice per formare un tema? Noi cercavamo altro, volevamo sapere cos’è un “tema”, ed aspettiamo risposta!

Cosa significherebbe poi la seconda frase: “la vocale tematica è un morfema grammaticale che può realizzarsi sotto forma di vocale oppure sotto forma di un morfo vuoto”? Per la seconda volta, Wikipedia non dice cosa sia un “tema”, si limita a dire che esso può realizzarsi con una vocale o con un morfo vuoto (“morfo vuoto”, ossia un blank, un morfema espresso “ex silentio”, mediante il suo totale dileguo! Ma qui, oltre che fuorviarci, Wikipedia ci ha menato entro una contraddictio in terminis!).

Invece la Grammatica Italiana annessa al GDLI non ha garbugli di parole fine a se stesse, ma adduce esempi. Pertanto nelle coniugazioni verbali italiane la vocale tematica vien descritta come quella che distingue le singole coniugazioni: quindi in am-à-re, god-è-re, gio-ì-re il primo membro del verbo è la radice (la parte della parola che conserva il significato): il secondo membro è il tema (vocale che distingue una coniugazione dall’altra); il terzo membro è la desinenza (o suffisso) ossia il morfema affisso che determina modi tempi persona del verbo.

GDLI è stato chiaro, vivaddio, e la sua lettura ci aiuta persino a condonare l’allucinante mistificazione di Wikipedia. Da GDLI abbiamo appreso che, amputando da un verbo il primo e il terzo membro (radicale + morfema), ciò che rimane al centro può essere chiamato “tema”. GDLI afferma pure che il “tema” verbale si esprime soltanto con una vocale. Sono due passi avanti, ma non esaustivi.

Ora sappiamo che cosa significhi “tema”, almeno per GDLI, almeno per i professori italiani; ma sia chiaro: tale significato rassicura soltanto i professori che si sono esposti assumendosi la responsabilità di tale formulazione. Quanto a me, nonostante ciò, non ritengo conclusa la mia ricerca della verità, e mi sento in obbligo di verificare pure le affermazioni del GDLI. Voglio capire se tali affermazioni non siano boutades di menti iperuranie ma corrispondano alla realtà; e voglio capire pure se in grammatica ci siano valide ragioni che impongano l’uso del cosiddetto “tema”.

Per capire l’essenza di un fenomeno grammaticale nulla sarebbe meglio che aprirne l’uscio con la tecnica etimologica, così come ho sempre fatto con nomi, verbi, eccetera[10]. Però, se andiamo in cerca di etimologie e leggiamo il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, notiamo che alla voce “tema” sono presenti (in sintesi) le stesse formule del GDLI, ed apprendiamo in più che “tema” è voce dotta derivata dal gr. théma = ‘ciò che è posto’. Ciò-che-è-posto?!! Sic. Questo è l’approdo di cotanta ricerca sui “temi”. Non c’è altro.

A questo punto, di fronte a tale aporia, la faccenda torna ad obnubilarsi e riemerge un garbuglio (chiamiamolo “nodo gordiano”) che pare confezionato da menti sofisticate avvezze a spaccare il capello in quattro ed a contemplare le schiere angeliche; però intanto quelle menti – occhio alla menda! – si sono lasciate sfuggire proprio l’essenza della questione (more solito!). È proprio la loro menda (che fra poco illuminerò) a far capire che il “tema”, pur nella stringata definizione del GDLI, è stato gestito con eccesso di nonchalance da tutte le accademie e mai fu sottoposto a rigorosa analisi critica. Dunque questo benedetto “tema” torna a sfuggirci, rifluisce nell’indefinito, appare affidato a manipolazioni cervellotiche, e dalle sue formulazioni traspare soltanto vaniloquio.

I morfemi. A questo punto, mi spiace stoppare a mezza via la questione. Riprenderò e porterò a soluzione il dilemma del “tema” soltanto dopo una propedeutica analisi dei morfemi.

In un verbo, il morfema (dal gr. morphé ‘forma’) è un piccolo elemento dotato di significato il quale, suffissato ad un radicale, stabilisce l’appartenenza di questo alla categoria verbale, opponendosi in tal modo ai morfemi delle altre categorie grammaticali (quali nomi, aggettivi, avverbi, ecc.).

Si può apprezzare la gran diversità dei suffissi mediterranei confrontando soltanto tre infinitivi: –um (accadico), –āre (latino), –ein (greco). Le tre forme prescindono dal “bacino” in cui sono ufficialmente incasellate (sappiamo infatti che le lingue latina e greca sono attribuite unitamente al bacino “indo-europeo”, mentre quella accadica vien tenuta “fuori dalla porta”).

Ora v’invito ad entrare in ambiente strettamente tirrenico e confrontare i suffissi degli infiniti latini con quelli italiani (toscani) e sardi (centro-nord Sardegna). Sono pressoché uguali. Si direbbe che questa uguaglianza sia peculiare al solo Mare Tirreno (espansa in seguito ai suffissi gallo-francesi ed ispanici). Ma se ammettessimo una fioritura autonoma e peculiare, di tale singolare evento occorrerebbe pure scovare il primo vagito, perché la mera contemplazione di un esito non aiuta a scorgerne le radici. Dobbiamo scavare, cercare. Vediamo intanto i suffissi interessati:

suffissi latini: –āre, –ēre, –ĕre, –īre

suffissi italiani: –àre, –ère, –ere, –ìre

suffissi sardi: –àre, (-ère), –ere, –ìre

Ogni Ateneo sardo e italiano, ogni Università del mondo insegna che i morfemi italiani derivano dai morfemi latini. Di conseguenza, gli stessi morfemi sardi deriverebbero dal latino (secondo loro), e confermerebbero tale origine quando vengono scrutati attraverso la “cartina di tornasole” dell’italiano medievale e moderno (come vedete, ci hanno introdotto nostro malgrado nel cortile delle famigerate “lingue romanze”, delle quali in questo libro non ho tempo di parlare). Ci rendiamo conto che il “pensiero unico” continua ad inculcare lo stantio copione della solita commedia.

Ma nessun linguista al mondo ha mai tentato di chiarire l’intera problematica delle lingue tirreniche, tantomeno i cosiddetti “filologi romanzi” hanno indicato l’origine profonda degli stessi morfemi latini; li confrontano soltanto con altri morfemi mediterranei similari (metodo “comparativo”…), lasciando però senza risposta il problema delle origini e sancendo subliminalmente la primazia assoluta delle forme latine (le quali, a questo punto, sarebbero apparse in virtù di una partenogenesi).

In tale situazione, non scorgendo vie di fuga, ogni linguista adotta fideisticamente ciò che gli vien tramandato, adotta lo ”ipse dixit”, s’adagia nel latinorum imparato a scuola, quello sancito da ogni ateneo; rinuncia alla propria autonomia, dispensandosi dall’imperativo della ricerca, la quale lo obbligherebbe ad andare oltre il latino e spaziare per il Mediterraneo, approfondendo la questione sino a trovare nel plancher dell’arcaica lingua egizia le forme che credeva esclusivamente latine.

Le forme egizie sopravvivono intatte anche in Sardegna, esattamente sopravvivono in Logudoro e nel Nuorese, e pure in Campidano. Quindi non corrisponde al vero che i Sardi abbiano imparato la morfemica dei verbi dai Romani. Quei morfemi circolano nel Mediterraneo e in Sardegna da decine di millenni ed in origine furono anch’essi vocaboli, aggettivi, verbi.

I morfemi –àre, –ère hanno base etimologica nell’eg. år, åri ‘to make, do, create, beget, produce; fare, agire, creare, generare, produrre’; il morfema –ìre ha base nell’eg. ir ‘to conceive, concepire’.

Abbiamo pertanto contezza scientifica che alle origini il Sapiens residente sul Nilo esprimeva la verbalità con un radicale cui giustapponeva il concetto del “fare” oppure quello del “concepire”. Tale arcaica procedura è conservata ancora oggi intatta nel gergo ramaio italico (vedi Trumper per Dipignano: da rispunn– > fare rispunnella, da chjam– > fare chjamella, da trov– > fare trovella, da vol– > fare volella, da sap– > fare sapella, ecc.). Lo stesso fenomeno si riscontra intatto nel gergo ramaio di Ísili (Sardegna): fari stòngia ‘sostare’, fari bolleddu ‘chiedere’, fari mettéggia ‘porre’, fari passònia ‘passare’, fari piacedda ‘gradire’, fari pigedda ‘prendere’, fari portéggia ‘avere’, fari scaccedda ‘mandar via’, fari sentòngia ‘ascoltare’, fari stòngia ‘fermarsi’, fari tenòngia ‘possedere’.

Allato a queste forme arcaiche, ad Ísili si mantengono anche altre forme verbali che mostrano già agglutinato l’eg. åri ‘fare, generare’: es. abbengan-ari ‘impazzire’, affin-ari ‘dare’, aiust-ari ‘pesare’ da aiusta ‘stadera’, faging-ari ‘crescere’, crabiel-ari ‘riscaldarsi al sole’ da crabiéli ‘sole’. Questa seconda procedura in –àri è tipica anche del siciliano, e tocca pure le coste calabresi.

Penso che tutto ciò possa bastare per capire che le forme latine sono soltanto un riflesso, un pollone, il risultato seriore di un fenomeno arcaico che dal Delta si radicò nel Basso Tirreno ed in Sardegna, trattenendo in mente Dei la parlata che soltanto qualche millennio dopo si sarebbe palesata come “latina”.

Ancora sui “temi”. Terminato il mio excursus sui morfemi, è doveroso tornare ai ”temi”, casomai riuscissi a validare la loro esistenza. Purtroppo, potremmo ponzare sino allo sfinimento, ma non c’è alcuno sbocco validante.

In forza di quanto abbiamo appreso sin qui sui morfemi, va da sé che quel tenebroso brancolare dei linguisti ansiosi di confermare –a-, –e-, –i– quali marchi autonomi delle coniugazioni latine ed italiche è una follia, cronicizzata in loro per aver bevuto soltanto “l’acqua della leggerezza” imbottigliata dai propri maestri. Quei tre fonemi sono parte inestricabile del radicale egizio col quale sono nati e le cui inequivoche funzioni abbiamo appreso poco più su. Nient’altro.

Quindi i verbi europei, compresi quelli italiani, risultano composti di due sole parti: 1. radice (lessema), 2. desinenza (morfema).

Le inutili complicazioni (direi gli azzardi inescusabili) che impastano e deteriorano questa visione essenziale provengono dal vezzo degli indoeuropeisti (specialmente dal vezzo dei germanisti e dal vezzo dei grecisti) di parlare con nonchalance di “temi” ogni qualvolta debbano giustificare le apofonie nella radice o nella desinenza di un verbo. Qui, in ossequio al presente Dizionario Etimologico della Lingua Gotica, intendo additare esplicitamente i verbi gotici “forti” aventi apofonia nel radicale, nonché i verbi gotici “deboli” i quali sono denominali o deaggettivali recanti apofonie che marcano direttamente i suffissi dei nomi-o-aggettivi da cui derivano.

Ciò detto, ammonisco a non travisare, equivocare, svalutare mai il quadro delle apofonie presenti in nomi-aggettivi-verbi di ogni parlata. Le apofonie detengono il ruolo-chiave della filiazione verbo > nome; nome > verbo; nome > aggettivo, talché si configurano come autentici “morfemi trasformazionali”; esse sono, a dirla chiara, gli unici morfemi che sin dai primi vagiti del linguaggio hanno operato per la diversificazione e moltiplicazione delle singole parole in ogni vocabolario ed in ogni sintassi apparsi negli ampi territori europei, mediterranei, medio-asiatici.

Simili ma solo in apparenza. Con serena franchezza e col massimo rispetto, osservo che la visuale degli indoeuropeisti su questi argomenti è angusta e rigida. Sbagliano a proiettare i fenomeni grammaticali del gotico sui soliti “paradigmi-guida” presi dalle lingue latina e greca; di conseguenza è sbagliato che s’incateni la lingua gotica sul “letto di Procuste” dell’indoeuropeo.

Credo d’aver dimostrato l’inaffidabilità di quei modelli ai fini della corretta sistemazione della lingua gotica. Questa lingua non merita di pagare un “pedaggio” distorsivo e snaturante. Quindi sono obbligato a puntare l’indice contro le buone intenzioni del Mastrelli (GG 193), il quale non indugia a proiettare sull’incoativo greco γι-γνώ-σκω (lat. nō-scō) il got. ϸriskan: ve lo proietta perché in ϸriskan ha intravisto l’unico “tema incoativo” della lingua gotica. Ma proprio quell’unicità doveva renderlo guardingo, in quanto è assurdo che la lingua di Wulfila, nel contemplare i paradigmi greco-romani, vi si adeguasse con un solo verbo.

Uscendo dalle angustie e dalle rigidezze, con breve ragionamento il Mastrelli sarebbe stato in grado di scoprire, volendo, che il got. ϸriskan ‘trebbiare’ ha base etimologica nell’eg. ṭer ‘to reap (a harvest)’ + saq ‘to act with violence’, s-åq, saken ‘to destroy’. Quindi in origine ϸriskan significò ‘trebbiare il raccolto’. Non scorgo alcun “tema” –sk– all’orizzonte.

Tra i verbi gotici veramente unici, oltre a ϸriskan c’è soltanto fraihnan ‘domandare, chiedere’, che secondo Mastrelli GG 193 «è verbo forte caratterizzato dal raro suffisso tematico germanico –na-/-ni– (cfr. gr. τέμ-νω, lat. sper-nō)».

Mi spiace smentire Mastrelli, e lo faccio non soltanto perché di fraihnan egli rinuncia a cercare l’etimo. Questa forma radicale, salvo la metatesi del prefisso, è identica al lat. percontor ‘investigo ogni cosa, m’informo, indago, ricerco; domando, chiedo’; la cui base diretta (tolto lat. per– e got. fra– da analizzare a loro luogo) è il lat. contus ‘pertica, bastone’, apparentato con gr. κεντέω ‘pungolo, sprono’. Di esso s’ignorò l’origine. La sua base etimologica è l’akk. ḫaṭṭu ‘stick, bastone’ for beating, per picchiare (OCE II 137). Quindi in origine per-cont-are, fra-i-hn-an era l’azione di estorcere notizie picchiando metaforicamente l’informatore, pungolandolo idealmente affinché narrasse. Si pùò notare che –i– è l’eterno legante di stato costrutto, di cui parlerò più avanti. Il radicale-pivot di fraihnan rimane –hn-, parallelo perfetto di lat. –con-t-, dove s’intravvede l’epentesi di –n– rispetto all’accadico ḫaṭṭu (non si tratta quindi di *-na-), un fenomeno normale, una vera legge fonetica relativa a tutte le lingue appartenenti alla sponda Sud, al Mediterraneo, all’Europa.

A disdoro del Mastrelli, possiamo quindi concludere che fraihnan non contiene alcun tema germanico –na-/-ni-.

I paradigmi greci (nonché quelli più latamente “indoeuropei”) sono un vero “letto di Procuste” sul quale si misura tutto: ti sfidano al confronto volente o nolente. Allo studioso manca la libertà d’indagine, lo si fa entrare in asfissia. Ciò vale, beninteso, anche per i paradigmi più ariosi, più accattivanti, tali che non una ma molte forme gotiche vengano attirate ad adagiarvisi per l’apparente corrispondenza. Questo è successo, per esempio, al vb. got. bidjan ‘pregare’, per il fatto che l’apparato paradigmatico germanico è convincente (ted. bitten ‘pregare, chiedere, invitare’, beten ‘pregare’, betteln ‘mendicare’). Cosicché Mastrelli (GG 193) ritiene propizia l’occasione per spiegare che bidjan «è un verbo forte caratterizzato dal suffisso tematico –ja-/-ji– (cfr. gr. τείνω < tén-jō, lat. cap-iō). L’indoeuropeo conosceva oltre al tipo di coniugazione con vocale tematica -o-/-e- situata tra la radice e la desinenza (gr. λύ-ο-μεν, λύ-ε-τε), e la coniugazione atematica in cui la desinenza viene direttamente collegata alla radice (gr. εσ-μέν, εσ-τέ), anche dei presenti caratterizzati da suffissi tematici (-ye-, –ne-, –ske– ecc.). Di questi suffissi, quello che ha mantenuto una certa vitalità nel germanico, come nella maggior parte delle lingue indoeuropee, è –yo-/-ye– (gr. τείνω < ten-jō, lat. cap-iō) > germ. –ja-/-ji: got. bidjan ‘pregare’».

Perdonate la lunga sentenza del Mastrelli, che riporto per mostrare “le nudità del re”. Durante la sua facile corsa sul tartan dei paradigmi “indoeuropei”, il Mastrelli non rimase folgorato da una diversa opzione, ossia che la base etimologica di bidjan fosse l’eg. buṭ ‘a kind of offering (incense?)’, benṭ ‘to bind with spells, abbindolare con incantesimi’ + An ‘The Moon-God’. Questo bicomposto originario ignorava i “temi” (persino la mente di Dio li ignorava!) e descrisse esclusivamente la maniera con cui l’uomo arcaico cercava i favori della “Dea Mater Universalis”.

UN ACCENNO ALLA LINGUA IRANICA

Ho scritto che la lingua iranica o persiana deriva anch’essa dalla lingua primitiva (ossia dall’unica vera Ursprache) scaturita dal Delta e poi espansa in Mesopotamia ed oltre, verso l’India e l’Afghanistan. Il ricupero dell’antico persiano si deve all’Avesta ed al capolavoro di Firdusi, il Libro dei Re.

Tutte le accademie sono state convinte, purtroppo, che l’antico persiano non sia altro che una delle lingue indoeuropee; ma per indurre sanamente il dubbio, in questa sede bastano tredici termini, ai quali erano state date etimologie fuorvianti. Però avverto che nell’antico persiano, oltre a queste sono da rivedere tutte quante le etimologie, in forza del nuovo metodo che vado indicando in questa Premessa. Per ragioni di spazio, mi è forza rinunciare ad ampie dimostrazioni.

AMERDAD nome proprio che in antico persiano rappresenta l’Immortalità impersonificata, un genio benevolo al servizio del Dio onnipotente Ormudz. Il contrappasso di A-merdad è l’it. merda, la “mortalità” per antonomasia. In tal caso perveniamo a lat. morior ‘muoio’: Infatti merda è antica forma participiale apofonetica di morior, esattamente del suo part. pass., che fa mortus, mortuus: cfr. skr. mriyáte ‘egli muore’, lit. mìrštu ‘io muoio’, arm. merāmiu ‘io muoio’; gr. om. σμερδαλέος ‘terribile, orribile, tremendo, spaventevole’, che giustamente il Frisk collega pure al lat. merda e al lit. smirdéti ‘puzzare’.

Queste voci si cfr. con got. mauϸr (gr. φόνος), ted. Mord ‘assassinio, omicidio’, Mörder ‘idem’, ingl. murder; it. morte, camp. morti. Tutte le voci sin qui osservate sembrano aver subìto l’epentesi della –r-, mentre la base etimologica è l’akk. mūtu ‘morte’, a sua volta dall’eg. mut, mwt ‘morte’. La voce accadico-egizia è però autonoma, mentre tutte le altre voci che paiono apofonetiche derivano direttamente dal sum. mudur ‘sporco, dirt, dirty’, da cui appunto l’apofonia lat. merda.

ARARAT. Quest’oronimo persiano-semitico appare una sola volta in letteratura, in Genesi 8,4 (cioè in Berescith בראשית): «Nel settimo mese, nel diciassettesimo giorno del mese l’arca si posò sui monti di Ararat» (‘Monti Ararat’ הׇרֵי אֲרׇרׇט). Così si esprime anche la Bibbia di Gerusalemme. “I monti Ararat” sono una catena montuosa dell’Armenia la cui cima più alta si eleva oltre i 5130 metri. Dalla Berescith veniamo a sapere che è l’intera catena montuosa a ricevere il nome Ararat, e non è un caso che in passato tutta la regione caucasica si chiamasse Urartu. Quindi non è dimostrato che l’arca si sia posata sulla cima più alta, come sinora molte accademie hanno fatto intendere.

Dal punto di vista lessicale, l’oronimo Ararat non è un superlativo con radice raddoppiata (Ar-ar-), come spesso avviene per i superlativi ebraici, semitici, egizi, ma ha base diretta nella lingua egizia, esattamente in arar ‘high, exalted’ + åaṭ-t ‘ground, place, region’. Il composto significò ‘Regione alta’. L’appellativo di “Regione alta” è segno evidente che gli Ebrei (ed i Persiani) conoscevano la geografia del Medio Oriente, e non concessero lo stesso appellativo di “Regione alta” ai monti Zagros, il lunghissimo massiccio ad est della Mesopotamia (gravanti sull’attuale territorio iranico e specialmente nel territorio curdo) il cui culmine raggiunge minore altezza (4400 m). Urartu a sua volta non è voce ebraica ma assira (cfr. akk. ūru ‘roof, tetto’ ossia ‘colmo della casa’ + arutû ‘mountain’: il composto significò ‘montagne alte’). Per l’akk.-ass. ūru ‘roof, tetto’ cfr. eg. ur ‘very much’, ‘greater than’. Ma è ovvio che l’intero composto Urartu sia pur esso corruzione della più antica voce egizia arar-åaṭ-t.

BURQA termine afgano-persiano indicante la veste femminile che ricopre integralmente il corpo, senza lasciare scoperto nulla.

Il termine ha il lontano antenato nell’akk. burku, che direttamente significa ‘ginocchia, grembo’ (metafora per pudenda), poi per traslato riferito al controllo, alla protezione, talché ša burku indicò il perizoma ossia la veste che ricopre le pudenda. Cfr. sum. bur ‘vestito’ + kadu ‘coprire’ (bur-kadu), col significato di ‘vestito ricoprente’; oppure bur ‘vestito’ + ku ‘buco, cavità, tana’, col significato di ‘vestito-tana’ (tutto un programma).

CURDI. Questo popolo costituisce un gruppo etnico iranico che da molti secoli s’oppone con fierezza e tenacia all’omologazione e all’integrazione da parte delle potenze limitrofe (Iraq, Turchia, Iran). Il Kurdistan è il territorio più elevato della lunghissima catena dei Zagros. Base etimologica dell’etnico è l’accadico qurdu ‘warriorhood, heroism; song of beau geste’. L’antico Urartu (o Ararat: vedi) è stata da sempre la loro terra, ed essi hanno fatto parlare di sé per il loro valore in tutti i tempi della storia.

DARIO. Base etimologica di questo nome personale è l’akk. dārû(m), dāriu(m) ‘lasting, eternal, eterno’ riferito agli déi, ai re (tipico appellativo di cui si dotavano i re delle origini, per marcare la propria forza e la nobiltà davanti al popolo). Come si più notare, anche il celebre nome Dario, nome di un sovrano achemenide, era un nome programmatico.

PARADÍSO it., gr. Παράδεισος. L’invenzione cristiana di un Paradiso Celeste è una conseguenza ovvia del Paradiso Terrestre, che fu la serena e felice dimora di Adamo ed Eva. In origine indicava nient’altro che il parco reale dei Persiani, così citato da Senofonte, detto in ant. pers. paridaida, avest. pairi-daēza ‘cinta circolare’, aram. pardēsā, ebr. pardēs ‘parco’ (Qohelet, e Nehemia: quest’ultimo fu a corte di Artaserse I). Si può notare che tale “parco” o “giardino irriguo” era recintato, per difenderlo dalle devastazioni delle greggi.

L’ebr. pardēs è facilmente confrontabile col sd. pardu ‘prato’, principalmente ‘sito della pastura’, ossia luogo dove il bestiame può pascolare e ingrassare; da cui it. prato. Non c’è che dire, in origine questa parola iranica sortì per evidenziare il contrasto socio-economico con la normale vita degli Iranici, sparsi per steppe e deserti siccitosi. In Sardegna il concetto si era capovolto, e riguardò in origine (nel Paleolitico) i rari spazi privi di alberi dove l’erba aveva maggiore libertà di crescita. In egizio, per lo stesso campo semantico iranico, rileviamo per ‘to sprout, germogliare’ + ṭeš ‘to drink’, ‘drinking festival’: in tal caso possiamo tradurre per-ṭeš come ‘giardino irriguo’.

Notiamo così che gli Ebrei (forse durante la cattività babilonese) ebbero il soccorso dei Persiani per acquisire la forma e il concetto di “Paradiso terrestre”, ossia di “parco lussureggiante di alberi fruttiferi”, che poi s’espanse nel mondo. Però il concetto di “luogo altamente produttivo” esisteva già nel Mediterraneo, non ci fu bisogno dei Persiani per formularlo. Ogni popolo lo citava a modo suo, e pure Israele conosceva il concetto primitivo, che era Sèred סֶרֶד (Gn 46,14). Anche la moglie del principe lidio Tirreno si chiamava Sèred, detta, con pronuncia mediterranea, Sardō, dal sumerico sar ‘giardino’ + ‘tutto quanto’, componibile in sar-dū ‘tutta-giardino’ ((cfr. Erodoto I,170: Σαρδώ). La Sardegna in origine fu chiamata proprio così, indubbiamente per le potenzialità economiche che mostrava d’avere nei tempi arcaici: quindi Σαρδώ significò ‘Paradiso Terrestre’.

PERSIANO, PERSA. Questo etnico deriva dall’eg. per ‘casa, sede’ + sa ‘guerriero’. In origine significò ‘genia di guerreri’.

SHĀH (šāh) parola persiana indicante ‘il re supremo, l’imperatore’. Nei testi achemenidi il titolo usato dai sovrani era xšayāθiya xšayāθiyānām (“re dei re”), dalla parola “re” (xšayāθiya) derivata dalla radice Xšay- (“potere”), che si trova alla base anche di xšaça (“regno”). Durante la fase ellenistica, in iscrizioni in lingua battriana come quella di Rabatak del re Kanishka, troviamo la corruzione šaonano šao, dove il genitivo viene preposto rispetto al nominativo. È infine nelle iscrizioni sasanidi in medio-persiano che troviamo šāhan šāh nella formula caratteristica šāhan šāh Ērān (ud Anērān) ovvero “re dei re d’Iran (e del non-Iran)”.

Si può notare come gli “indoeuropeisti”, nella pretesa di aggiudicare, agganciare in qualsiasi modo la lingua persiana al paniere delle “lingue indoeuropee” (o “indogermaniche”), hanno sempre insegnato nelle Università, per l’antico iranico, uno shāh mai esistito. Questo appare soltanto nel medio-persiano in epoca sasanide, ossia al Primo Medioevo, e il suo uso la dice lunga sulla volontà dei Sasanidi di riappropriarsi in ogni modo della propria identità violata da quasi un millennio di sovrastrutture grecizzanti e da imperi mal sopportati.

Si era cercato, da parte degli Accademici, di riportare shāh alle antiche età e di agganciarlo al lat. Caesar, che in quei pochi secoli era diventato sinonimo di ‘imperatore’. Ma, con tutta evidenza, il termine latino presso i Sasanidi era conosciuto da pochi secoli, troppo poco per soppiantare il loro vocabolo riferito al ‘re’. Le Accademie hanno scarsa cognizione della forza di una lingua-madre, della persistenza e resilienza della lingua originaria di un popolo, la quale non sparisce nemmeno con millenni di dittature straniere.

Peraltro, Caesar e shāh sono separati da un abisso fonetico che fa soprassedere ad ogni tentativo di parificarli. Invero, la vera base etimologica di shāh (leggi ša) è l’eg. šaā ‘the source of life’, s-ša ‘to ordain, decree, authorize’, seša ‘leader, guide’.

SCACCO MATTO it. è la situazione in cui nel gioco degli scacchi il Re viene bloccato. La questione ha stretta relazione con la locuzione camp. sciáccu, talora sciáccu mannu, significante ‘danno grande’; cu dèngada sciaccu! ‘che abbia danno, che gli venga un colpo!’ (Quartu). Ovviamente non esiste etimologia dall’indoeuropeo, ma esiste nell’accadico in senso di ‘disastro, distruzione (grande)’, da confrontare anche con it. sacco, sacchèggio, saccheggiare. DELI interpreta l’it. sacco come ‘portar via (mettere nel sacco) con la violenza’ (da una città occupata). La base etimologica invece è quella di ebr. šoāh שׁוֹאָה ‘catastrofe’, ‘distruzione’ < akk. šakku(m) ‘harrowed, erpicato, sbriciolato’ (quest’ultimo termine riguarda la situazione in cui alcune città dei vinti erano non solo rase al suolo, ma su di esse si passava persino un grosso erpice tirato da molti buoi, al fine di scarificarla facendola ritornare a suolo agrario).

Il termine riguarda anche il gioco degli scacchi, dove il blocco del Re è interpretato come formula persiana šâḫ mât, tradotto malamente come ‘il re è morto’. Ma questa formula è inventata da chi non conosce le lingue semitiche; la formula deriva invece dall’akk. šakku(m) ‘harrowed, erpicato, sbriciolato’ + mātu(m) ‘land, country’ (< sum. matum ‘idem’), col significato di ‘territorio totalmente devastato, messo a ferro e fuoco, le cui città sono state persino arate al fine di farle scomparire’.

SCIMITARRA it. ‘spada ricurva di origine persiana e comunque usata dai popoli orientali’. È parola persiana di antica origine: DELI propone šimsīr, ma chiunque capisce che la seconda sillaba è totalmente fuori luogo. Invece la base etimologica è il sum. šen ‘battle, (single) combat’ + tar ‘to cut, tagliare’. In tal caso il composto šentar in origine indico una ‘(arma) tagliente per il combattimento corpo-a-corpo’.

SUSANNA. È nome muliebre e significa ‘donna originaria di Susa’ (ch’era la capitale dell’antica Persia). Lo ritroviamo nell’ebraico Šušan ( שׁוּשַׁנ ), mentre שׁוּשִׁין (šušin) significa ‘nativo di Susa’. Ricordo che pure il frutto del susíno (Prunus domestica) ha la stessa origine, ed infatti è ritenuto di origine caucasica o alto-iranica. In Italia abbiamo due cognomi ebraici italiani: Susin e de Susen. Dante Alighieri usa già prima del 1321 il nome del frutto.

URARTU. Vai ad Ararat.

VISIR nell’impero ottomano indicò dapprima il ‘rappresentante del governo’ e in seguito il ‘ministro’. Per il DELI è voce ritenuta tradizionalmente di origine araba (wazir ‘ministro’), mentre invece rappresenta il pahlavi v(i)čir ‘giudice’, in persiano vazir ‘consigliere’. In Francia tale parola è attestata già dal 1433, ma il DELI ricorda che l’Italia, specie mediante Venezia, fu in collegamento col mondo turco ben prima di tale data. Invero, la parola visir, wazir è molto arcaica e proviene dall’antico eg. wsr ‘forte, potente’.

L’INTUIZIONE E L’INTERPRETAZIONE, uguali fono-semantemi per entità distantissime

La pratica etimologica è una cosa molto seria. Gli errori talvolta sono possibili, e perdonabili, vista la complessità della materia. Importa però che si tratti veramente di errori, non di distorsioni mentali. Ad esempio pongo la questione di tre verbi: gr. πίνω ‘bevo’, πνέω ‘respiro’, lat. opinō ‘penso, immagino’. Osservandoli bene, sono tre forme fonicamente affini che a qualcuno potrebbero suggerire concetti affini. Invero, πίνω ‘bevo’ ha base nell’eg. bni ‘swallow, inghiottire’. Il gr. πνέω ‘respiro’ a qualcuno può suggerire per affinità l’idea del ‘bere aria’ (da un improbabile *πινέω), mentre invece ha base nell’eg. pa ‘to be, exist’ + nāau ‘air, breeze, wind’; quindi il composto pa-nāau in origine significò ‘aria dell’esistenza’ (un concetto eclatante). Infine opinō ‘penso, immagino’ a qualcuno potrebbe suggerire un’idea affine ai due verbi precedenti, proponendo il significato iniziale di ‘bevo pensieri’. Invece la base etimologica è l’eg. uba ‘examine, gaze’ + uaa ‘to think, meditate, take counsel’; quindi il composto ub-uaa in origine significò ‘esamino e penso’.

In questa Prefazione Metodologica non avevo ancora precisato che senza l’intuizione, sorretta dall’interpretazione, il lavoro dell’etimologo è destinato spesso alle distorsioni mentali, tali da generare mostri; comunque sia, l’etimologo sarebbe destinato a convivere con una superficialità che presto gli si rivolterebbe e gli chiederebbe il conto, inchiodandolo a ridicole contraddizioni. Per capirci meglio, invito a meditare attentamente sulle seguenti etimologie.

KARA got. Sorge ‘preoccupazione, apprensione’: ni ϸeei ina ϸize ϸarbane kara wesi (J 12,6: non quia de egenis pertinebat ad eum sed quia fur erat, ‘non perché gl’importasse dei poveri ma perché era ladro’). In gotico vige spesso l’apofonia, quindi attenti a non confondere kara col sd. cara ‘viso’. Per il suo etimo cfr. invece lat. cura la cui base è il sum. ḫurum ‘child, bambino, ragazzo, figlio’. L’atto del curare riguardò in origine i bambini, i figli, e ce n’era ben donde, poiché nell’alta antichità la cura per i figli era ossessiva, dato che la mortalità infantile era altissima, mentre i figli, rispetto ad oggi, erano necessari all’economia della famiglia e del clan.

FRAIW σπόρος (L 8,5.11: ‘seme’); σπέρμα (Mc 4,31: granum sinapis). Base etimologica è il sum. bir ‘to scatter, disperse; sparpagliare, disperdere’ + u ‘grain, seme, chicco, granello’: l’unione dei due vocaboli in origine significò ‘dispersione del seme’.

A proposito di fraiw, è singolare che in italiano non si sappia trovare l’etimo di frégola ‘stato d’eccitazione degli animali nel periodo riproduttivo’, poiché vi troviamo la stessa base etimologica di fraiw (leggi freu).

In ogni modo l’it. frégola è nettamente distinto dal sd. frégula, una specie di grossolano cus-cus, ottenuto dalla semola grossa gonfiata con spruzzi d’acqua entro un recipiente tondo e profondo. Si gira di continuo la semola a mano in modo da formare piccoli grumi. Il rigiramento aiuta le briciole di semola a coalescere. Poi i grumi si seccano al sole.

Wagner non dà l’etimo di sd. frégula, ma confronta il termine con parole simili dell’it. ant. frégolo ‘briciolo, minuzzolo’, napol. frécola. DELI propone l’origine da it. fregare, lat. fricare ‘strofinare, stropicciare’. Ma in italiano e in latino è arduo trovare tutta intera la base etimologica; mancando la giustificazione di –la. La base arcaica di sd. frégula si trova in campidanese: è il sum. be ‘tagliar via, ridurre a pezzetti; to cut off, reduce in size’ + ḫur ‘graffiare; to scratch’ + lag ‘zolletta, grumo; clod, lump’: beḫurlag > metatesi frégula, indicante le pietruzze ottenute agglutinando la semola grossa, seccandole al sole e poi mettendole al forno.

FRA-QIMAN etwas verzehren, ausgeben, vertun ‘consumare, spendere, sperperare’: δαπανᾶν τι (Mc 5,26: et erogaverat omnia sua nec quidquam profecerat ‘spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio’). Per l’etimo del primo membro vai a fram, avv. e prep. got. (cfr. ingl. from) col significato di ‘allontanamento, contro, oppostamente’. Il vb. –qiman è identico solo nella forma a qiman ‘andare’, ‘venire’. Invece ha base etimologica nell’eg. qemam ‘to form, create’. In questo caso fraqiman ha il significato opposto di ‘sperperare’, ‘consumare ciò che è stato creato’.

SEITEINS got. Adj. ὁ καθ’ἡμέραν täglich (k 11,28: cotidiana). Per l’etimo vai a satjan got. ‘sedersi’, ted. setzen ‘sedere, mettere, collocare, porre’ (τιθέναι); ags. set; got. sitls ‘sedia’. Cfr. sd. centr. sédere, lat. sĕdēre. Base etimologica di satjan è il sum. šed ‘to lie down; to rest; giacere, riposare’;eg. s-t ‘seat, place’, sa-t, set ‘earth, ground, pavement’, s-ṭa ‘to lay, place’.

Sono numerosi i termini gotici destinati a non essere capiti senza l’approfondimento fatto con intuizione ed interpretazione.

Ad esempio chi penserà mai che il vocabolo got. ga-ƕeilains ‘requie, riposo’ si affratelli al sd. cuìle ‘ovile, luogo di ricovero e riposo per armenti’? Ebbene, ce ne accorgiamo quando diamo a ƕeilain– la giusta pronuncia (cuìlen-).

L’arcaico sedimento della lingua sarda aiuta spesso nei confronti paneuropei. Ad es. il got. beidan ‘aspettare, ricevere (un ospite)’ ha base etimologica nell’akk. bītu ‘dimora, abitazione, casa, insediamento’, ebr. bait ‘casa’ < eg. bait, bat, bet ‘house, place, original place, the old home’. Non si può percepire bene il nesso tra beidan e il proprio etimo senza confrontarlo col log. cum-bidare ‘invitare a pranzo o a bere’, sost. cumbίdu ‘invito’, ed anche lat. convīvium ‘pasto cerimoniale’. Cfr. pure sd. cumbessìa ‘luogo di accoglienza e rifocillamento dei pellegrini che visitano un santuario campestre’. Il sd. cumbidare indicò inizialmente l’invito (< akk. bītum ‘tempio, casa’), ossia l’introduzione del pellegrino nel tempio campestre a conclusione del pellegrinaggio, e poi l’introduzione nella casa dei novenanti (bītum), dove veniva rifocillato e fatto riposare.

Con questi radicali s’apparenta anche l’agg. sd. vitanu ‘perenne’, con base nell’ant. akk. bītānu, bētānu ‘interno, intimo, di casa, consueto’ (ebr. bait ‘casa’). In tal caso l’aggettivo si raccorda, soltanto per via semantica, al got. seiteins ‘quotidiano’, i cui radicali però sono l’eg. s-t ‘seat, place’, sa-t, set ‘earth, ground, pavement’.

Uno dei mille verbi gotici apparentati con l’arcaica lingua sarda è supon ‘condire’ (Mc 9,50: ƕe supuda?, in quo illud condietis? ‘con che cosa lo salerete?’). Lo si può capire soltanto mediante il camp. suppa ‘tesoro, cosa meravigliosa’, ‘qualcosa che abbellisce, che migliora l’aspetto’ (Quartu S.E.): sa pippìa esti una suppa ‘quella bambina è un tesoro’ (metafora); di fillu mìu non ndi potzu fai suppa (detto di un figlio scapestrato) ‘da mio figlio non riesco a ricavare niente di buono’ ossia ‘non riesco a migliorarne l’indole’. Base etimologica del termine campidanese è l’ass. ṣuppu ‘decorato, rivestito, ricoperto, placcato’, šūpû ‘rendere splendente, visibile’, col significato riferito al risultato dell’abbellimento di un corpo bruto, una trasformazione da oreficeria, una decorazione che abbellisce lo stato grezzo.

Altro legame tra gotico e lingua sarda è il perfettivo got. us-filhan ‘seppellire’. Così come per il semplice filhan, l’etimo può essere rintracciato dal confronto del sd. centr. perca ‘anfratto, fessura di roccia; grotta, caverna; buco nei muri’; pércia log. sett. Il nome è variante dell’it. brèccia ‘insieme di sassi spezzati’, specialmente ‘apertura fatta in un’opera di fortificazione’ = fr. breche (si dice di origine germanica): v. ingl. break ‘rottura’. Invero, la base etimologica è l’eg. perkh ‘to divide, separate’, pertcha (leggi perča) ‘to split, divide, separate’, perš ‘to stretch out’. Cfr. sum. birku: bir ‘strappare, trinciare’ + ku ‘hole, buco’. Il senso iniziale del sum. birku fu dunque ‘roccia sbrecciata, a buchi’. Per estensione indicò anche l’uomo o la cosa malridotta, marcia, sfatta, tarlata (brécu). Infine in lingua gotica venne a significare pure ‘seppellimento’, per il quale i Goti guardarono evidentemente alla tradizione palestinese di conservare i cadaveri entro una grotta magari riadattata.

Il got. us-qiman ‘uccidere’ (semanticamente = lat. interficere, occidere) non potrà mai esplicarsi senza il confronto con l’eg. ‘omission, space, interval, lacuna’; us ‘to be empty, to come to an end’: il concetto base di , us è quello di vuoto, privazione. Il membro –qiman richiama l’eg. kha ‘essenza vitale dell’uomo’. Pertanto us-qiman in origine sigificò ‘privare dell’essenza vitale’.

L’agg. got. uswaurhts si cfr. con uswaurkjan, ted. wirken ‘operare, agire, fare effetto’; ingl. work ‘lavoro’, ags. weorc, werc, worc, wurc; aat. werah, werk; asass. afris. werk, ol. werk; norr. verk, dan. vœrk, sved. verk. Base etimologica è l’eg. bu ur ‘place of greatness. i.e. majesty, riches, prosperity’ + kha eg. ‘substance of the body’, ‘potenza generatrice dell’uomo’. In origine bu ur kha significò ‘potenza generatrice umana che arricchisce’.

Il got. waggarja ha riscontro in Mc 4,38: super cervical ‘sul cuscino’. Base etimologica è l’eg. ua ‘warden, governor; guardiano, governante‘ + ānkh ‘vita, salute’. Va da sé che waggarja (leggi wangaria) in origine significò ‘guardiano della salute’.

I lemmi su elencati giammai potevano essere esplicati, senza l’intuizione e l’interpretazione. Queste due qualità sono indispensabili al ricercatore di talento, ed è soltanto con esse che riusciano a trovare la parentela tra furriadróxiu-Tròia-ambulatòrio.

Furriadróxiu (-x– = fr. –j-). Nel Sulcis (sud-Sardegna) sono ‘capanne familiari o comunitarie di pastori, con annesso ovile’ dove nottetempo si ricoverano gli animali. Ai fini dell’etimologia il lemma va smembrato in fùrria-dróxiu. Furriái camp. ‘girare, voltare, cambiare’; principalmente ‘tornare indietro’, ‘riportare indietro’. Sul termine si sono misurati i migliori linguisti, invano. Wagner sostiene che è privo di etimologia, essendo… onomatopeico. Invece furriái ha base nell’eg. bu ‘place, site’ + ruu ‘to drive away’. In origine significò ‘portar via da un sito (verso un altro sito)’. Il membro metatetico –dróxiu è termine campidanese (in nuorese detto –tóriu) con base nel sum. tur ‘stalla, riparo’. Quindi in origine furriadróxiu significò ‘riparo dove si riporta il bestiame’.

Troia. Della celeberrima città della Troade, incastonata in territorio mysio-lidio, si è sempre ignorato l’etimo. Nessuno ha mai pensato che normalmente ogni toponimo insediativo vien formulato nell’istante in cui l’uomo decide di strutturare una nuova realtà. Tra i popoli pastorali vicini al fiume Scamandro 4-5000 anni fa la nuova realtà non poteva essere altro che una stalla, ossia un rifugio collettivo per proteggere nottetempo gli armenti della tribù da fiere e grassatori. La stalla collettiva nei tempi arcaici era una struttura socio-economica fortemente aggregante, e non a caso i singoli proprietari vi si aggregarono attorno costruendo le prime capanne abitative.

Ai tempi in cui il Mediterraneo era pervaso dalla lingua sumerica, quel sito non poté chiamarsi diversamente da come si esprimevano per proprio conto i Sulcitani, con la metatesi di tur ‘stalla, rifugio’. Quindi, per antonomasia, Tròia assunse il nome eterno di ‘stalla’.

Ambulatorio. L’Italia non è nuova a storture linguistiche prodotte da pensatori abbacinati da fenomeni più grandi della propria erudizione. È così che –tòrio perse lo sfarzo quando su di esso s’inventò l’aggettivo ambulatòrio ‘che cammina, che serve per camminare’ (G.B. Savonese, 1479; SFI VI: DELI). Però meno di un secolo dopo Giorgio Vasari raddrizzò quel segnacolo abbattuto dall’insipienza, e dal verbo ambulare ‘camminare’ resuscitò il latineggiante ambulacro ‘ambiente protetto che si sviluppa in lunghezza’. Solo nel 1886 Il Telegrafo individuò come ambulatòrio il ‘locale adibito alla cura momentanea delle malattie o a consultazione clinica’.

Ora qualcuno può pensare che la parola ripescata dal Telegrafo sia un secondo naufragio, poiché nei nostri ambulatori il paziente in visita medica sosta, e nessuna attività sarebbe più peregrina del passeggiarci. Ma per nostra fortuna ambulatōrium resiste sin dal tardo latino, quando indicava un ‘(portico) da passeggio’ (DELI). Proprio il portico riesce a rianimare un –tòrio altrimenti dannato alla incomprensione. E la questione si ricompone davanti ai nostri occhi riesumando il sum. tur ‘rifugio’ e rammentando che i primi ospedali italiani erano dei grandi porticati protetti, o grandi cameroni dove si ricoveravano gli infermi, mentre il medico ambulava per visitarli a uno a uno. Quindi in origine ambulatorio significò ‘ambulacro protetto’.

LE APOFONIE, MORFEMI TRASFORMAZIONALI

Più sopra ho chiarito che «le apofonie detengono il ruolo-chiave della filiazione verbo > nome; nome > verbo; nome > aggettivo, talché si configurano come autentici morfemi trasformazionali; esse sono, a dirla chiara, gli unici morfemi che sin dai primi vagiti del linguaggio hanno operato per la diversificazione e moltiplicazione delle singole parole in ogni vocabolario ed in ogni sintassi apparsi negli ampi territori europei, mediterranei, medio-asiatici.

Per verificare il mio messaggio basterebbe analizzare il dizionario antico-greco, zeppo di apofonie. Volendo, si analizzi anche la lingua latina, o quella italiana. Lo stesso vale per la lingua sarda. Ci si accorgerà che nella mutazione di una parola non entrò mai in gioco alcun “tema” ma operò soltanto la mutazione di un suono. L’alternanza vocalica o apofonia (da non confondere con metafonia), è la variazione di un fonema o di un gruppo di fonemi nell’ambito di un sistema morfologico: es. lat. faciofeciefficio; gr. πίνω ‘bevo’, ποτίζω ‘do a bere’; sd. foràda (a sud), faràda (a nord) = ‘discesa, burrone’.

Le apofonie operano in ogni lingua ed appaiono pure nei confronti tra lingue diverse, poiché dappertutto si riconobbe la geniale semplicità di sostituire una vocale per creare una nuova parola apparentata alla prima. La lingua gotica non fa eccezione, e sono proprio le apofonie tra parole identiche in lingue diverse che maggiormente suggellano il reseau unitario della Koiné Mediterraneo-Europea.

BROϸRAHANS è uno dei mille esempi gotici. Significa ἀδελφοί, Brüder ‘fratelli’, per il cui etimo vai a broϸar.

Ma che ne facciamo del membro –hans? Contiene un’apofonia legata ad altre parole in –u-. Ma andiamo con ordine, ricordando che il gr. ἀδελφοί significa letteralmente ‘nato dalla stessa vulva’ (ἀ- ‘con, insieme’ + δελφύς ’vulva, matrice’). Lo stesso vale per la semantica del got. –han-s il quale ha la stessa base fonetica di sd. cunnu ‘vulva’ (ecco l’apofonia). L’arcaica parola sarda, che passò al lat. cunnus, deriva dal sum. ku ‘hole, buco’ + nu ‘creator’, ‘offspring, prole, discendenza’. L’agglutinazione dei due monemi di cunnu significò ‘foro della creazione’, ed anche ‘foro della discendenza’. A sua volta broϸrahans significò ‘fratello germano, dello stesso letto’.

DAL-Aϸ è avverbio got. di direzione’: zu Tal, abwärts, nieder ‘a valle, in basso’, κάτω; χαμαί auf die Erde ‘per terra, sulla terra’. Base etimologica è il sum. dul ‘to lower, calare, abbassare’ (ecco l’apofonia). La particella – si cfr. con lat. ad ‘a, verso’, akk. ad(i), ebr. ug. ad(e), aram. ad, ant. ass. ant. akk. adum ecc. ‘until, as far as; a, fino a’.

DALS* βόθυνος ‘fosso, buca, cavità’, Grube ‘fossa’, graben ‘scavare’. Base etimologica è il sum. tul ‘pozzo’ (ecco l’apofonia).

DIS-HNUPNAN got. zerreiẞen (intransitivo) ‘strappare, stracciare, dilaniare’: διερρήγνυτο: -nodedun. Il membro dis– ha funzione disgiuntiva, d’allontanamento forzato, distacco. Il membro hnup– si cfr. con it. cànapo ‘corda, gomena’ (ecco l’apofonia), da cànapa ‘pianta erbacea’ (Cannabis), ‘fibra tessile tratta dal fusto della pianta omonima’. Quindi dis-hnupnan in origine significò ‘strappo del cànapo, strappo del vincolo’.

DIUS* θηρίον ‘belva’, wildes Tier ‘animale selvaggio’. Base etimologica l’eg. ṭa ‘a wild animal’ (ecco l’apofonia).

DUGAN*, taugen (leggi togen) ‘essere adatto, essere portato, servire a’. Ai fini dell’etimo cfr. sd. dèkere, dèghere; lat. decet, decēre ‘è buono, è bello, è opportuno’, dignus ‘degno’ (ecco quattro apofonie).

DU-GINNAN, ted. beginnen. Il membro du– è preposizione da cfr. con ingl. to (particella di moto, avvicinamento, dativa): base etimologica l’eg. ṭu ‘to give’. Quanto a ginnan, cfr. ingl. begin ‘cominciare’, ags. beginnan, āginnan, onginnan, pret. –gann, –gunnon, p.p. –gunnen; aat. biginnan, inginnan, pret. –gann, –gunnun, p.p. –gunnan; asass. biginnan, afris. biginna, olm. beghinnen > ol. beginnen. L’arcaico ingl. gin deriva per aferesi da agin. Entrambe le lingue hanno generalizzato nel pret. la voc. del sg. (ingl. began, ted. begann); il tedesco conserva però anche la forma arcaica begonn (con cong. pret. begonne) con la voc. del p.p. begonnen (ingl. begun). Si possono contare quattro apofonie.

FISKON ‘pescare’ fischen. Questo è un verbo debole della seconda classe, caratterizzato dalla vocale tematica –ō– risalente a un denominativo derivato da temi nominali in –ā– > ger. –ō-, ampliati dal suffisso ie. *-yo-/*-ye-: cfr. gr. τιμάω ‘onoro’, lat. multō (Mastrelli GG 208). Si notano due apofonie, dal Mastrelli chiamate invece “vocali tematiche”.

FRAM avv. e prep. got. (cfr. ingl. from). Cfr. gr. παρά. Base etimologica l’eg. per ‘to go out’, go away, depart, leave one’s country, escape’ + unu ‘dwelling, domicile, abode’. Il composto in origine significò ‘allontanarsi dal posto abituale’. Si notano tre apofonie tra lingue diverse.

GA-BAURƥS ‘io parto’. Lasciando a parte la particella perfettiva ga-, cominciamo l’analisi da it. portare ‘spostare un oggetto da un luogo a un altro’: es. portare la valigia. Vedi lat. portāre ‘tras-portare’. Nell’analisi dobbiamo tener presente la proficua mobilità apofonica avvenuta nel Mediterraneo tra radicali in par-/per-/pur-, nonché le variazioni concettuali pur sempre apportabili al radicale originario. I referenti euro-asiatici di portare sono molti: vedi lat. ferō ‘portare, trasportare, arrecare’, par-iō ‘genero’, par-tus ‘parto, espulsione del figlio’; l’akk. warûm ‘portare’, ‘andar contro, go against’, per’um, perḫum ‘discendenza, rampollo’; ai. bhárāmi, asl. bero, got. bairan, arm. berem ‘portare’. Si possono notare varie apofonie tra lingue diverse.

FRA-HINϸAN αἰχμαλωτίζειν gefangen nehmen ‘arrestare’ (R 7,23: captivantem me in lege peccati ‘mi rende schiavo della legge del peccato’). Cfr. ingl. hinder ‘impedire, ostacolare’, ags. hindrian, aat. hintarōn, afris. hinderia, ol. hinderen; norr. hindra, dan. hindre, sved. hindra. AEIT lega i radicali relativi a questa voce germanica con quelli esaminati per la preposizione hindar (‘dietro’), proponendoli come reciprocamente geminati, quindi appartenenti ad identico campo fono-semantico. Ma la procedura di AEIT è inaccettabile poiché la semantica tra i due aggregati vocali non converge affatto anzi diverge inesorabilmente. A disdoro dell’interpretazione dell’AEIT, noto che tra hindar e –hinϸan è stato il caso, nient’altro che il caso, ad aver tenuto vicine le pronunce, non così vicine però da ottenebrare gli iniziali campi fono-semantici (che sono: da una parte kindar, dall’altra il sum. kunzi: vedi a loro luogo).

Pertanto il radicale hinϸ– di fra-hinϸan non è altro che una forma apofonica del radicale ags. hund– ‘to chase, cacciare, prendere in trappola’. Quest’ultimo ha base nel sum. kunzi ‘fish’, kunzida ‘weir, sbarramento’. È evidente che in origine questa voce gotica alludeva alla ‘pesca’ in generale (kunzi) nonché alla tecnica della pesca fluviale e lagunare (kunzida), da cui allargò il campo semantico con allusione alla caccia degli altri animali ed anche alla cattura dei nemici. Peraltro il sum. kunzida fu prolifico nell’antichità, e diede pure luogo al sd. kunzatu, cungiatu, indicante il ‘muro a secco o la siepe che circonda e racchiude una proprietà colturale al fine di preservarla dall’invasione del bestiame’. A conclusione possiamo notare che le apofonie confondono facilmente i germanisti.

GAHOBAINS ἐνκράτεια Enthaltsamkeit ‘astinenza’. Questo lemma condivide la base etimologica col got. hafjan; cfr. lat. cāpiō ‘afferro, prendo’. Base etimologica è l’akk. kāpu, kappu ‘mano, cavo della mano, contenitore’. Base arcaica l’eg. kep ‘hollow of the hand’, ‘to seize’, kepu, keput ‘hunters, snares’. Si noti il persistere di qualche corrispondenza tra il sostantivo gotico e quelli della sponda Sud.

GALIGRI concubitus, ex uno concubitu (R 9,10 ‘anche Rebecca ebbe figli da un solo uomo’). Ai fini dell’etimo vedi got. ligan, ligans, lag, legum ‘giacere’. Vedi ana-lagjan, at-lagjan. Base etimologica il sum. lug ‘to live, dwell; ‘vivere in un posto, insediarsi’. Tre apofonie.

Si noti che la forma perfettiva ga-ligri segue la legge apofonetica delle analoghe formazioni mediterranee, le quali spesso mutano in –i– la vocale del secondo membro (ga-lug– > ga-lig-). Attenzione!: questo fenomeno non è descrivibile semplicisticamente come metafonia (Umlaut) ma è un relitto (un mero ricordo fonetico) dello “stato costrutto” semitico, di cui parlerò.

Inoltre vorrei mettere sull’avviso il lettore, poiché qualche glottologo sarebbe tentato di sottilizzare sulle mie espressioni sostenendo che i fenomeni qua discussi non pertengono all’apofonia (Ablaut) ma semmai proprio alla metafonia (Umlaut) ossia all’assimilazione del timbro di una vocale a quello di una vocale vicina. Ebbene, questa loro sottigliezza sarebbe uno scaltro tentativo di riportarmi nell’agone del “comparativismo”, ossia mi costringerebbe a fare esclusivamente da notaio alle mutazioni di tono di una parola, togliendomi il potere di dimostrare che queste mutazioni sono anzitutto dei morfemi trasformazionali.

GA-TAMJAN ‘domare’ bezähmen, bezwingen: οὐδεὶς ἵσχυεν αὐτὸν δαμάσαι: manna ni mahta ina -jan (Mc 5,4: et nemo poterat eum domare). Questo verbo gotico appartiene alla IV classe apofonetica. Per questo preciso caso bastano e avanzano le forme apofonetiche introdotte dal Mastrelli: ie. *el/ol/ēl/ > germ. el (got. il)/al/ēl/ul. Per i casi analoghi l’ie. *en/on/ēn/ > germ. en (got. in)/an/ēn/un. Vedi anche altre analoghe forme apofonetiche: ie. *em/om/ēm/ > germ. em (got. im)/am/ēm/um.

INWINDIϸA ἀδικία Ungerechtigkeit (J 7,18: et iniustitia in illo non est). Per l’etimo vedi witoϸ (νόμος ‘uso, costume, consuetudine’), nonché witan ‘sapere, conoscere, imparare’ (gr. γινώσκειν), wait ‘so’ (ma anche ‘sto vedendo’), ted. wissen ‘sapere, conoscere’, lat. videō, gr. (w)oīda, ἰδεῖν, ai. vḗda, aisl. veit, ags. wāt, asass. wēt, aat. weiʒ. Si possono notare le varie apofonie.

congiunzione ‘e, dunque, invero’. Base etimologica l’eg. åsåā ‘to introduce’, åsth (an explanatory particle). Si noti l’apofonia.

MITAN ‘meditare’, pres. mita ‘medito’ (ted. messen ‘misurare, paragonare, comparare’). Questo è un verbo debole della seconda classe apofonetica, caratterizzato dalla vocale tematica –ō– risalente a un deverbativo intensivo caratterizzato dal grado forte della sillaba radicale (-o-): cfr. gr. τρωπάω ‘piego’, rispetto a τρέπω ‘volgo’, lat. in-dicāre, rispetto a dīcere, asl. mĕtajǭ rispetto a metǭ ‘I throwo’. Per l’etimo vedi lat. meditor, gr. μέδω ‘regolo, governo’, μέδομαι ‘penso, ho cura, mi do pensiero’, μανθάνω ‘imparo’; ebr. maddā ‘pensiero, conoscenza’, akk. madādu ‘ponderare, misurare’. Abbiamo notato quante apofonie entrino in gioco attorno a questo radicale.

QUANTO IMBARAZZA LA COPULA

Acculturazione. All’Università mi fu imposto di acculturarmi, tra gli altri, col libro di un glottologo polacco che aveva impegnato mille pagine a dimostrare che la copula essere (to be) poteva avere anche funzioni di verbo. Perdonate, non ricordo il nome dell’autore, ma ricordo che su mille pagine egli profuse mille citazioni di mille autori diversi. Tanto titanismo riduce a nanismo persino le fatiche di Ercole.

Manco a dirlo, quei Mille non erano i guerrieri di Garibaldi che liberarono l’Italia, ma raffiguravano le dame nei leziosi giri di valzer cui ogni glottologo s’impegna, scambiandole mille volte tra mille galanterie, per ottenere il placet col quale sale in cattedra.

Quanta musica negli atenei! Io non so ballare il valzer, e per definire il vb. essere nella mia Grammatica Storica mi sono bastate tre righe. In questa Prefazione Metodologica la copula reclama di essere ascoltata perché – lo so – essa continua a imperversare negli atenei creando emicrania a mezzo corpo accademico. È il momento della chiarezza. L’occasione viene dalla lingua gotica.

IS ‘tu sei’. Cfr. ai. ási, gr. om. es-sí, lat. es, ags. dial. is. Secondo Mastrelli GG 227, tali forme verbali deriverebbero dall’ie. *es-sy. Sbaglia due volte, come al solito. Invece derivano in linea retta dalla lingua egizia, precisamente da ås (leggi es, is), una congiunzione enclitica, spesso usata come marchio di enfasi, o per attirare un’attenzione speciale verso la frase alla quale è attaccata; serve principalmente per illustrare una spiegazione, e può essere tradotta così: namely ‘ossia’, to wit ‘per dire’, that is ‘cioè’, behold ‘ecco’. Dall’eg. ås derivò anche l’ingl. as ‘come’.

IST ‘è’, gr. estí, lat. est, anord. ist, ags. asass. is, aat. ist. Mastrelli GG 90 sostiene che queste voci deriverebbero dall’ie. *esty. Errore doppio. Queste forme del verbo ‘essere’ vanno confrontate con tutte le altre forme presenti nel Mediterraneo. Vedi ad es. sassar. assè ‘essere’, log. èssere. C’è un’altra forma sarda: éssi, esse ‘essere, esistere; to be’. Questo è il verbo della “esistenza” e al contempo della copula. Esso oppone la realtà all’apparenza. Non c’è persona al mondo che non pretenda derivare questo verbo sardiano dal lat. esse ‘essere’. Ma quando poi vanno alla ricerca dell’etimo, s’accorgono che persino i latinisti non sanno trovarlo. Il primo a non raccapezzarsi è l’Ernout-Meillet, nonostante un’intera pagina di discussione; stesso “vagabondare” improduttivo ha mostrato Semerano OCE II 580.

Notevole è il fatto che la forma lat. esse non abbia repliche in nessun’altra parte della sua coniugazione (sum, fuī, fūī: fa eccezione es-t). Altra caratteristica di questa forma latina è ch’essa serve quasi esclusivamente a introdurre una esplicazione: id est è infatti una perfetta copula, perché mette in relazione reciproca od egualitaria due concetti, tipo Tullia est pulchra ‘Tullia è bella’, id est malum ‘questa è una mela’. Notisi che l’imperativo latino – basato su esse – s’impiega come affermazione concessiva: estō ‘sia’. Estō è tutto un programma, svela una modalità del pensiero umano: ne discuterò dopo esse.

Essi, esse, lat. esse sono copula perfetta, ed hanno base etimologica nel sum. ‘come, al modo che’, eg. ås ‘come’: quindi frasi quale lat. rābiēs est morbus ‘la rabbia è una malattia’, in una lingua arcaica come quella sumerica o egizia, che non aveva verbi tuttofare come il sd. e lat. esse, la particella era il congegno linguistico perfetto per indicare l’uguaglianza o parità tra due concetti. Pertanto i sintagmi tipo lat. rābiēs est morbus nell’antica lingua sumerica era così inteso: rābiēs come morbus, ossia rābiēs = morbus. A ben vedere, questo modo di esprimere i sintagmi sumerici fu identico anche a certe procedure greche o latine nelle frasi nominali (es. gr. ἄριστον ὕδωρ ‘ottima fra le cose l’acqua’; lat. dura lex sed lex ‘la legge è dura ma è legge’).

Quanto all’imperativo lat. estō (utilizzato a piene mani nelle Leges XII Tabulae), anch’esso ha come base etimologica il sum. ‘come, uguale a’, cui però si agglutina du, dug ‘dire, parlare, esprimersi’. In origine significò, letteralmente, ‘parla uguale’, ossia ‘parla in conformità’. Questa modalità verbale è grandiosa, ricorda le origini del linguaggio, ricorda i tempi arcaici quando bastava un semplice cenno di testa per esprimere la volontà, l’assenso, il consenso, il contratto, l’alleanza, il comando, la legge. Non a caso le antiche leggi romane erano tutte scolpite in forma di comando espresso al futuro. Tutti ricordiamo il solenne cenno del capo di Zeus, che una volta accennato non poteva essere ritrattato, e da esso dipendeva il destino del petente, o dell’insolente cui si vietava un’azione.

È un vero peccato che su quel libro polacco io non abbia trovato nessuna di queste spiegazioni.

CENTUM-SATƎM: IDEOLOGIA E “LEGGI FONETICHE”

La prima dinastia di glottologi europei fu indubbiamente pioniera. Erano tempi in cui lo stesso Champollion non aveva del tutto concluso la titanica impresa di svelare i geroglifici. Tempi eroici. Tra francesi, inglesi e tedeschi si era accesa una competizione estrema, in cui la disciplina, il rigore, l’impegno diventavano le uniche colonne portanti di un tempio culturale al quale mancava quasi tutto, persino il tetto. Mancava ancora il dizionario egizio, ivi compresa la sua grammatica. Mancava il dizionario sumerico, quello accadico, e così via. Persino l’ebraico – una lingua soggetta per quasi due millenni all’ossigeno extracorporeo, letta (non parlata) da pochi studiosi – aveva un commovente bisogno di restauro, poiché il suo fievole lumicino era alimentato solo da una manciata di rabbini che reciprocamente s’erano giurati “ortodossia”, un concetto disperato, mitico anch’esso, che però era capace d’illuminare la strana originalità ebraica, pure a costo di lasciare sgocciolare da tante parole bibliche i concetti originari, le idee primitive, alle quali spesso ci si attenne senza più capirle. Non a caso Israele ha pensato al ricupero urgente, creando l’Accademia della Lingua Ebraica.

I primi glottologi erano pionieri, in quanto tali erano privi di tanti strumenti metodologici che solo dopo un secolo avrebbero cominciato a far capolino qua e là. Ciononostante, i glottologi di allora, all’apice dell’entusiasmo, tentarono di costruire a proprio modo una “linguistica strutturale” (Ferdinand de Saussurre) dove l’unica certezza era la disciplina – esercitata a vuoto entro una esiziale carestia di realismo, applicata all’ideologica impresa di creare anzitutto a loom, a chassis, che avrebbe supportato i contenuti (anziché fare l’opposto) –. In tal guisa essi giunsero all’estremo di formulare persino delle “leggi fonetiche”: il tutto senza conoscere bene l’intero paniere delle lingue europee, senza conoscere affatto le lingue semitiche ed il loro influsso tenace su quelle “indoeuropee”, senza avere alcuna conoscenza della lingua sarda (catalogata indolentemente come “neolatina”); senza nemmeno interessarsi alla pletora dei cosiddetti “dialetti” della penisola italiana; noncuranti del naufragio della lingua celtica; spietatamente privi d’amore e di lacrime sull’oblio delle antiche parlate dalmatiche; senza nemmeno sospettare che la lingua rumena potesse avere, vivaddio!, origini non-latine.

La disciplina era l’unica risorsa di quei bravi pensatori: un volano senza frizione. Entro quel disastroso vuoto culturale, tra i peana cantati sul presepe della “narrazione ariana”, nacque il mito del CENTUM-SATƎM, la legge di Collitz-Schmidt.

Per meglio presentare quel mito comincio dal got. hunda-, –hund ‘cento’, più precisamente ‘centinaio’ = ted. Hunderte); cfr. ted. hundert ‘cento’, ingl. hundred , aisl. hundrađ, ags. e asass. hund, aat. hunt ‘cento’, lat. centum; vedi poi it. cento, sassar. tzéntu, log. kentu. Vedi anche ai. śatám, gr. ἑκατόν, lit. šimtas, asl. sŭto, toc. A känt.

Il lat. centum è proposto come *kentum, ed in tal caso sarebbe fonicamente identico alla citata voce logudorese.

Anticipo che l’arcaica base etimologica per ognuna delle voci relative al ‘100’ sta esclusivamente nella lingua egizia. In questa discussione però mi piace cominciare da alcuni fenomeni mediterranei.

1) Il sassar. tzentu si riscontra nell’eg. ṭemṭ ‘to do addition’, ‘the whole number, the result of addition, the total’, ‘in all’; ṭemṭiu ‘multitude, everybody’, ṭemṭi-t ‘a stated time, a time reckoned upon, un tempo stimato’, Ṭemṭiu ‘the entire company of the Gods’.

2) Si osservi anche l’eg. ṭemtch-t (leggi tzemč) ‘in all, altogether, total, summation’. Da questa forma egizia s’intuisce la transizione che nei secoli successivi ha portato alla sorta di metatesi tirrenica coagulatasi nell’italico cento (se vogliamo, anche sassar. tzéntu).

3) La voce log. kentu (nonché il lat. centum, se è giusta l’ipotesi della lettura *kentum) ha un perfetto riscontro nelle forme germaniche su scritte (hund, hunt ecc.), e si ritrova identica nell’eg. khentu ‘preeminence, exalted condition’; khenti ‘to advance, bring forward, promote a man to high rank’.

4) Nell’Antico Egitto, oltre al concetto evidenziato dal precedente khentu, khenti (e da decine di loro derivati che qui ometto), esisteva anche il numero noto propriamente come ‘100’, scritto con un grafema molto simile al lat. C = ‘cento’ (un geroglifico somigliante a un orecchio che si avvita leggermente a spirale con la figura della chiocciola). Si può dunque affermare che il lat. C non è originale: già nei secoli succeduti alla fondazione di Roma fu importato nel Tirreno dall’Egitto. Il geroglifico indicante 100 è pronunciato sha-t (leggi šat) in egizio: lo stesso accade nella pronuncia copta. È impossibile far finta di niente: questa fonetica egizia è la stessa che riappare nel concetto di ‘100’ ad Est della Mesopotamia: satǝm.

La quadruplice evidenza quassù annotata per il Mediterraneo e per l’Europa germanica fa saltare di colpo le fondamenta della celeberrima suddivisione centum-satǝm (kentum-šatǝm), teorizzata per le cosiddette lingue indoeuropee (anzi, indogermaniche), le quali dovrebbero avere a base una inesistente parola *kṃtóm, inventata come isoglossa della cosiddetta “famiglia indoeuropea”, da cui sarebbe partita (secondo la fantasia delle Accademie) la differenziazione delle tre consonanti dorsali “ricostruite per il proto-indoeuropeo” (si badi, sono “ricostruite”, ossia non sono mai esistite nella realtà). Queste fantomatiche consonanti ricostruite a tavolino sono *kw (labiovelare), *k (velare), *ḱ (palatoalveolare). I due termini centum-satǝm  proverrebbero, secondo le Accademie, dagli stessi concetti di “cento” di due lingue rappresentative dei due gruppi (che sono il latino centum e l’avestico satǝm), ambedue derivanti dal supposto *kṃtóm. Ovviamente, non si troverà nemmeno un indoeuropeista capace di dimostrare (di dimostrare scientificamente) com’è che in origine esistette un *k che poi si sarebbe differenziato in *kw (labiovelare), *k (velare), *ḱ (palatoalveolare) da cui – per incantesimo – si sarebbe poi originato il celeberrimo s– o š– di satǝm nelle lingue baltiche, slave, iraniana, nonché in quella propriamente ”ariana”, individuata nell’antico indiano.

Le lingue chiamate centum sono caratterizzate, come si nota, da articolazioni velari, mentre le lingue satǝm hanno «articolazioni interiorizzate (affricate palatali) o nettamente anteriori (sibilanti)». Le parole tra virgolette sono formulate dagli indoeuropeisti, i quali si guardano bene dal rendere conto, scientificamente, delle proprie affermazioni (tanto per avere informazioni iniziali, prego controllare in Internet, in Wikipedia e in tutti i libri ivi citati a nota, oltre ai libri di germanistica citati nella Bibliografia della presente opera).

Quanto alla geografia della suddivisione qui presentata dagli indoeuropeisti, le lingue centum prevalgono ad ovest (lingue germaniche, celtiche, latino, lingue romanze, greco) mentre le lingue satǝm stanno ad est, tra Eur-Asia vicino-orientale ed Asia (escluso il tocarico A e B scoperto tra Cina ed Himalaya, che è lingua centum ossia kentum).

Da quanto ho evidenziato circa le etimologie egizie, i concetti basilari sortirono tutti nella Valle del Nilo: khenti si è radicato da moltissimi millenni nel nord-Sardegna mentre sha-t seguì evidentemente la migrazione del Sapiens verso Est e riapparve dall’Iran in là. Ma resistette anche al di quà: cfr. al riguardo Šatt-al-arab, la parte terminale della Mesopotamia dove confluivano e si mischiavano il Tigri e l’Eufrate. L’idronimo non fu creato dagli Arabi 1300 anni fa ma preesisteva, essendo composto dall’eg. ša-t ‘cento’ + åri abu ‘to make a stoppage, cease’. In origine non significò “le dolcezze degli Arabi” (come bamboleggiano troppi buontemponi) ma ‘I Cento sbocchi’, ed indicava l’immenso pantano deltizio, la grande valle paludosa che consentiva a molta parte della popolazione sumerica di vivere comodamente di caccia e di pesca.

In ogni caso, il magico schema di suddivisione centum/satǝm, presentato dagli indoeuropeisti, si frantuma davanti ai loro occhi, poiché scopriamo che pure la lingua francese è ša-t/satǝm– (vedi cent: leggi sent); e nota anche la pronuncia inglese di cent. Al riguardo gli indoeuropeisti non si scompongono e dicono che l’antico francese subì il “collasso” della velare k– in sibilante s-; ma non hanno mai dimostrato la propria asserzione, ossia non sappiamo perché e come dovrebbe essersi verificato un “collasso”; essi dicono soltanto che il fenomeno delle “lingue neolatine” ha sue leggi particolari (ovviamente anch’esse inventate a tavolino per giustificare le differenze plurimillenarie tra le lingue). Qui termina ogni loro discorso.

Invero, la realtà è molto più semplice e dimostra che dall’epoca del Sapiens-Neanderthal (da almeno 200.000 anni fa) le tre versioni egizie si espansero nel Mare Nostrum, si mescolarono, si radicarono qua e là, lasciarono ovunque nel Mediterraneo singole indelebili impronte, ognuna caratterizzata dal diversificarsi delle varie tribù ex-deltizie, risalirono le antiche valli glaciali quale il Rodano, il Danubio, il Volga ecc., ed emigrarono infine oltre la Mesopotamia.

Le leggi fonetiche

Se ora osassi illustrare al lettore le restanti leggi fonetiche “indoeuropee” sarei guatato con sospetto, perché a nessuno piace essere domato a colpi di “leggi” risalenti al XIX secolo, formulate per infiorare e strutturare dei panieri allora incompleti e peraltro partigiani (panieri indogermanici, appunto, modellati in epoca di nazionalismo). Quindi non sto a molestare nessuno. Ognuno, se vuole, tanto per erudirsi, vada a scrutare quel vecchiume: la Legge di Grimm, quella di Verner, di Bartholomae, di Osthoff, di Lachmann, di Brugmann, di Grassman. Si possono trovare in Internet, accorpate dalla prof.ssa Paola Cotticelli. Quanto impegno mi costò a studiarle tra i banchi d’università, confrontandole con le grammatiche delle lingue *indoeuropee!

Soltanto adesso riconosco quant’era incompleto, dimidiato, “leopardato” il paniere dei vocabolari messi a confronto da quegli esimi pensatori, che si entusiasmarono ad agghindarli con arcigne “leggi fonetiche”. Il loro ingegno toccò l’acme (senza ironia, gli si deve il massimo rispetto), ma oggi nessuno è disposto a erigere monumenti per delle catalogazioni che – loro malgrado – sono da riformulare alla stregua degli scossoni che sto producendo mio malgrado con questa Prefazione.

LO STATO COSTRUTTO

La lingua gotica non si discosta strutturalmente dalle altre lingue mediterranee ed europee, che fondano il proprio archetipo sulle linee della grammatica accadica. Sappiamo che lo “stato costrutto” (the genitive chain) è un formidabile legante sintattico per tutte le lingue semitiche.

Il Mediterraneo è zeppo di formule contenenti lo “stato costrutto”, a cominciare dalla lingua sarda, che lo conserva in purezza in tantissimi casi, sia nei rapporti genitivi sia in quelli predicativi. Esempi: sd. mattifalada ‘con prolasso uterino’, conkimannu ‘dalla testa grande’, fustialbu ‘pioppo, ossia tronco-bianco’, cabisciaibiddàdu ‘dalla testa matta’; it. capinera ‘con la testa nera’, pettirosso ‘col petto rosso’; sud-Italia ankitortu ‘con le gambe storte’, manilestu ‘lesto di mano’; lat. armiger ‘portatore d’arma’, pontifex ‘costruttore di ponti’, oviparus ‘che genera uova’; sp. aliquebrado ‘con l’ala rotta’, cariredondo ‘dalla faccia tonda’, labihendido ‘dal labbro leporino’, ojinegro ‘di occhi neri’. E così via per decine di migliaia di casi.

Manco a dirlo, il Meyer-Lübke e lo Spitzer, misconoscendo il retaggio semitico, suppongono che tutte queste forme abbiano modelli latini di origine dotta. Al contrario, i loro colleghi Wagner e Rohlfs ipotizzano un’origine latina volgare. Fine delle loro speculazioni.

Lasciando perdere i quattro pensatori, notiamo, invero, che in accadico-assiro-babilonese, e nell’ebrico biblico, lo stato costrutto (genitive chain) è una sequenza di sostantivo reggente + sostantivo retto al genitivo. In altre parole, l’incatenamento di due parole tramite la –ī– è un arcaico sintagma che rende fluida la parlata semitica.

A ben studiare la storia grammaticale di tutte le lingue europee, ivi compreso il latino, lo “stato costrutto” torna a galla in molte occasioni. Però possiamo notare che in esse la “catena genitiva” accadica si presenta spesso logorata, ed in molte lingue ha perduto gran parte del suo formulario paradigmatico, riemergendo soltanto con dei frustuli fossilizzati.

I grammatici delle lingue *indoeuropee, non riconoscendone la base accadica, li hanno trattati in modo assai differente rispetto alla vera origine e li hanno evidenziati soltanto per via comparativa (ossia acriticamente), in moltissimi casi sorvolando sul fenomeno e spesso ignorandolo; al più, trattandolo alla stregua dei quattro pensatori su accennati.

Pertanto hanno taciuto sul got. airinon ‘sono ambasciatore, vado e vengo con ambascerie’. Il vb. gotico va scomposto, ai fini dell’etimo, in air-i-non. Per air– vai a suo luogo; –no-n ha base nell’eg. nu ‘will, thought, intention, care for something’; –i– è l’universale legante paneuropeo di stato-costrutto.

Han taciuto sull’agg. got. alewja ‘oleario’, la cui base sta in alew* mentre il suff. –ja è conforme a quello lat. in –ia, m. –ius (es. potent-ia, facund-ia), il quale non è altro che un suffisso-zero in –a, –u potenziato dal legante di stato costrutto paneuropeo –i-.

Han tacciuto sul got. auhjodus ‘tumulto, chiasso, rumore’, che ai fini dell’etimo va scisso in auh-j-odus, dove auh– si cfr. col gr. ἠχή ‘grido, suono, eco’ < sum. akkil ‘noise, clamor; chiasso, grido, lamento’ (OCE II 112); il membro –odus si cfr. col lat. audiō ‘presto l’orecchio, ascolto’, dall’akk. wadûm ‘to know’; mentre l’elemento intermedio –j– è il solito legante di stato costrutto di origine accadica.

Han taciuto sul got. manaulja ‘secondo la forma’ (Ph 2,7: in similitudinem hominum), che va scomposto in manau-l-ja; dove l’etimo di manau– si collega a manna ‘uomo’ + sum. la ‘to bind, legare’. Il composto in origine significò ‘pertinente all’uomo, relativo all’uomo’. Il suff. –ja (cfr. alew-ja ‘oleario’) è conforme a quello lat. in –ia, m. –ius (es. potent-ia, facund-ia), il quale non è altro che un suffisso-zero in –a, –u potenziato dal legante di stato costrutto paneuropeo –i-.

Han taciuto su got. wairilom ‘labbra’ (Mc 7,6: populus hic labiis me honorat ‘questa gente mi onora con le labbra’); per il cui etimo vedi wair ‘uomo’. La –i– intermedia è un relitto dello stato costrutto semitico, indicante il rapporto di dipendenza tra i componenti di una parola. L’unico referente possibile per il secondo membro (-lom) è l’akk. lêmu, la’āmum ‘to consume, eat and drink’. Grazie alla –i– di stato costrutto, interpretiamo correttamente il significato di wairilom come ‘il bere e mangiare dell’uomo’.

Han taciuto su got. waljan ‘scegliere’, verbo debole della prima classe (caratteristica –ja-). I verbi della prima classe hanno due diverse coniugazioni, come hanno due diverse declinazioni i temi nominali in –ja-, a seconda che la sillaba radicale sia lunga o breve. I verbi che hanno il tema breve presentano il suffisso alla forma gotica –ji– e si coniugano come got. waljan; i verbi che hanno il tema lungo o plurisillabico presentano il suffisso alla forma germ. –ī– (> got. –ei-) e si coniugano come got. sokjan. Si osservi che ho inserito questo capoverso per far capire come il Mastrelli abbia analizzato a suo modo i vari membri del vb. waljan.

Nulla egli ha detto, in sostanza, né sull’etimologia né sul legante –i-. L’etimo di wal-j-an ha la stessa base del lat. val-e-ō e deriva dall’akk. ba’lu ‘large, major; grande, maggiore’, Ba‘al ‘Dio sommo del Cielo’, letteralm. ‘Potentissimo’, ba’ālu ‘to be dominant, exceptionally big’; cfr. francone bald, it. baldo ‘vivace, sano’ < akk. balāṭu ‘life, vigour, good health’.

Il verbo waljan ha il preterito walida; e si può notare che pure nel preterito s’interpone la –i-. Non avviene in tutti i verbi gotici. Manca ad esempio nei verbi primari con la radice uscente in gutturale e nei verbi secondari in –atjan, i quali formano il preterito senza l’elemento –i– (got. waurhta, ed anche kaupasta pret. di kaupatjan ‘schiaffeggiare’). L’elemento –i-, come più volte sottolineato, non è altro che un fossile dello stato costrutto semitico.

ELABORAZIONE DI QUESTO DIZIONARIO

La struttura di questo Dizionario Etimologico ripercorre per metà il modello del dizionario annesso al Die Gotische Bibel di Wilhelm Streitberg (Heibelberg 1965, Carl Winter – Universitätsverlag). Per comodità espositiva, tutti i lemmi contenuti in quel dizionario sono stati da me ordinatamente riportati, affiancando ad ognuno le illustrazioni elaborate dallo stesso Streitberg. Però, sin dove possibile, ho semplificato l’apparato dello Streitberg, il quale ha il preciso scopo di fornire al lettore i dati grammaticali relativi ad ogni lemma ed inoltre indica tutte le localizzazioni dei lemmi nel corpus della Bibbia.

La pedissequa riproposizione (sia pure rivisitata) dello schema dello Streitberg ha agevolato il mio lavoro, non solo perché quel testo è fortemente didascalico nella rigorosa asciutezza espositiva, ma perché mi è sembrato la giusta base cui agganciare le mie personali elaborazioni relative all’etimologia di ogni lemma, delle quali il testo dello Streitberg era ovviamente privo.

Avverto altresì il lettore che in questo Dizionario ho elencato tutti i lemmi secondo un rigoroso ordine alfabetico: al contrario nel dizionario dello Streitberg l’ordine alfabetico viene rispettato soltanto per i lemmi-base, mentre tutti i derivati dal lemma-base gli si agganciano sequenzialmente come in un cluster (ciò accade per le numerose voci arricchite dai prefissi in af-, afar-, ana-…, ga-, us-, wiϸra-).

Salvatore Dedola

  1. Über das Conjugationssystem der Sanskrit-sprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen, persischen und germanischen Sprache, 1816.
  2. Storie I,15.
  3. Erodoto, Storie I, 103-105 (occupano l’Asia e la Palestina e marciano contro Psammetico); IV, 46,59-71,88-132; perseguitati da Dario. VI, 40.
  4. Kant, Prolegomena.
  5. Eduardo Blasco Ferrer: Paleosardo.
  6. Vedi al riguardo: Salvatore Dedola, Nuovo Dizionario Etimologico della Lingua Sarda, nonché Grammatica Storica ed Etimologica della Lingua Sarda, ambedue dell’editore Grafica del Parteolla.
  7. Tito Livio XXIII 40.
  8. A. Mastino, I Sardi Pelliti del Montiferru e del Marghine e le origini di Hampsicora, in G. Mele (ed.), Santu Lussurgiu: dalle origini alla “Grande Guerra”, vol. I. Ambiente e storia, Nuoro 2005, pp. 141-166).
  9. Vedi Giovanni Ugas, Shardana e Sardegna, Della Torre, 2016, Cagliari
  10. Vedi la mia Grammatica Storica ed Etimologica della Lingua Sarda.
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