TOMBA DEI GIGANTI
Considerate le dimensioni (alcune sono lunghe circa 30 metri), e considerati i numerosi scheletri in esse rinvenuti, per i sardi del Medioevo fu normale chiamarli gigantinos ‘tombe di giganti’. Ma il nome che fu dato dai primi costruttori 3500 anni fa, nessuno è mai stato in grado nemmeno di supporlo.
Anche qui, come per tutti i casi dove il mistero domina, è tristemente mancato un qualsiasi archeologo, un qualsiasi accademico a tentare una via d’interpretazione. E dire che esistono degli indizi talmente forti da portarci in grembo alla certezza assoluta. Infatti ci sono due elementi convergenti, i quali a saperli leggere non lasciano alcun dubbio.
Il primo elemento è proprio la sagoma del gigantino. Gli archeologi hanno sempre affermato, con sicumera, che quella sagoma porta ad affermare che la tomba collettiva fosse dedicata al Dio Toro. Fine della storia. E nel tramandarsi ciecamente e sordamente questa fola, gli archeologi non si sono mai posti il quesito perché – se la sagoma è veramente una testa di toro – l’ingresso è stato creato al centro della sua fronte anziché nel punto opposto, dove sarebbe dovuta stare (e non c’è) la bocca del toro.
Invero, basta osservare da tutti i lati la sagoma di questa tomba stupefacente, e notare lucidamente che – nonostante l’ampio frontone – l’ingresso è talmente minuscolo da obbligare il visitatore a strisciare. Chiunque dovrebbe notare che, con questo, stiamo assommando già due elementi di sospetto. Occorre infatti domandarsi perché l’ingresso di ogni altro monumento sia normale o più alto della sagoma umana eretta, mentre qua riesce a varcarlo soltanto un uomo magro e strisciante. Siamo certi che la sagoma sia una testa di toro?
Si scopre che questo monumento è stupefacente soltanto se lo si considera come l’elegantissima stilizzazione della Dea Mater Partoriente. Allora tutto torna al proprio posto. Se capovolgiamo la visione precedente e consideriamo la cosiddetta “esedra” come le gambe divaricate di una donna partoriente, allora ci rendiamo conto di quella porticina, ridotta alla proporzione esatta di una vulva che s’apre tra le gambe per fare uscire il feto. Quel monumento è l’emblema della metempsicosi.
Ora veniamo al secondo elemento chiarificatore, che è la grande stele piatta e centinata posta al centro dell’esedra, alla cui base s’apre la porta-vagina. Essa, nel centro-nord Sardegna, è chiamata lada, ed i soliti “interpreti”, convinti che l’intero scibile sardo sia integralmente derivato dall’Urbe, traducono dal latino lata ‘larga, ampia’. Questi signori, ignari dell’esistenza di tanti altri dizionari mediterranei, tengono lo sguardo fisso alla loro stella polare, all’Urbe. Nient’altro. Così rinunciando, immiseriscono il pensiero degli antichi padri. Infatti queste tombe nacquero almeno seicento anni prima della nascita delle prime capanne sul Palatino, quando l’Urbe stava ancora in mente Dei. È mai possibile che lada derivi dal latino?
In verità, ritroviamo la parola nell’assiro (w)alādu, ulādu ‘to give birth (to), generare, partorire’. Considerata l’importanza dei gigantini, la Sardegna conserva persino il cognome Ladu, un arcaico nome muliebre che rievoca la Dea Mater Universalis che dà la vita.
Ovvio che il convergere della sagoma, del nome della stele, nonché lo stesso cognome, non può che confermare la dedica dei gigantini alla Generatrice dell’Universo. Che poi, vista a rovescio, la tomba dei giganti si configuri anche come la sagoma di una testa di toro, ciò non fa altro che confermare l’estrema perizia “calligrafica” che indusse i costruttori nuragici a rappresentare coi gigantini il simbolo mediterraneo dello Yin/Yang, dove converge l’eterna fusione del maschile e del femminile.