I MONUMENTI DELLA SARDEGNA ANTICA

PERDA FITTA

Essendo possibile restituire il nome originario ad ogni monumento sacro del vasto mondo archeologico della Sardegna, siamo ovviamente in grado di restituire il nome a sa perda fitta (‘pietra infissa’ a terra), nell’occidente europeo chiamata menhir (modern welsh ‘long stone’), bètilo nel Vicino Oriente (ebr. betEl ‘casa di Dio’). Il bètilo o menhir è la più antica forma che, agli occhi del semita, poteva esprimere la divinità: una scultura aniconica, come si deduce dal testo biblico ove si narra del betilo in forma di cippo che Giacobbe ricavò dalla pietra da lui usata come capezzale. Nella storia biblica di Giacobbe betEl è appunto il nome del luogo sacro rivelatosi casa di Dio e contrassegnato da un cippo. Come in Sardegna, dov’è sopravvissuto il toponimo Betilli in agro di Sàdali. La grande isola al centro del Mediterraneo un tempo aveva non meno di 10000 betili, stando all’enorme quantità rinvenuta (e subito sepolta o distrutta, per paura dei crudeli stop della Sovrintendenza Archeologica) durante la Riforma Agropastorale di circa 50 anni fa, la quale comportò vastissimi sbancamenti e scarificazioni in tutta la Sardegna1.

Ovviamente, per questa ingombrante e arcaica presenza in Sardegna non si può parlare di accatto levantino, e nemmeno occidentale (nonostante la grande quantità di menhirs dell’Europa franco-anglo-brettone, la cui densità per area rimane peraltro inferiore, confrontata a quella sarda …che però non è documentata ufficialmente). Il fenomeno fu pan-europeo, pan-mediterraneo, africano, e anche sud-americano (vedi, in Colombia, El Infiernito). È impossibile stabilire un focus originario, checché ne dicano certi accademici dell’Università di Cagliari, pronamente e pregiudizialmente innamorati dell’origine occidentale della cultura sarda. Parimenti taccio degli accademici “succubi” dell’origine levantina.

Nell’antichissima città fenicia di Biblos c’era una pletora di bétili, stando agli scavi. Ci furono ugualmente del bétili nella città cananea di Hazor (Galilea superiore), citata più volte tra le città conquistate dai faraoni del Nuovo Regno come Tutmosi III (XV sec.), Amenhotep IV (XIV sec.) e Seti I (XIII sec.). Hazor era già comparsa alla storia nei testi di esecrazione egizi e nelle tavolette di Mari (XVIII sec. a.e.v.). Ma le citazioni più esaurienti sono le lettere di Tell el-Amarna, nelle quali Hazor chiede aiuto al Faraone contro i Khabiru (Ebrei), i fuoriusciti che creavano gravi disordini e attentavano alla libertà di diversi centri dell’area. Hazor raggiunse il massimo sviluppo nel Bronzo Medio, mantenendo inalterata la sua fisionomia sino al XII sec. a.e.v. Vi si trova il Tempio degli Ortostati, caratterizzato dal rivestimento interno in pietre ben squadrate. Ma Hazor ha principalmente un piccolo Tempio delle Stele, costruito alla fine del Bronzo Tardo (1300 a.e.v.) dove si è conservata la statua di culto assieme a 17 stele votive (altezza da 27 a 65 cm) all’interno della nicchia circolare ricavata nel muro di fondo dell’unico ambiente. Esse ricordano le stele votive fenicie, es. quelle di Cartagine.

Anche a Gezer (Israele) si trovarono, nel sito alto, numerose piccole stele, in un luogo del tutto aperto (senza tetto).

Sappiamo che a Palmyra si adoravano anche i betili, pietre ritenute sedi delle divinità, che venivano portati in processione. La quale richiama la processione dei phálloi in Atene nonché la sempreviva processione dei Candelieri a Sàssari, sebbene gli uni e gli altri fossero (ed in Sardegna siano) di legno.

In Egitto i templi uranici erano numerosi. Erano templi solari che avevano come elemento principale un obelisco su una piattaforma, simbolo del dio-Sole. Gli obelischi (parola greca), dagli Egizi detti ṭekhenu, cominciarono a essere costruiti durante la V Dinastia (quella eliopolitana, intorno al 2300 a.e.v., ossia dopo la nascita dei rozzi menhirs sparsi nel resto del mondo), divenendo usuali nel Medio Regno e specialmente nel Nuovo Regno.

All’obelisco è connaturato il Benben, il quale nella mitologia egizia, più specificamente nella cosmogonia di Eliόpolis, era la collina primigenia ch’emerse dall’oceano primordiale del Nun, e sulla quale il dio creatore Atum (il Sole) generò se stesso e la prima coppia divina. Nei Testi delle piramidi (linea 1587) si fa riferimento ad Atum stesso come “collina”: si dice che si trasformò in una piccola piramide, situata in Annu, il luogo ove si diceva risiedesse.

Benben potrebbe significare “il radiante” (riferito al Sole), ed era una pietra sacra conica venerata nel tempio solare di Eliopoli sulla “collina di sabbia” del tempio ove il dio primevo si era manifestato e nel luogo dove cadevano i primi raggi del sole nascente. Il medesimo culto era celebrato anche a Napata e nell’oasi di Siwa ove la pietra conica fu, in epoca tarda, paragonata a un “umbilicus”. Si ricollegava comunque sempre al dio creatore, e nella mitologia elaborata dal clero eliopolitano “rappresentava senza dubbio un raggio di sole” (Gardiner). Non possiamo trascurare la somiglianza tra l’egizio ben (raddoppiato in ben-ben) e l’anglosass. beam ‘raggio di sole’.

Attualmente il sito sardo più ricco di menhirs è Pranu Mutteḍḍu o Muttédu, agro di Goni, area piana coperta da un bosco di sughere, dove c’è un insediamento prenuragico tra i più belli e interessanti della Sardegna, caratterizzato da una grande cista interamente scavata nella roccia attraverso il foro originario costituente la porticina. La cista, alta circa 1.5 m, sta al centro di un grande circolo solare delimitato da ortostati, accanto al quale si dipana una lunga fila di menhirs aniconici, sagomati a martellina ed orientati in linea est-ovest.

Si è sempre interpretato Pranu Mutteddu come ‘il piano del mirteto’, dal camp. mutta ‘mirto’. Ma in tutta la contrada è impossibile rintracciare il mirto; questo sito è uno dei pochi dove la foresta si è conservata pressoché intatta. Dunque si sarebbe dovuto nominare Pranu Suérgiu ‘piana delle sughere’. Mutteddu ha base etimologica nel babilonese mu(t)tellu ‘nobile, principesco’ e Pranu Mutteddu significò ‘Piano dei principi’. Va da sé che ogni menhir fu infisso a memoria di ogni capotribù morto.

A ben vedere, sinora a sostegno del nome originario della perda fitta abbiamo offerto soltanto il toponimo Betilli, il che è poca cosa.

Numerosi betili o menhirs iconici sono stati ritrovati nel Sarcidano (triangolo Ìsili-Láconi-Nuralláo). Uno dei siti, in agro di Láconi, è chiamato Perda Iḍḍocca. Il toponimo ha base etimologica nel bab. illukku (a precious stone, una pietra venerata, di alto pregio). Questo aggettivale c’informa di quanto fossero preziosi i menhirs presso gl’indigeni che li edificarono. Ma abbiamo dei nomi sempre più precisi.

Bànari è nome di un villaggio del Logudòro, base etimologica nel sum. ba ‘fare doni’ + na ‘stele’ + ri ‘ficcata, infissa’; significato d’origine ‘perda fitta che fa le grazie’. Credo si debba partire da tale definizione per ammettere che sa perda fitta non fu un mero infisso ad memoriam (ad esempio, la memoria di un morto) ma fu un monumento attivo che interagiva col popolo, capace di fare miracoli al pari di tutte le altre forme o statue con le quali il popolo volle esprimere visivamente l’idea di Dio. Stando a quanto va emergendo dalle ultime risistemazioni del pensiero archeologico, i menhirs potrebbero essere retrodatati persino al 7000 a.e.v. Se così fosse, la Sardegna, che ne ospitò a dir poco 10.000 (poi quasi tutti spezzati o sepolti dopo la rotta inflitta ai Barbaricini da Zabarda), ebbe nei menhirs i più longevi monumenti cultuali della propria storia. Nell’Europa occidentale, dove oggi sopravvive il maggior numero di menhirs, non vi fu alcun Zabarda a sottomettere e umiliare un intero popolo, abbattendo migliaia di pietre sacre.

In sassarese cannagùru indica il ‘retto’, la ‘parte d’intestino cessante nello sfintere anale’. Ma abbiamo fortissimi sospetti che questa parola sia un contrappasso imposto in Sardegna dai preti bizantini. La voce infatti ha l’equivalente nel bab. ḫannaḫuru (a stone). Poiché le ‘pietre’ in area babilonese furono delle cose molto preziose, considerato che la vastissima pianura alluvionale era priva di banchi rocciosi, la ‘pietra’ per antonomasia fu quella eretta a fini sacri: era il menhir. Va da sé che questo termine, sardiano oltreché babilonese, fu usato in Sardegna da tempo immemorabile. Il clero bizantino, nella foga iconoclasta volta a distruggere e delegittimare ogni statua o menhir nonché ogni riferimento alle religioni del passato, avrà avuto buon gioco a delegittimare i rituali legati ai menhirs, vivissimi in Sardegna, considerate le decine di migliaia di esemplari; la delegittimazione fece costante riferimento alla similare parola ḫanāquru ‘retto’ per assimilare e obnubilare l’uso di ḫannaḫuru ‘menhir’, identificandolo nella ‘canna del culo’.

Un altro termine sub-zonale per indicare il menhir lo ritroviamo nel cognome medievale Cappella, scritto in CSMB 13, che pare di origine sardiana, con base nell’akk. qāpu (a stone item) + ellu ‘(ritualmente) puro, sacro’, col significato di ‘pietra sacra’ (riferito ai menhirs). Esiste anche il cognome Capellu.

Capiali è cognome, originario termine sardiano basato sull’accadico qāpu (a stone item) + alû ‘bull of heaven’ (figura mitica, Dio) < sum. alu ‘montone’. Capiáli fu, a mio avviso, un classico epiteto del Dio dell’Universo, con riferimento alle pietre sacre della Sardegna (menhirs, perdas fittas), evidentemente citate anche col nome di ‘pietra-toro celeste’ (stato costrutto qāpi-alû), per l’evidente riferimento della figura al sacro fallo inseminatore della Natura e della Donna. Ricordo che le donne sarde, sino a 70 anni fa, si recavano presso i menhirs e ci sfregavano contro la vulva, imitando il coito al fine di avere garanzia sulle prossime gravidanze (Lilliu).

Cappeddu è un altro cognome simile a Capiali, con base nell’akk. qāpu (a stone item) + ellu ‘(ritualmente) puro, sacro’: significò ‘pietra sacra’ (riferito ai menhirs).

Capponi è un altro cognome, avente a base l’accadico qāpu (a stone item) + sum. unu ‘la parte più sacra di un tempio’, col significato di ‘menhir del sancta sanctorum’. È risaputo che nei templi fenici i menhirs erano adorati nella parte più sacra del tempio (normalmente si trattava di un tempio uranico). Ciò è noto, ad esempio, nel tempio maggiore di Biblos. Per quanto riguarda la Sardegna, evidentemente questo genere di menhir era destinato a stare entro il recinto sacro.

Capùtu, Capùta (+ i similari cognomi italiani) è termine sacro mediterraneo, con base nell’akk. qāpu (a stone item) + Utu (Uttu, la dea sumerica dei telai, della tessitura, della casa). Il significato sintetico fu ‘menhir di Uttu’, a indicare la pietra infissa che dovette rappresentare – al pari di quelle successive dedicate alla dea Ishtar – il sacro Fallo, dedicato alla Dea dell’Universo, colei che determina la nascita delle creature e lo sviluppo della Natura.

Cossìga è cognome sardo di formazione antichissima, avente base etimologica nell’akk. ḫusīgu (a stone). La riprova di ciò è nel cgn Cossighéḍḍu (infra).

Cossighéddu cognome avente base nell’accadico ellu indicante qualcosa di ‘puro, limpido, pulito’ riferito alla ritualità. Quindi, poiché Cossìga significò una ‘pietra’ non meglio identificata, è chiaro che Cossigh-éḍḍu significa la ‘pietra sacra’, ossia sa perda fitta.

Ollósu è cognome sardo che fu un epiteto sacro sardiano, con base nell’akk. ullu (un toro) + ušû (a hard stone). Sembra di capire che denominasse sa perda fitta, il menhir, col significato di ‘pietra del Toro’, riferita al Dio fecondatore dell’Universo.

Rana è cognome sardo, espanso anche in Italia, che in origine indicò sa perda fitta, la stele, il menhir, dal sum. ra ‘puro, limpido, sacro’ (vedi il dio egizio Ra) + na ‘stele, pietra’, col significato di ‘pietra santa’.

Ranedda, Ragnedda è cognome della Gallùra, variante esplicativa del cgn Rana, del quale, con l’aggiunta di –eḍḍa < accadico ellu ‘(ritualmente) puro’, si è voluto precisare il carattere di santità, col significato di ‘Stele sacra e santa’.

Renna è cognome che fu termine sacro sardiano, con base nel sum. ri ‘ficcare al suolo’, ‘piantare al suolo’ + na ‘pietra (fitta)’, col significato di ‘stele confinaria’ o ‘stele commemorativa’ o ‘stele miliaria’.

Saccheddu è cognome già presente nel CSMB come Sakellu. Base nell’accadico saḫḫû ‘(un tipo di pietra) + ellu ‘(ritualmente) puro, sacro’, col significato di ‘pietra sacra’ (il riferimento è sempre a sas perdas fittas).

1 La mia testimonianza è diretta in relazione a qualche menhir rovesciato e rotto, scoperto in virtù del mio lungo girovagare per le montagne. Uno di questi – incontestabilmente un menhir – sta nell’agro di Goni, spezzato in tre monconi, ed è lungo 9 metri. Sono più corpose le testimonianze, che ho ricevuto da molti testimoni diretti, le quali accentuano la convinzione della gran quantità di menhirs presenti in Sardegna… negata ovviamente dagli archeologi. Peraltro gli archeologi non tengono conto nemmeno delle notizie certe, rilevabili dalle Lettere di Gregorio Magno, es. dalla lettera siglata IV, 27, mandata nel maggio 594 ad Ospitone re dei Barbaricini, in cui lamenta che i Sardi adorano ligna et lapides. Ciò vuol dire che i menhirs in Sardegna non erano le poche decine oggi identificate. Stesso fenomeno Gregorio lamenta per i Còrsi (157: ligna et lapides colere non debent) e per gli Angli (158: in cultu lignorum ac lapidum). È proprio grazie a Gregorio che sappiamo della distruzione dei menhirs voluta da Ospitone per salvare il suo popolo dalla persecuzione di Zabarda e della soldataglia bizantina.

Quante migliaia ne furono distrutti in Sardegna? È fortemente drammatica, al riguardo, la notizia che qui riporto, su almeno 10000 menhir eretti in Sardegna. Come posso diversamente interpretare le testimonianze dirette e indirette, da me recepite circa 40 anni or sono dai tecnici galluresi preposti alla Riforma Agropastorale? Mi parlarono di migliaia di menhir rotti e risepolti nella sola Gallura!

Peraltro è noto che il concilio di Nantes nel 658 ordinò che i menhir, ovunque si trovassero per l’Europa, venissero interrati in profondi fossati e che su di essi fossero erette delle cappelle votive.

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