EDUARDO BLASCO FERRER E LA PRETESA DIPENDENZA DEL PALEOSARDO DAL PALEOBASCO

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In questo Capitolo intendo dare un contributo alla ricerca sulla lingua sarda arcaica, impegnandomi a commentare alcune affermazioni e procedimenti di Eduardo Blasco Ferrer, rilevati dalla sua opera Paleosardo. Appunterò l’attenzione su certi assunti piuttosto rilevanti e tratterò, secondo la sequenza del loro apparire, tutte le etimologie da lui proposte, poiché esse mostrano d’avere un impatto considerevole sullo stato della ricerca etimologica, tale da stimolare un dibattito a più voci, capace di riattivare gli studi sardi e di richiamare il mondo scientifico internazionale all’esercizio della critica nello studio delle relazioni inter-mediterranee dell’alta antichità.

1. Il sostrato

 

Per la Sardegna, quella del sostrato è un’annosa questione, anzi secolare, visto che è dal 1882 (da quando Graziadio Isaia Ascoli la teorizzò per la generalità delle lingue) che tiene banco nelle Università. Eduardo Blasco Ferrer se ne fa interessato portavoce, e a pag. 1 del libro Paleosardo esordisce fin dalla prima battuta: «In Linguistica il termine Sostrato (da sub-strātum ‘sotto lo strato’) si riferisce agli elementi trasmessi dalla lingua autoctona d’una comunità a una seconda lingua, che per varie cause storiche o culturali s’è affermata nel territorio della prima. Nel lungo processo di sostituzione, che conduce alla sua estinzione, la lingua di sostrato produce dei mutamenti nelle strutture della lingua dominante, i quali rappresenteranno successivamente le spie della sua presenza, una volta estinta».

Da una serie di considerazioni, che fa seguire al primo assunto, EBF si dice convinto che la Sardegna abbia avuto certamente un sostrato, ma che esso sia pressochè sparito. E così a p. 2 sostiene che «Dopo la terza generazione [dall’intervento di un conquistatore apportatore di una nuova lingua] la lingua di sostrato sarà diventata una vera lingua straniera, di cui resteranno poche strutture vitali nell’uso o fossilizzate nei nomi di luogo e di persona».

Egli prosegue nel proprio argomentare, ripetendo a un dipresso quanto un normale linguista tiene in serbo per esaurire un argomento propedeutico, introdotto come abbrivio per condurre poi nel bel mezzo del canovaccio dove ha già meditato d’inserire e sistemare il tema di fondo: che in questo caso è il Paleosardo (o Protosardo, o Sardo Arcaico).

Ma il testo di EBF non procede secondo i canoni attesi, e pagina su pagina, qua e là, sin dalla prima parola, lancia degli eclats preparatori, dei legami oratori apparentemente tessuti con nonchalance, al fine di tramare una ben confezionata camicia che fa indossare infine con un gesto da maestro. Capiremo presto che EBF ha una convinzione peculiare circa il sostrato della Sardegna, il quale non è affatto la lingua autoctona, quella più antica dell’Isola ma… la ligua basca.

Un lettore attento non avrà difficoltà a seguire EBF per tutte le 163 pagine del suo libro e constatare ch’egli attizza tale convinzione pagina su pagina, nell’urgenza di esprimere una scoperta enorme, ossia che nella lingua sarda s’acclarano nient’altro che due strati colonizzatori: il basco o protosardo (con un po’ d’ispanico) e successivamente il latino.

Il lettore vorrà chiedersi a questo punto cosa sia avvenuto del vero sostrato, quello che denota l’autoctonia primitiva, insomma quello esistito prima dell’invasione basca. Nessuna risposta esplicita. Ma possiamo scusare EBF,comprendendo che ad uno studioso non si possono domandare delucidazioni a ogni pie’ sospinto. Egli, evidentemente, la pensa un po’ come Max Leopold Wagner, il quale per tutta la sua vasta opera sostenne ex silentio la tesi che il sardo pre-latino non era da indagare perché inadatto a essere studiato, data la sua assoluta inesprimibilità. EBF fa lo stesso, ma sospinge i tempi più addietro, e c’induce, ex silentio, a credere che quello stato di ferina inesprimibilità del sardo primitivo possa retrocedersi a età anteriore all’invasione basca, ossia all’inizio del Paleolitico. Questa, però, a scrutarla bene, è già una petizione di principio. EBF trascina con essa pure una seconda petizione di principio, ossia che il linguaggio umano nacque sui Pirenei e da lì conquistò i Sardi, i quali prima di allora non avevano ancora intuito come articolare la lingua in fonemi espressivi: essi vivevano allo stato animale.

Queste due petizioni di principio trascinano con sé una conclusione ovvia: che il sostrato, quello che un popolo parlava prima della soppressione della propria lingua ad opera dei conquistatori, in Sardegna non esistette affatto. Ecco la magia comunicativa di Blasco Ferrer: Il sostrato della storia linguistica della Sardegna comincia – semplicemente – con la lingua basca, che è “la vera lingua delle origini”. E tanto per sottilizzare la concettualizzazione, EBF chiama Paleobasco ciò che io al suo posto avrei chiamato Basco. Tutto qui. È questo il sostrato, da cui egli prende le mosse per dimostrare che la lingua sarda ebbe avvio con l’arrivo dei (Paleo)Baschi, mentre prima – evidentemente – gl’indigeni comunicavano ancora come le bertucce di Gibilterra.

Mi rendo conto che per rispondere adeguatamente a EBF e confutare i suoi (troppo pochi) esempi circa le convinzioni sul “sostrato”… basco(sardo) ci vorrebbe un libro. Ma è pur vero che, se il plinto non è di pietra ma di sabbia, l’edificio cadrà presto da solo.

Intanto, non sembri scandaloso se, in concordanza con EBF, riconosco anch’io che la Sardegna non ha mai avuto alcun sostrato linguistico. Dico bene: non ebbe mai alcun sostrato!

La Sardegna – forse l’unico paese al mondo – non ha avuto alcun sostrato. La causa è una soltanto, ed è di una semplicità persino puerile. La Sardegna non ebbe sostrato perché, da quando l’uomo inventò il linguaggio (forse prima del Paleolitico), i Sardi hanno parlato, e parlano ancora, la medesima lingua delle origini. Non l’hanno mai mutuata con nessun’altra lingua (almeno al 60%). Se ciò è vero – com’è vero – come si può parlare di sostrato? Quel restante 40%, da suddividere tra latino, italico, catalano e ispanico (questi due dalla fine del Medioevo), è sopravvenuto storicamente dopo la fissazione dello “zoccolo duro”. Ma quanto resta – ecco la divergenza tra me ed EBF – di basco non contiene proprio niente.

Questo libro di Toponomastica è il quinto che scrivo sulle Origini della lingua sarda, e in tutti i libri ho ampiamente spiegato tale fenomeno, che sembra strabiliante, e invece è di una chiarezza solare. In questo stesso libro (al Capitolo 1°, § 1.p e passim) dò le più ampie prove della mia affermazione. Quindi rimando a tale Capitolo.

Prima di chiudere il paragrafo, debbo giocoforza sfiorare i concetti di Periindoeuropeo (o Mediterraneo) e Paleoindoeuropeo (vedi EBF, Paleosardo 27-30 e passim).

2. Periindoeuropeo, Paleoindoeuropeo

 

È così viscerale la contrarietà dei filologi romanzi e degli indoeuropeisti ad immischiarsi con le lingue semitiche, che nei loro meticolosi distinguo hanno persino coniato i due termini Periindoeuropeo e Paleoindoeuropeo, utili ad escludere in partenza ogni e qualsiasi compromissione delle lingue da loro studiate con quelle ch’essi non intendono affatto studiare: le lingue semitiche.

Affinchè si percepisca l’esplosiva insostenibilità di questo assurdo metodo d’indagine della “Scuola Tedesca” e del lunghissimo codazzo dei suoii fedelissimi, è obbligo tratteggiare, sia pure in sunto, quanto EBF ha da dire a proposito dei due termini a lui cari (P 27-29). «Le aree situate ai margini dell’Indoeuropeo, concentrate soprattutto nel bacino mediterraneo, dalla Palestina alla Penisola Iberica, hanno attratto ben presto l’attenzione dei comparatisti a causa della vasta ricorrenza di termini e nomi di luogo che sembrano sfuggire a una possibile collocazione indoeuropea. La concezione del cosiddetto Sostrato mediterraneo va addebitata unanimemente allo studioso italiano Francesco Ribezzo, che attorno agli anni Venti del secolo scorso inaugurò il metodo di raccolta e tipizzazione delle spie preindoeuropee mediterranee, consistente nell’individuazione di radici e soprattutto di suffissi caratterizzanti in modo univoco il lessico e la toponomastica d’una vasta area, che secondo lui rappresentava:

“una unità etno-linguistica, e certo in parte anche etnica e culturale, delle popolazioni delle grandi penisole mediterranee nel periodo che precedette la discesa degli Indoeuropei”.

L’idea di una continuità etnico-linguistica ha influenzato pensiero e metodo d’una intera scuola sostratista italiana nel corso della prima metà del Novecento, comprendente figure di primo piano nell’ambito della Glottologia: Alfredo Trombetti, Vittorio Bertoldi, Giovanni Alessio, Benvenuto Terracini, Giandomenico Serra, Carlo Battisti e Giacomo Devoto…

… A metà degli anni Sessanta del secolo scorso il concetto di Periindoeuropeo entra in collisione con quello già esaminato di Paleo(indo)europeo, e non sono poche le radici che si contendono da allora la cittadinanza nel primo o nel secondo sostrato…

… La stessa dicotomia, tra afferenza all’enigmatico sostrato periindoeuropeo e appartenenza al ricostruito Paleoindoeuropeo, la ritroviamo nella coppia *Mara ‘palude, acqua stagnante’ e *Mori (con vocalismo indoeuropeo) ‘mare’, che ha dato vita a due serie, in principio fonologicamente e semanticamente inconciliabili».

EBF fa seguire una serie di lemmi indoeuropei indicanti il ‘mare’, molto simili all’egizio mr ‘lago, stagno’, che però ritiene incompatibili per una serie di ragionamenti con i quali egli giunge (ex silentio!) alla conclusione che l’arrivo degli Indoeuropei fu una catastrofe talmente polverizzatrice da aver fatto sparire tutto il pregresso strato semitico (o semitico-camitico).

A EBF non interessa affatto sapere che, invece, nella stessa Cartagine, tre secoli dopo la “radicale romanizzazione”, il popolo parlava ancora – ed esclusivamente – il fenicio-punico (Vedi Apuleio, De Magia). A EBF non importa sapere che le parlate semitiche non svanirono nemmeno con la conquista araba, poichè tale evento fece soltanto prevalere certi “dialetti” rispetto agli altri, visto che pure la lingua araba è semitica. Inoltre è risaputo che gli Ebrei della Diaspora avevano occupato in massa proprio le regioni a parlata semitica: quindi anche Cartagine, ed anche la Sardegna. Insomma, EBF non si è accorto che, grazie agli Arabi (e grazie agli Ebrei), il semitico non ha mai smesso di essere parlato in tutte le aree dov’era già parlato 2-3000 anni prima dell’Era volgare. Inoltre, EBF sa molto poco della “romanizzazione” della Sardegna e delle ragioni per cui i Romani s’impossessarono (soltanto) delle coste e delle città. Egli forse ignora che la Sardegna è al 70% montagnosa, e che al tempo dei Romani su quelle montagne (sul 70% dell’isola) vivevano in pace i Barbaricini, allora detti Ilienses (ma più sotto vedremo che i due etimi hanno basi semantiche identiche), i quali parlavano “semitico” e tramandarono fino ad oggi tale parlata, che resta ancora vivissima in tutta l’isola.

Quindi dove si vuole parare col Periindoeuropeo e col Paleoindoeuropeo? a combinare altri guai?

Il libro Paleosardo è zeppo di questi guai, dai quali EBF non vuole affatto districarsi, anzi ci sguazza come una lontra. Non è possibile tentare di raddrizzare le sue molte affermazioni, che piovono come grandine e disperderebbero il mio libro, mirato alla sintesi. Si può soltanto andare al sodo, cominciando da pag. 89 (dove intanto EBF porta a riepilogo tutte le sue credenze), e in tal modo seguire passo passo le sue “dimostrazioni”, per evidenziare l’inconsistenza di ogni etimologia proposta.

Ma preliminarmente è obbligatorio trattare certi assiomi che EBF (sempre ex silentio!) dà per consolidati e accettati dalle Accademie internazionali, mentre essi s’appalesano come uno dei tanti disastri combinati dai filologi romanzi. E così scopriamo ch’egli tratta certi lemmi con nonchalance, seguendo i solito luoghi comuni, poiché intanto ha la sicurezza che sulla questione l’intera “Scuola tedesca” è al suo fianco, monoliticamente. Faccio un esempio: EBF considera “neosardo” il log. ábbila, poiché (a suo giudizio) deriverebbe dal lat. aquila. Mentre, sempre a suo dire, il camp. ákkili ‘aquila’ “non può derivare dal latino per difficoltà fonetiche e quindi è paleosardo o nuragico” (sic!). Vedi qui appresso (§ 2.3) la discussione e l’etimo.

3. Lautverschiebung (K, B > P, B?)

 

Sembrerebbe che nella lingua sarda esista una Rotazione Consonantica (Lautverschiebung) del genere di quanto accadde per l’Armeno, per l’Alto tedesco e principalmente per il Germanico tra le lingue indoeuropee. Essa sarebbe cominciata, per il Germanico, nel V secolo a.e.v. e si sarebbe conclusa tra il IV e il II secolo. Quella germanica è nota come legge di Rask-Grimm e viene indicata come la “Prima rotazione consonantica”, in virtù della quale nel germanico comune le occlusive sorde indoeuropee diventano spiranti (fricative) sorde, le occlusive sonore diventano sorde e le occlusive sonore aspirate perdono l’aspirazione. Una complicazione di tale fenomeno si chiama “legge di Verner”.

Il consonantismo armeno si dimostra profondamente innovativo all’interno del sistema delle occlusive rispetto all’indoeuropeo comune. La rotazione consonantica armena sconvolge radicalmente tutto l’apparato delle occlusive in maniera simile alle rotazioni consonantiche germaniche, ma presentando notevoli differenze, che non stiamo a vedere.

Un fenomeno del genere esiste pure nella famiglia delle lingue celtiche, la quale può essere suddivisa in due rami principali: il celtico Q e il celtico P. Il primo comprende il gruppo dei dialetti gaelici (irlandese e scozzese) in cui il gruppo indoeuropeo /kw/ si trasformò in /ku/ (k, c); questi dialetti sono anche designati col nome di lingue goideliche e costituiscono il ramo più antico, presumendosi che fosse una forma di celtico-Q quella parlata dai primi Celti che penetrarono nella penisola iberica. Il secondo gruppo comprende i dialetti gallici, e ad esso appartiene, oltre ai dialetti del continente, la lingua degli abitanti del Galles e della Britannia. Questo secondo gruppo infatti cambiò il /kw/ in /p/.

Come si può notare, un po’ tutta l’Europa arcaica (e pure l’Armenia) ebbe a che fare con la Lautverschiebung. Anche la lingua sarda sembrerebbe avere la sua brava rotazione consonantica: è la celebre resa del K, Ĝ > P, B nel nord-centro isolano. La quale, però, manifesta tali e tante variabili (es. lenizioni ĝ > u), da cantone a cantone, da paese a paese, che nessun linguista si è mai azzardato a formulare una precisa legge fonetica, ipotizzando però che la tendenza, sempre in atto, sia un fenomeno tutto sommato recente (vedi M.L. Wagner: Fonetica storica del sardo, § 374 sgg.).

La trattazione fatta dal Wagner sembra avere acquetato i linguisti, che non paiono interessati a ulteriori approfondimenti. E così, di fronte a Massimo Pittau che propende a vedere nel fenomeno sardo qualcosa di ancestrale, EBF, in Paleosardo 54, convinto di essere nel giusto (e sentendosi protetto dalla comunità accademica), corregge Pittau in modo perentorio affermando: «Accade così che voci inconfutabilmente derivate dal latino vengano incredibilmente imputate a un misterioso sostrato etrusco-lidio, soltanto perché presentano, nei dialetti sardi neolatini, qualche sviluppo irregolare (analogico o dovuto a interferenza coi superstrati), come nel caso dei termini sardi per esprimere il significato di ‘aquila’: “log. ábbila, che è neosardo, in quanto deriva regolarmente da lat. aquila […] e camp. ákkili, il quale non può derivare dal latino per difficoltà fonetiche e quindi è paleosardo o nuragico” (Pittau)».

E così, di fronte a un Pittau che almeno tenta di approfondire il campo d’indagine, s’erge Blasco Ferrer a bacchettarlo in nome di una ricerca ormai conclusa, direi sepolta, ancorata orgogliosamente (o disperatamente?) a famigerati superstrati, poiché sinora nessun linguista è riuscito a venire a capo del fenomeno, e si preferisce tenere intatto il sigillo tombale apposto dal Wagner.

In realtà la faccenda merita attenzione, poiché in essa entra in gioco pesantemente, tanto da stravolgerne la problematica, l’antico semitico. E scopriamo che persino l’ingl. goose ‘oca’ ha la base etimologica nell’akk. ūsu(m), us’um ‘oca’ < sum. usim ‘bird’.

A questa problematica non si sottrae neppure la lingua greca, la quale presenta qualche velata sopravvivenza semitica del fenomeno, quale Penélope (Πηνελόπεια), nome muliebre che è aggettivale di πηνέλοψ, indicante la bellissima ‘anatra mandarina’ (Aix galericulata), resa stanziale per sfruttarne lo straordinario piumaggio. Va da sé che Πηνέλοψ non ha alcun rapporto col gr. πήνη, -ης ‘filo’ (v. lat. pannus); pl. ‘tessuti, tappeti’, quindi non richiama affatto il celebre episodio del tessere-disfare di Penélope mirato a rinviare la decisione del nuovo matrimonio. Πηνέ-λοψ (Pene-lops) si può ricostruire soltanto partendo dal gr. χήν, χάν, lat. (h)anser, scr. hamśā, aat. gans ‘oca’ (con successiva normale labializzazione della velare), che ha la base etimologica nell’akk. ḫammu ‘stagno’ + lūqu ‘(stato di) ostaggio’: ḫammu-lūqu, e sembra alludere proprio all’oca-ostaggio, all’oca addomesticata allevata allo stato brado negli stagni. Ma poichè l’oca mandarina ama fare il nido, finchè possibile, nelle cavità degli alberi limitrofi agli stagni, è propabile che sia avvenuta la fusione tra i termini accadici lūqu ‘(stato di) ostaggio’ e uppu ‘cavità’: quindi *ḫammu-luppu.

Come s’inserisce la lingua sarda nel complesso fenomeno della Lautverschiebung Euro-Mediterraneo-Semitica? Ebbene, per capirlo basta scrutare le etimologie di una serie di vocaboli, e trarne le dovute conseguenze.

È preliminare notare intanto la falsità dell’asserzione che già nel Medioevo in Sardegna si usasse, secondo le aree linguistiche, la –q– e la –k– come equivalente di –p-. Il fenomeno in Sardegna non si è appalesato con siffatte procedure né a quei tempi. Esistette invece un fenomeno ampiamente mediterraneo, che coinvolse però da una parte le lingue indoeuropee e germaniche, le quali poterono verificare questa differenziazione anche nella lingua celtica, e dall’altra coinvolse le lingue sumero-accadico-sarda (sistema semitico). Laddove i Latini ed i Greci utilizzavano per proprio conto una –q– o –k-, essa talora poteva avere tra gli Accadi-Sardi una corrispondente –p-, ma per altre ragioni. In ogni modo, c’è da fare un’avvertenza: la velare sarda k, ĝ, che M.L.Wagner fa derivare dal lat. c, g, in realtà preesistette per proprio conto nella lingua sardiana: essa apparteneva al sistema sumero-accadico-sardo (k, ĝ, ).

Possiamo addirittura annotare, a sostegno di questa certezza scientifica, che è dalle leggi fonetiche del Sardo Attuale che i linguisti hanno derivato le leggi fonetiche latine, non viceversa. Ad esempio, che i Latini possedessero le velari, lo si è voluto dimostrare attraverso l’attuale parlata di Bitti. In realtà i Romani ebbero, eccome!, sia le palatali sia le velari, ma non c’è affatto da inventare una colonizzazione alla rovescia (da Bitti a Roma) per dimostrare una teoria incredibile. Tantomeno c’è da insistere sulla bislacca teoria che i Romani colonizzarono tutta la Sardegna, e che la loro parlata si è conservata nelle aree interne in quanto più conservative.

I Sardiani (Shardana) appartenevano al vasto sistema linguistico semitico, quindi non si può sostenere che condividessero col sistema indoeuropeo la fungibilità delle consonanti qui trattate, e nemmeno che mantenessero tale fungibilità all’interno del proprio sistema isolato (fenomeno autoctono). I Sardi invece fecero uso, per proprio conto, dei due sistemi consonantici (k, ĝ, p, b), ma non li considerarono reciprocamente influenzabili sibbene separati, ognuno operante in un campo distinto. Vediamo di seguito.

Abba log., aqua camp. ‘acqua’. Molti etimologisti che mi hanno preceduto, convinti della “innegabile” origine latina di gran parte della lingua sarda, hanno persino inventato le leggi fonetiche che dimostrerebbero il processo di derivazione dei vocaboli dal latino al sardo. Wagner sostiene che abba deriverebbe direttamente dal lat. aqua, in virtù dell’esito del lat. –q– > sardo –b-. Invece per –q– e –b– non ci troviamo affatto di fronte ad un processo derivativo, a una norma fonetica derivata diacronicamente dall’altra, ma di fronte a due fenomeni sincronici, già operanti per proprio conto prima dell’invasione romana della Sardegna. Abba esiste già nel vocabolario accadico: abbu ‘palude, pantano’; abbû ‘fauna acquatica’; ‘acqua’. Anche qui, come avvenne per il sardo ábile-ákile ‘aquila’, ci fu già in origine un doppio registro, che poi lasciò in eredità due lemmi sardi: abba a nord, aqua a sud. Il secondo registro fu infatti l’akk. agû, egû ‘onda, corrente, flutto’. Quindi in Sardegna assistiamo agli esiti d’una legge fonetica tutta sarda, che traduce in –a i termini accadici in –u, e che (per ) ha aggiunto a-, operando la prostesi che derivò da agû. In abba scopriamo una parola tutta sardiana, che ha il suffisso –a (cfr. anche l’aramaico) in corrispondenza dei termini accadici in –u, e che all’originario ‘acqua’ ha aggiunto semplicemente a– (dall’akk. abbu ‘palude’). Tale a– di abba, che sembra ma non è una prostesi, è invece una semplice omologazione fonosemantica tra i vocaboli, un tempo distinti, abbu e . Ritengo pertanto di aver dimostrato che durante il lento processo di omologazione con la lingua dell’Urbe, abba non ha concesso nulla, rimanendo inalterata fino ad oggi.

Ábile log., ákila, ákile, ákili camp. ‘aquila’ ha la base nell’akk. ākilu ‘divoratore’ (da cui il lat. aquila). Ma già allora in Sardegna si utilizzava un doppio registro, che è āgilu, ābilu ‘trascinatore’ (detto della professione di chi trascinava le navi lungo i canali o i fiumi). Infatti destò sempre ammirazione il fatto che l’aquila con la sua forza poderosa è in grado di sollevare e portar via persino un animale di media stazza come una pecora o un muflone. In tal guisa nel Logudoro prevalse l’originario ābilu, nel Campidano l’originario ākilu.

Ácua, áqua camp. ‘acqua’ < lat. aqua. Vedi abba.

Aspiḍḍa, asprìḍḍa, abrìḍḍa, arbìḍḍa ‘scilla o cipolla marina’ (Urginea maritima Bak.). Paulis NPPS 215 lo considera tout court una derivazione da lat. squilla. Egli comunica che «il nome, anche sotto forma di derivati, è attestato già nel sardo medievale: CSP 309 Aspilletu; CSMB 5 ki posit Petru Alla in Arsbilledu; CV, XI,4 su erriu de guturu d’esquilla».

In tal guisa, possiamo pensare che proprio aspìḍḍa fosse il prototipo del fitonimo sardiano, che poi generò per corruzione asprìḍḍa, abrìḍḍa, arbìḍḍa (mentre il camp. squìḍḍa è italianismo! , esquilla spagnolismo). A sua volta aspìḍḍa è un composto sardiano con base nell’akk. (w)aṣû(m) ‘sollevarsi molto, crescere molto’ + pillû (a plant), col significato complessivo di ‘piantina dalla forte crescita’ (com’è tipico della scilla, la quale si caratterizza per il lunghissimo scapo senza foglie, che raggiunge anche 1,5 metri).

Battíu log. ‘vedovo’; battìa ‘vedova’, da akk. bābtu(m) ‘perdita, deficit’, di cui battίu è aggettivale. Invece il camp. bagadíu ha la base nell’akk. (w)aqû(m), waqā’um ‘stare in attesa, aspettare per’, di cui bagadíu è aggettivale.

Biriái, Iriái. Vedremo che la lingua basca condivide col sumero e l’accadico parecchi vocaboli, residuo dell’arcaica Cenosi Linguistica Euro-Mediterraneo-Vicino Orientale (o Prima Grande Cenosi). Uno di questi è il basco iri ‘città’ (iberico ili), sumerico iri ‘città’. Ma Eduardo Blasco Ferrer nega parentele con l’Oriente. Ciò lo induce ad “arrangiarsi” in altro modo per trovare i giusti addentellati basco-sardi a riguardo di questo vocabolo (P 105). In tal guisa, inventa relazioni inverosimili tra il basco iri e il toponimo sardo Iriái, Biriái, il quale indica una selvaggia gola basaltica dalle pareti verticali e sub-verticali in territorio di Dorgáli, oggi scavalcata da un ponte. La gola è per parecchi metri immersa nel lago del Cedrino, e prima della diga accoglieva lo scorrere del fiume. Ha un allotropo in Biriái. La sua base è la stessa di giròve, ghiròve, Ghirovái etc. ed indica il tipo di gola, stretta e con le pareti precipiti. La base etimologica dell’aggettivale Biriái è il sum. bir ‘strappare, trinciare’ (riferito proprio alla verticalità della gola basaltica). In Iriái notiamo la frequente perdita della b-, che coinvolge indifferentemente tutti i cantoni linguistici della Sardegna.

Bocchínu cognome che è paronomasia di un arcaico termine sardiano basato sull’akk. ukkinnu ‘assemblea degli déi’. Anche il fatto di assumere una b– davanti ai vocaboli comincianti in u– è una normale legge fonetica sarda.

Bodditórgiu, budditólzu, guddetórgiu, hanno la stessa radice dal sum. u ‘land’, ‘a type of land’ + de ‘portare, trasportare’, ‘versare’, col significato, quindi, di ‘luogo del raduno’. Stessa origine pare abbia il Monti di Déu (italianismo), un picco molto alto nell’acrocoro del Limbara (Calangiánus).

Bòi, bòe ‘bue’. Lo si riconduce alla base latina bōs, bōvis, gr. βοῦς, βῶς. Ma intanto non si è capito che la forma latina indica più che altro un aggettivale. La vera base etimologica è il sum. gu ‘forza’ + u ‘corno’, col significato di ‘potenza cornuta’. È tutto un programma. Non è un caso se il bue fu domato, legato all’aratro, messo a trainare tutte le fatiche. La “rotazione consonantica” sum. gu > sardo bu, che in questo caso portò a unificare la pronuncia a sud e a nord dell’isola, avvenne in virtù della coscienza che i Sardi hanno sempre avuto fin dalle origini della doppia presenza di vocaboli similari (e co-semantici) in –b– e in –k– (come ábile e ákili). La “rotazione consonantica” nella forma bòi fu agevolata, comunque e sempre, dal colpo di glottide dei Barbaricini, il quale, facendo perdere al vocabolo la velare iniziale (ku-, gu– > ’u-), mise i parlanti delle aree contermini nella condizione di scegliere, secondo l’eufonia ed il momento, la pronuncia più adatta all’espressione (k– o b-, secondo il sentire prevalente in un determinato cantone linguistico).

Bolóstiu. La località di Alà dei Sardi prende il nome dall’agrifoglio. Sopravvissuto in un’area boscosa che è il residuo d’una grande foresta presso le sponde del selvaggio fiume S’Eleme, il fitonimo lascia intendere che un tempo il sito era coperto da boschi d’agrifoglio. L’etimo va studiato partendo da colóstru ‘’rosa di monte’ (Rosa canina L.), ma specialmente ‘agrifoglio’ (Ilex aquifolium L.). Paulis NPPS ricorda una serie di varianti del fitonimo, che ha parentela pure col basco korosti, gorosti ‘agrifoglio’; è detto golóstiu a Bitti, Orosei; colóstri a Nuoro; golósti’e a Olzái, ‘olósti’e a Orgòsolo; kóstiu a Oráni; colóstri a Fonni e a Mògoro; olóstru a Bonorva, Bòrore, Giave, Mores, Òschiri; olóstiu a Bono; olósti a Dorgáli; olostríghe a Santulussùrgiu. NPPS sembra propendere per la parentela sardo-basca, se non addirittura per una derivazione dal fitonimo basco. Ma corósti e sue varianti non è altro che un antico termine sardiano-basco con base sumerica, da kul ‘pianta’ + ‘veleno’ + ti ‘uccello’: kul-uš-ti, col significato di ‘pianta velenosa per gli uccelli’. Proprio l’esistenza del termine basco fa capire che il fitonimo appartiene alla Prima Grande Cenosi Linguistica (paleo-neolitica), e quindi che il fitonimo fosse espanso un po’ in tutta l’Eurasia, ivi compresa l’area mesopotamica. Lo scambio logudorese k > b segue il modello già precisato per bòi, bòe (vedi più su).

Borùtta, nome di un comune del Logudòro. Anche qui abbiamo un fenomeno simile a quello precedente. Il nome deriva da lat. crypta, cripta, greco κρύπτη ‘grotta, cantina, sotterraneo, caverna’ > sardo grutta (poi *Brutta, Borutta per “sardizzazione” della gutturale), e prende il nome dall’antica grotta sul fianco dell’altopiano calcareo sopra il quale sorgeva Sorra (poi Sorres), sede vescovile. Anche qui la tendenza dei Logudoresi a scegliere la forma in b– anziché la forma cominciante con velare, è la stessa che presiede alla formazione di ábile (vedi su) contrapposto ad ákili, bòe (vedi più su) contrapposto al sum. bu.

Buddusò nome di un paese dell’Alto Nuorese. Penso che in origine fosse un sito dove insisteva un santuario cantonale, da cui il villaggio prese il nome, dal sum. gu ‘interezza, somma, integrità’ + lu ‘divampare’ + zu ‘conoscere’. Il significato fu ‘Divampante Dio della Conoscenza’ (epiteto riferito al Dio Unico). Il fenomeno dello scambio g > b è simile a quello già spiegato per Bolóstiu. Anche qui ci troviamo in area con parlata logudorese.

Bulzi nome di un comune del Logudoro nord-orientale. In RDSard. a. 1341 è nominato Gulte, in seguito Guloe, Gulsey. Non possiamo passare sotto silenzio le prime forme scritte del toponimo, quale Guloe, che se fosse corretta può avere la base nel sum. gu ‘forza’ + lu ‘divampare’ (riferito al Sole), epiteto dal significato di ‘Forza Divampante’. Se fosse Gulsey (da *Gulusey), la base sarebbe il sum. gu ‘forza’ + lu ‘divampare’ + se ‘vivere’, col significato di ‘Forza Divampante che dà la vita’. Se fosse Gulte, la base sarebbe il sum. gul ‘distruggere’ + teš ‘orgoglio’, col significato di ‘Distruttore dell’orgoglio’. I tre epiteti sarebbero riferiti al Dio Unico, del quale nell’area dovette esistere un santuario cantonale, giusta la collocazione dell’attuale bellissima chiesa romanica. Anche qui c’è lo stesso fenomeno di Lautverschiebung già notato per Bolóstiu.

Cióbbu sass., giòba log. ‘cappio, laccio’; un ciobbu di salthizza ‘un “cappio” di salsiccia’, ossia la salsiccia con i capi annodati a forma di anello o cappio. L’etimo poggia sul sum ḫubum ‘ruota’. Qui non si ha la rotazione consonantica, poiché non se ne sentì bisogno.

Esporlátu nome di un comune del Márghine. Il lemma deriva dal babilonese isqum + latû ‘lotto di terreno (per allevamento di) vacche’. Per il fenomeno q > p vedi discussione fatta per aspiḍḍa e Bolóstiu. L’area è a parlata logudorese.

Filippéḍḍu cognome gallurese che sembra diminutivo del pers. Filippu. Ma occorre notare che l’attuale termine risulta soltanto riplasmato dal lessico bizantino; la costruzione è sardiana, con base nell’akk. bēlu(m) ‘signore, proprietario, maestro, appassionato di’ (stessa radice del gr. φιλέω) + ikû (il cavallo della costellazione Pegasus) + ellu ‘puro, limpido’ in senso rituale. Lo stato costrutto iniziale fu bēl-ik-ellu > *felikellu > Filippéḍḍu. Per il fenomeno –k- > –p- questo lemma ha seguito la falsariga di aspiḍḍa e Bolostiu.

Fonni, nome di un comune barbaricino (del Gennargentu), localmente pronunciato Onne. Questo non è altro che un modo diverso di esprimere foneticamente un toponimo che nella più alta antichità indicava un ‘centro di culto’ (da sumerico gune), esattamente come successe al villaggio oggi noto come Goni. Il culto di Fonni è quello oggi noto come la Madonna dei Martiri, sotto il cui sito, ancora attorniato dalle cumbessìas, c’era la fonte sacra, ora deviata accanto alla chiesa. Nonostante l’influsso del colpo di glottide barbaricino (gu– > ’o-), il toponimo è stato sempre gestito entro il campo delle velari: infatti è pronunciato anche Vonne < gu– (cfr. il gw– tedesco). È solo in epoca moderna che quella V– < gu– fu ipercorretta, perché percepita come lenizione di una originaria F-.

Furrióttu, nome di un pane sinnaese tipo coccòi (o taccàda), grande o piccolo, lavorato per arrotolamento; il rotolo è sigillato al centro con la linguetta finale. Il termine è dal sardo furriáre ‘rivoltare, arrotolare’, con base etimologica nell’akk. garāru(m), qarāru(m) ‘rotolarsi, contorcersi’; qarūru ‘arrotolato’, ‘ondeggiante’, ‘che rotola avanti-indietro (matterello)’. Nella rotazione q > p (> f) dobbiamo vedere l’influsso globalizzante della parola furriáre, furriái, che è pansarda, omologantesi sulla scorta di quanto è accaduto per bòe, bòi < gu.

Ispéli, indica il ‘pane di ghiande’. Ha origini arcaiche, risale certamente al Paleolitico, quando l’uomo viveva di mera raccolta. Le ghiande all’inizio dovettero essere forse l’unico seme della Sardegna che consentisse di fare il pane. La base etimologica è nell’accadico (m) (una pietra dura usata per macinare a mano) + pelû ‘essere rosso, divenire rosso’ (di datteri, ghiande e altro), poi visto come plurale (is pélu > is-péli) per influsso di (m), sentito a sua volta come articolo determinativo sull’influsso del bab. šu ‘egli’, ‘colui che’.

Làmpadas, nome del ‘(mese di) Giugno’. Wagner ricorda che làmpadas era già nel Medioevo il nome del mese di giugno (St. Sass. II, 17 (60r); 126 (41v). E sostiene che «questa denominazione esisteva nell’Africa settentrionale, dove si celebravano feste con illuminazioni prima in onore di Cerere, poi in onore di San Giovanni, e che queste feste ricorrevano nel mese di giugno, detto perciò lampades come risulta da passi delle opere di Fulgenzio, vescovo di Ruspe, e di S.Crisostomo. Si deve arguire che gli Ebrei espulsi dall’Africa e stabilitisi in Sardegna siano stati i mediatori».

C’è da chiedersi come gli Ebrei possano essere i mediatori della tradizione attecchita in Sardegna. Se fosse stato vero, essi avrebbero utilizzato termini propri, non un termine latino-greco come làmpada. Va poi osservato che il significato antropologico dei fuochi del solstizio d’estate va riferito al Dio Sole, che in misura diversa ebbe il suo momento di supremo culto un po’ in tutto il Mediterraneo. Ho dimostrato per tutto questo Vocabolario che i termini apparsi nei condághes o nei coevi Statuti sono antichissimi, molto più antichi del termine latino làmpada (formato sull’accusativo greco), il quale fu importato dalla Grecia nientemeno che ai tempi di Cicerone e Virgilio, ossia quando stava cominciando l’Era Volgare: terminus ante quem troppo vicino a noi, che porta a ritenere inaccettabile l’omologazione di Làmpadas ‘lampade’ a Giugno. Va aggiunto che gli antichi Greci non lasciarono in Sardegna segni linguistici di sorta, se non quelli seriori portati dai bizantini: ed un termine bizantino, in questo caso, va rifiutato a fortiori.

Lampadas ‘giugno’ ha la base etimologica nel sum. lam ‘far crescere riccamente’ + pad ‘rompere, fare a pezzetti; sminuzzare’ (senso di ‘trebbiare’): significò ‘trebbiatura della ricca crescita’. Come si vede, non c’è alcun passaggio originario q > p; la controprova è il concetto di ‘raccolta’, che ha a che fare con l’akk. laqātu(m) ‘raccogliere, racimolare’, laqtu ‘raccolto, racimolato’, it. lago, lat. lacus ‘lago’, sardo laccu ‘truogolo’, ‘vasca’ < akk. lakku ‘vasca’.

Tiddìa cognome, riferibile a tittìa, esclamazione pansarda che accompagna un assalto di brividi di freddo: tittìa! È una retroformazione per il più ampio tittir(r)ia ‘freddo, brivido’, da cui tètteru, tèttaru, tìttiri ‘intirizzito, rigido dal freddo’. La base etimologica sembrerebbe l’akk. tibûtu(m) ‘assalto, attacco’, che dà tebû ‘pulsare, palpitare’ e anche ‘sollevarsi, insorgere’, con successiva assimilazione della –b– alla contigua –t-. Approfondendo l’esame, si evidenzia che anche il cognome Tiḍḍìa entra in questo campo semantico. La sua base etimologica è il bab. tillu ‘appendìce, bardatura, segni esteriori; accessorio’. Tiḍḍìa (ma anche tittìa, che si porta appresso la contaminazione con tibûtu) è dunque un antico aggettivale da tillu. É curiosa l’applicazione che i Sardi (Shardana) hanno fatto del termine tillu, che già in origine potè indicare una meteora gelida, la cui figura non può che richiamare, per la sbalorditiva identità, i “fronzoli”, gli “ornamenti per abiti”. Tittìa e Tiḍḍìa sono ovviamente imparentati semanticamente anche con biḍḍìa, ma la base etimologica di biḍḍìa è diversa, essendo dall’akk. ḫillu(m) ‘copertura, guscio (dell’uovo); corteccia’, ‘strato nuvoloso’, ‘velo, foschia’. Evidentemente nell’alta antichità gli Shardana usarono biḍḍìa per indicare il semplice ricoprimento che il gelo produce sopra le superfici; usarono invece tiḍḍìa per indicare i disegni “ornamentali” che talora la brina compone sulle superfici. Per il fenomeno q > p vedi discussione fatta per abba.

4. Quarantanove lemmi contro 10000

 

EBF tenta di dimostrare per tutto il suo libro – con l’ausilio di una manciata di radicali, esattamente 49, metà dei quali inventati, e come tali corredati pudicamente dell’asterisco (*) – che tali lemmi baschi sono la prova della colonizzazione (proto)basca dell’Isola.

Nella Prefazione ho spiegato la questione, ma è forza tornarci. Se prove si cercano, occorre prima ricorrere alla statistica. E se EBF pone in campo 49 lemmi (metà dei quali spuri), io gli contrappongo 10.000 lemmi sumerici e accadico-semitici. Tanti sono quelli da me utilizzati per dare un senso preciso, con inattaccabile planarità, alla lingua sarda delle origini, ivi compresi i toponimi.

E mentre EBF pretende di “bascheggiare” le Origini sarde e addirittura pretende di accreditare una cospicua trasmigrazione di (Proto)Baschi nell’isola, io nelle mie opere non ho mai preteso di accreditare una trasmigrazione di Sumeri in Sardegna, nonostante che i Sardi s’esprimano ancora oggi col vocabolario sumerico. La ragione è semplicissima: i Sumeri parlarono la stessa lingua che pure i Sardi parlavano (e in parte ancora parlano). Si parlava tale lingua in tutto il Mediterraneo, nella Mezzaluna Fertile, nella Penisola Italica, e persino nella Mittel-Europa. E certamente la si parlò non in forza di una immane trasmigrazione sumerica nel mondo euro-mediterraneo-asiatico, ma – assai semplicemente – perché la lingua che noi chiamiamo “sumerica” fu la vera Lingua delle Origini (almeno nell’area da me circoscritta): fu parlata da tutti, a monte e a valle, sul mare e nei deserti, ad est e ad ovest, a sud e a nord. La parlavano persino i (Proto)Baschi!

In Prefazione ho citato poche equivalenze basco-sumero-accadiche da me reperite a caso, senza ricerca di sorta. Eccole:

basco aba ‘padre’ < bab. aba ‘padre’; basco iri ‘città’ < sum. iri ‘città’; basco logi ‘fango’ < sum. luḫum ‘fango’; basco obi ‘concavità naturali, gole, forre’ < sum. ub ‘foro, buco’; basco soro ‘campo libero o dissodato’ < sum. šurum ‘rifiuti del pasto, feci, lettiera di bestie’; basco ur ‘acqua < sum. uru ‘inondazione, diluvio’; basco korosti, gorosti ‘agrifoglio’ = sardo corosti, costike < sum. ḫuš ‘pianta’ + akk. ṭēḫ; basco txakur ‘cane’, zakur ‘cane grande’ < sum. zaḫ ‘spostare, traslocare, trascinare’ + ur ‘cane’, col significato di ‘cane da caccia’; basco mokor ‘picco, punta’, catal. ant. mugarón, moguró, muguró ‘capezzolo’ < akk. makurru, makkūru, maqurru ‘gibbosità, gobba della luna crescente’, sum. mu ‘crescere’ + kur ‘montagna’, col significato di ‘montagna che cresce’ (ossia, che è ancora piccola). Ci aggiungo il basco korosti, gorosti ‘agrifoglio’: golóstiu a Bitti, Orosei; colóstri a Nuoro; golósti’e a Olzai, ‘olósti’e a Orgosolo; kóstiu a Orani; colóstri a Fonni e a Mogoro; olóstru a Bonorva, Borore, Giave, Mores, Oschiri; olóstiu a Bono; olósti a Dorgali; olostríghe a Santulussurgiu. Corósti e sue varianti non è altro che un antico termine sardiano-basco con base sumerica, da kul ‘pianta’ + ‘veleno’ + ti ‘uccello’: kul-uš-ti, col significato di ‘pianta velenosa per gli uccelli’. Vedi pure arròa, arròja, orròa, ròja, orròja ‘torrentello’, ‘forra al cui fondo scorre dell’acqua’, basco arro ‘tonfano’, ‘bassura (di rio)’; ‘fenditura’, arroil ‘chiavica, fognatura’, ‘cavità’; ha la base in alcune radici sumeriche tutte ricorrenti per similarità in un campo semantico unificante: ur ‘dragare, trascinare’, uru ‘corrente d’acqua, inondazione, diluvio’, uru ‘pesce’. Vedi anche sardo bitta, bitti, bithi ‘agnellino, capretto, cerbiatto, piccola daina’ < l’akk. bittu ‘figlia’, sum. biza ‘bambola, fantoccio’ (z = /tz/), basco bitxi ‘gioia, giocosità, grazia’, ‘leggiadro’; bitxi– ‘ornamentale’. Abbiamo pure la corrispondenza di basco basco gaztigar ‘acero’, sum. ḫuš ‘pianta’ + akk. ṭēḫû (dall’aramaico): ḫuš-ṭēḫû ‘propagatore di briciole’.

Nella Prefazione ho invitato EBF a cercare, assieme a me, altre equivalenze sumero-semitiche nel Vocabolario basco: se ne possono trovare oltre 500, di equivalenze. Le quali sono una enormità rispetto ai 49 lemmi baschi recati come prova della colonizzazione della Sardegna. 49 lemmi che io, nel prosieguo di questo Capitolo, affronterò adeguatamente, dimostrando che sono incompatibili con l’idea di una colonizzazione della lingua sarda (o, come scrive EBF, Protosarda). Ci sarebbe poi qualche altra decina di equivalenze basco-sardo-sumerico-

In questo Capitolo ho tacciato spesso EBF di idealismo. È idealista qualsiasi sistema o dottrina il cui principio interpretativo fondamentale è meramente ideale, nel senso che dapprima viene confezionato il principio, l’idea, e poi si cerca di dimostrarne l’esistenza o la praticabilità. Teoreticamente, l’idealismo è l’opposto del materialismo, secondo cui è dalla materia, dallo studio rigoroso degli eventi, dall’indagine meticolosa e metodica della fisicità, che si estrae un principio, una teoria, una credenza. In tal guisa, le entità, i processi, o gli eventi mentali, sono determinati unicamente da entità, processi o eventi materiali, dalla storia reale, dall’ambiente in cui l’uomo esprime il proprio destino. Così procede, tanto per intenderci, ogni ragionamento degli scienziati, in qualsiasi campo. Perché dobbiamo rifiutare tale procedimento nella linguistica?

Eppure al giorno d’oggi sembra blasfemo l’affermare delle verità sperabilmente inconfutabili, specialmente quando sono materialiste, ossia basate su rigorose analisi della realtà effettuale. In pratica io, qui ed ora, cerco di dimostrare, su basi materialiste, qualcosa di diametralmente opposto a quanto ha voluto dimostrare l’idealista EBF.

1) Blasco Ferrer nel suo libro Paleosardo ha inteso dimostrare che la Sardegna, la grande isola al centro del Mediterraneo, non fu influenzata dalle migrazioni e dalle lingue del bacino meridionale, ma esclusivamente dalle migrazioni e dalle lingue del bacino settentrionale; anzi, più precisamente, dalle sole migrazioni e lingue (ibero)basche. Prova di tale colonizzazione sarebbero i toponimi barbaricini (non tutti, ma quei pochi ch’egli ha reperito per la bisogna).

2) Io, al contrario, non immagino avvenuta alcuna migrazione di popoli verso la Sardegna (eccezion fatta di qualche evento non determinante e rapidamente assorbito, provenuto pure da nord, sembra nell’alto Paleolitico, ma in epoca protostorica e storica provenuto principalmente da sud-est). In funzione di ciò, intendo dimostrare che la Sardegna ha avuto una sua propria lingua fin dalla nascita del linguaggio, una lingua mai compromessa, sempre usata fino al giorno d’oggi. Principalmente, intendo dimostrare che la Lingua Sarda, ininterrottamente parlata fin dalle Origini del Linguaggio, è il più cospicuo e coeso giacimento linguistico sopravvissuto alla Prima (e Seconda) Cenosi Linguistica Euro-Mediterraneo-Semitica.

Sembra ovvio che lo studio delle interrelazioni tra lingue e popoli deve essere condotto, salve eccezioni da dimostrare, sulla base di quanto la storia e l’archeologia sinora concedono di capire. Ma è pur vero che la maggior parte degli eventi che io e Blasco Ferrer vogliamo mettere in campo appartengono alla preistoria, alla protostoria, quindi sono poco dimostrabili, se non districandosi tra le varie interpretazioni dei miti tramandati dalla letteratura greca o latina. Miti e racconti poco diafani, che qualche studioso al momento sta cercando di illuminare da altre prospettive, ma che nel passato sono stati utilizzati secondo la personale visione (quasi sempre idealistica) che ogni ricercatore ha avuto della realtà.

Ma è sperabile che, laddove i miti non possono essere dipanati, possa riuscirci la lingua, poiché la lingua riesce a superare millenni di silenzi; e pure quando i sassi non riescono più a narrare, è la lingua a dare un senso ai misteri più profondi dell’umanità.

Ci si chiede: quale lingua? Tra due studiosi che contendono (io e Blasco-Ferrer), il lettore saprà scegliere tra 49 lemmi baschi e 10.000 lemmi sumero-accadico-sardi. Con ambo le somme si possono mostrare equivalenze con la lingua sarda. Con l’avvertenza che 49 lemmi aprono solo uno spiffero microscopico, mentre 10.000 lemmi raccontano l’intera storia di un popolo, e mediante essi si rivelano i toponimi, i cognomi, i nomi dei pani, della flora, degli animali, delle malattie, dei fenomeni religiosi, dell’economia, della musica, dei metri e delle misure, dell’astronomia, delle attività, delle navigazioni, della società; si rivela persino l’antica grammatica, come ho già anticipato nella Prefazione a proposito del macro-fenomeno dello stato costrutto (in inglese bound form or genitive chain), espanso nell’Europa antica (e, come relitto, nell’Europa attuale). Vediamo allora lo stato costrutto più da vicino.

 

5. Lo stato costrutto

 

Una legge fondamentale della segmentazione strutturale della lingua sarda è lo stato costrutto. Su ciò avverto l’Accademia (e indirettamente Blasco Ferrer) da 7 anni (siamo al 2011), poiché senza lo stato costrutto certe teorie non stanno in piedi. Lo stato costrutto è la chiave indispensabile per capire e districare tutti i lemmi che intuiamo essere degli antichi composti.

Per intuire nei composti sardi la sussistenza di antichi stati costrutti, quindi per ammettere d’amblée la base semitica del lemma, ci vuole pratica (coltivata con l’uso indispensabile delle grammatiche semitiche); ma per il principiante vale una regola fondamentale, che è quella di mettersi in guardia ogni qualvolta un lemma polisillabo contenga in posizione mediana una –i– (indice di sutura di due vocaboli). Il fenomeno è anche italiano, e pure latino. Da qui l’esigenza di mettersi a studiare senza paraocchi. L’influenza semitica nel Mediterraneo due, tre, quattro, cinque, sei millenni fa, fu amplissima. Comprendo l’imbarazzo di certi linguisti, i quali ancora affermano categoricamente che non di Semiti si trattò ma solo di Fenici, e che questi comparvero nel Mediterraneo dal 750 a.e.v., e che per giunta essi toccarono (tanto per restare in argomento) soltanto la Sardegna. Questo è uno degli errori fondamentali della loro ricerca, che qui tralascio di argomentare.

Appo unu fizzu cambirussu e conchimannu… Ecco, siamo dentro lo stato costrutto. Nel primo elemento (che funge da complemento di relazione) è rilevante l’uscita fissa in –i-, costituente il morfema di giuntura, e nel secondo la variabilità dell’aggettivo secondo il genere e il numero. In italiano abbiamo tantissimi esempi, quale capinera, pettirosso; nell’italiano arcaico abbiamo capirotto, collicorto, collilungo… Tralascio i conii letterari quali occhicerulo, occhinero, occhisanguigno… In Toscana abbiamo vari esempi (codibianco…), e più ancora in Corsica (barbibiancu, bocchigrussu, capileggeri, cornirittu, nasitortu…). Nell’Italia meridionale: anchitortu, capirasu, capiddijancu, cudilonga, manilestu… Massiccia è la presenza di stati costrutti nelle aree romanze, soprattutto in Spagna: aliquebrado ‘con l’ala rotta’, barbirrubio ‘barbarossa’, boquiangosto ‘bocca stretta’, cabizbajo ‘a capo chino’, cari-redondo ‘di faccia tonda’, corniapretado ‘dalle corna ravvicinate’, cuellierguido ‘impettito’, dientimallado ‘coi denti cariati’, labihendido ‘dal labbro leporino’, lenguicorto ‘di poche parole’, lomienhiesto ‘alto di schiena’, ‘borioso’, maniabierto ‘prodigo’, ojinegro ‘’di occhi neri’, orejisano ‘con orecchie non marcate’, palmitieso ‘dallo zoccolo piano o convesso’, patituerto ‘a zampe storte’, pasilargo ‘a passo lungo’, pechiblanca ‘bianca di petto’, pelirojo ‘rosso di capelli’, piernitendido ‘a gamba tesa’, rabicorto ‘di coda corta’, teticiega ‘dal capezzolo ostruito’. A quanto so, formazioni di stato costrutto sono assenti nella lingua catalana, mentre appaiono nel guascone moderno: brassilounc ‘di braccia lunghe’, cabiort ‘forte di testa’, caminut ‘a gambe nude’ (SGR 85-89). Anche la lingua latina è piena di stati costrutti, traccia di un arcaico linguaggio agglutinante: armiger, pontifex, accipiter (< akk. akki-pitru ‘furia delle steppe’), eccetera.

Lo stato costrutto è diffusissimo nel logudorese, nel sassarese, nel gallurese, sembra meno esteso in campidanese, ma soltanto perché qua s’usano altre forme di stato costrutto (sulle quali ora non mi dilungo). Non si può certo dire che la Corsica, che ne è piena, abbia subito l’influenza spagnola! No, per la contraddizion che nol consente. Lo stato costrutto sardo s’estende anche alle formazioni fitonimiche (es. fustialbu ‘pioppo’).

Manco a dirlo, il Meyer-Lübke e lo Spitzer avanzano l’ipotesi che tali forme abbiano modelli latini di origine dotta (es. oviparus). Wagner e Rohlfs propendono invece per una origine dal latino volgare. Ma sempre latino è! Quand’è che sortirà un linguista poco avvezzo a tollerare un Mediterraneo spaccato in due, che alzi la schiena e allunghi lo sguardo, facendolo spaziare per tutte le sponde del Mare Nostrum? Scoprirebbe che l’origine del fenomeno è accadica e riguarda tutte le lingue semitiche, quindi anche l’antico sardo.

In sardo lo stato costrutto viene utilizzato ancora oggi in quanto tale, e la sua legge formativa presiede pure alla costruzione dei composti, che in sardo sono numerosi, come si sarà notato per moltissimi fitonimi e per moltissimi cognomi, e come si noterà per molti toponimi elencati nel Dizionario Etimologico.

Si osservi che, mentre fra quelli di origine sumerica i nomi composti sono frequenti (per es. ekallum ‘palazzo’ < é gal ‘casa grande’, asugallum ‘medico-capo’ < azu gal ‘medico grande’), piuttosto rari sono fra quelli propriamente semitici, essendo estranea alle lingue semitiche la composizione dei nomi. In Grecia era una regola comporre sovente i nomi propri o di altro genere. Non è un caso che gran parte dei nomi non-composti dell’Antica Grecia siano considerati di origine non-greca, e non è un caso che molti di loro siano traducibili soltanto con le lingue semitiche.

In campo semitico la composizione è possibile soltanto nella formazione dello stato costrutto, in cui il reggente e il retto costituiscono una unità concettuale. Il nome composto (perché di questo si tratta) ha origine dalla fusione dei due elementi in una unità morfologica. Es. šamaššammum ‘sesamo’ (lett. ‘olio di erba’); rabisikkātum ‘sovrintendente alle dighe’ (un alto ufficiale). Le parole composte semitiche abbondano fra i nomi propri di persona: lo stesso avviene per i cognomi della Sardegna (originati anch’essi dai nomi propri), la gran parte dei quali ha origine semitica, diversamente da quanto pensa Pittau.

Diverse forme di st.c. prendono una vocale di appoggio (ausiliaria) che è generalmente i in fine di parola: libbi alim ‘il centro della città’; kakki nakrim ‘l’arma del nemico’.

Ma cos’è lo stato costrutto? Gli orientalisti suddividono gli stati del nome di parecchie lingue semitiche (assira, babilonese, accadica, ebraica, aramaica etc.) in:

status rectus, quando il nome non ha reggenze genitivali o relative, ma applica rettamente le funzioni della propria desinenza, del tipo “di’ al re” (dativo), “il re comandò” (nominativo);

stato assoluto, dove il nome è privo di desinenze: es. seher rabi “grandi e piccoli”, šar “o re!”;

stato predicativo, quando il nome è coniugato nel permansivo: šarrāq “è un ladro”, ul aššat “non è moglie”, sinnišā “sono (ormai) donne”;

stato costrutto, quando il nome ha una reggenza che può essere un sostantivo al genitivo, un suffisso pronominale oppure una proposizione relativa non introdotta dal pronome determinativo: bēl bītim “il padrone della casa”, ana bēlī-ja “al mio signore”, dīn idīnu “il giudizio che giudicò”.

Non sto a precisare minutamente nella sua complessità questo fenomeno grammaticale semitico. Il lettore troverà completa informazione in GLA ai paragrafi dal 45 al 47, in GA alle pagine 55 sgg, 61-62, in GBH al paragrafo 92.

Ai nostri fini è sufficiente (e tuttavia importante) sapere che, seguendo una serie di passaggi fonetici, lo stato costrutto semitico si presenta precipuamente nelle due forme fondamentali che sono, per il sostantivo reggente:

a) la perdita della desinenza: ossia al singolare le forme dello stato costrutto si ottengono togliendo al nome in status rectus le desinenze della declinazione;

b) l’assunzione della vocale finale in –i: ossia il reggente prende una vocale di appoggio (ausiliaria) che è generalmente i in fine di parola.

Nessuno dei linguisti che si sono applicati alla grammatica sarda attuale, in specie a quella logudorese (ed a quella del dialetto sassarese, incredibilmente catalogato come “italianizzante”), si è reso conto che la lingua sarda conserva ancora intatto uno stato costrutto identico a quello semitico, per quanto esso presenti talora degli adattamenti peculiari che sottolineano per un verso l’arcaicità del fenomeno sardo, per altro verso la sua autonomia e la distanza tra il Vicino Oriente e la Sardegna, onde i due fenomeni, millennio dopo millennio, sono rimasti reciprocamente isolati ma, ripeto, incredibilmente identici nella forma.

In accadico-assiro-babilonese, ma pure nell’ebraico biblico, lo stato costrutto è una sequenza di sostantivo reggente + sostantivo retto al genitivo. Quindi: šēmi ikribī ‘esauditore della preghiera’ (da šēmūm ‘esauditore’), lēqi unnēnim ‘colui che accoglie la supplica’ (da lēqûm ‘colui che accoglie’).

In Sardegna la forma di stato costrutto sopravvissuta è più fungibile, quindi può servire a formare il legame grammaticale reggente-retto, ma pure altri legami, precipuamente i composti, come dicevo.

La forma semitica dello stato costrutto sardo è attiva ancora oggi (quindi non è, come si potrebbe immaginare, un relitto linguistico), e funziona per una miriade di locuzioni, a cominciare da quelle del tipo sassar. cabi isciaibiḍḍádu ‘testa matta’ (letteralmente: ‘scervellato quanto a testa’, con una funzione logica simile a quella dell’accusativo alla greca); o curi-sáida, che a Sassari indica la ‘cutrettola’ (Motacilla flava), un curioso passeraceo invernale, che dimena freneticamente la coda, tenendola alta e fremente. La fantasia popolare gli diede un nome che nessuno oggi può capire, dall’akk. kulu’u ‘male cultic prostitute, prostituto sacro’ + ṣaḫittu ‘desiderio (sessuale)‘: st.c. kuliṣaḫittu, col significato sintetico di ‘prostituto con la frenesia d’amore’.

Ci sono molte costruzioni sarde che conservano lo stato costrutto nelle stesse posizioni assunte da quello semitico, quindi nella forma reggente-retto. Faccio alcuni esempi, il primo dei quali è il fitonimo (canna) aresta gallur. ‘cannuccia’ (Arundo phragmites L.), che non è la ‘canna selvatica’ (come pensa Paulis) ma un composto sardiano basato sull’akk. aru ‘gambo, stelo’ + aštu ‘rami; fogliame’ (st.c. araštu), col significato sintetico di ‘(canna) a gambo ramificato, o con fogliame’ (con riferimento al fatto che queste cannucce, oltre alla vistosa pannocchia sommitale, hanno moltissimi rametti laterali).

Altro stato costrutto è ninniéri (Fonni) ‘rosa di macchia’ (Rosa canina L.). Paulis sostiene che «questo fitonimo fonnese, rimasto oscuro al Wagner, è chiaramente derivato, per mezzo del suff. –éri di nomen agentis (HWS 75-78), da log. ninniare ‘cullare e addormentare i bambini cantando la ninna-nanna’. Ma Paulis non riesce a cogliere il vero etimo di ninniéri, per il fatto che il fitonimo fonnese è un composto sardiano con base nell’akk. nīnû (a medicinal plant) + erû ‘aquila’ (stato costrutto nīni-erû), col significato complessivo di ‘pianta delle aquile’. Non a caso questo fitonimo è nato nel paese più alto della Sardegna, sull’acrocoro del Gennargentu, dove le aquile reali erano numerose, ed ancora oggi volteggiano indisturbate.

Altro stato costrutto è il fitonimo piricόccu ‘perlina minore’ (Bartsia trixago L. o Bellardia trixago L.). Paulis pensa al traslato che in campidanese indica il ‘sesso della donna’, e immagina che il fitonimo si riferisca al frutto peloso di queste piante. Ma sbaglia. Piricóccu è un composto sardiano con base nell’akk. per’u ’germoglio’ + quqû (designation of a snake), st.c. per’i-quqû, col significato complessivo di ‘germoglio dei serpenti’. I Babilonesi usarono spesso il primo membro (per’u) nei composti a indicare un tipo di pianta: vedi ad esempio per’u kalbi = ‘germoglio di cane’.

Arizáru (Arisarum vulgare Targ.) è un’aracea sardiana, da akk. arītu (a knife, dagger) + āru ‘guerriero’, col significato complessivo di ‘spada di guerriero’ a causa dello spadice che contraddistingue questa aracea. Va da sé che pure il suo nome latino ha base accadica.

Ci sono moltissimi altri fitonimi sardi in stato costrutto. Ma, per non tediare, desidero divagare presentando due toponimi tra i tantissimi analizzati nel mio Dizionario Etimologico. Il primo è Aritzo, che indica il ‘sito (ara) delle sorgenti (barbar. itzo, itze, allotropo del merid. mitza)’; l’altro toponimo si differenzia di poco ed è Lanaittho, che significa ‘il compendio (la‛ana) delle sorgenti (itho)’.

In Sardegna non tutti i composti presentano lo stato costrutto nella sequenza reggente-retto. Spesso la costruzione si capovolge, presentando la sequenza retto-reggente (mutatis mutandis, lo stesso fenomeno avviene nella sintassi per le domande, del tipo cumprésu m’asà? ‘mi hai capito?’).

Un esempio classico può essere al riguardo il cognome Aléssi, Alèsse, che è uno stato costrutto da akk. ālu ‘villaggio’ + essû ‘pozzo’, che in sardo viene a significare ‘il pozzo del paese’. Questa costruzione è accadica al 100%, ma gli antichi Accadi, secondo le loro leggi grammaticali, la capovolgono: essû āli ‘pozzo del paese’.

Altro stato costrutto capovolto rispetto ai canoni accadici è áliga campid., àħa ‘immondezza’ sassar., àrga centr. e log. Va ricordato l’uso degli antichi (compresi i Sardi) di accatastare i rifiuti urbani fuori della porta del villaggio o della città, nel luogo chiamato muntunággiu, o muntronárdzu. Si badi bene, lo chiamavano muntonággiu, non muntòni ‘mucchio, cumulo’. Wagner fa derivare muntòni dal lat. mons, montis, mentre invece l’origine è dal bab. mu’(ud) ‘(large) quantity; multitude’ < mâdu ‘diventare o essere molto numeroso’, ma’dû, madû ‘(large) quantity, wealth, abundance’. A tale termine si appose poi il suffisso –òne, -òni (sum. unu ‘sito’), e da muntòni nacque muntunággiu col significato di ‘luogo della ricchezza’. Questo è il concetto che gli antichi avevano di s’áliga, considerato il suo inestimabile valore nella concimazione dei campi. Quanto alla sua etimologia, essa non deriva dal lat. alga ma dall’akk. ālu ‘villaggio, città’ + ikû ‘campo’ (st.c. ālikû), col significato complessivo di ‘campo comunale’, ‘luogo comune di gettito’.

Launèḍḍas è un altro stato costrutto capovolto. Questo strumento musicale della preistoria sarda, unico nel suo genere nella tipologia universale degli strumenti arundìnei, viene ancora usato, anzi sta conoscendo un momento di grande fortuna. È fatto di canna, composto da tre corpi chiamati mancòsa, mancosèḍḍa, tumbu o básciu. La canna più lunga e più grossa, su tumbu, funge da bordone e fornisce un’unica nota continua. Il tubo di media grandezza è la canna melodica, fissata al tumbu e suonata con la mano sinistra (le due canne unite si chiamano croba). La minore delle tre canne (mancoseḍḍa o destrìna) è tenuta libera e suonata con la destra. La tecnica per suonarle è quella di creare la camera d’aria dentro le gote, tenendole costantemente gonfiate. L’etimo è un composto accadico da laḫu ‘mascella, bocca, ganascia’ + nīlu ‘ingolfamento, riempimento, allagamento’: st. c. laḫu-nīlu > launèḍḍas.

6. Etimologie dei lemmi richiamati da Blasco Ferrer

 

Di seguito, non intendo padroneggiare la discussione ma piuttosto seguire l’esposizione fatta da EBF nel libro Paleosardo; durante la quale mi concederò di esprimere, dove necessario, dei giudici equilibrati, ma disincantati, pronto a condonarne persino gli errori, che però sarò costretto a evidenziare, allo scopo di rendere un servizio scientifico agli specialisti e al comune lettore. A parte gli argomenti sui quali mi soffermerò inseguendo le occasioni, interverrò passo passo con puro metodo etimologico, cercando di precisare o correggere la fisionomia di tutti i personaggi, popoli, terre, argomenti, o lemmi, che EBF introduce e consacra nel suo libro mediante le etimologie.

Credo comunque propedeutica al mio intervento una puntualizzazione su un modo di procedere assolutamente ametodico di EBF, laddove intende castigare i difetti dei linguisti precedenti sostituendoli coi propri che (inavvertitamente) dichiara come verità. Il lettore attento s’accorgerà che il libro Paleosardo è zeppo di corti-circuiti. Qui di seguito, come esempio, cito soltanto due affermazioni di pag. 28, in cui egli attacca alcuni sostratologi italiani per due difetti: 1. «l’abnorme concezione d’una ancestrale unità cultural-linguistica che abbracciasse regioni del Mediterraneo», ch’egli distrugge in favore d’influssi bene individuati che a lui stanno più a cuore (quelli ispanico-baschi); 2. «l’assoluta priorità, nel metodo di scavo e confronto delle radici sospette, assegnata alla pura omonimia o somiglianza formale, a volte con disinvolti accostamenti di radici».

Circa il punto 1, ho già discusso più su l’inaccettabile metodo di EBF, il quale nei rapporti mediterranei vede la dominanza dell’influsso basco, iberico, persino catalano (2000 lemmi: un’esagerazione!). Circa il punto 2, nell’intero suo libro, pagina dopo pagina, si può scovare una miriade di accostamenti (vedili qua appresso elencati e numerati), che nella loro allarmante arbitrarietà vanno ben oltre gli accostamenti naïf dei suoi predecessori.

Virtualmente, EBF va al fondo della materia soltanto da p. 89 del suo volume, dopo gli sconvolgenti preamboli cui ho fatto più volte cenno. Egli comincia ricordando la tradizione mitografica che fa risalire a Norax una prima colonizzazione iberica della Sardegna proveniente da Tartessos. E tra l’altro sostiene che la tribù montanara degli Ilienses ha il nome di un popolo iberico. Prendo quindi le mosse da Norace.

1) Norace (P 89). Secondo Sallustio (II, 6-7) è figlio di Hermes e di Eritìa figlia a sua volta di Geriòne. Sappiamo che Geriòne stava in agguato sull’isola di Eritìa (sull’Atlantico, forse alle foci del Guadalquivir), pronto all’eterna lotta serale contro il Sole soccombente.

Secondo Pausania X 17,5, gli Ìberi, dopo Aristéo, si trasferirono in Sardegna sotto la guida di Norace/Norake (Νῶραξ, Νώρακος) e da essi fu fondata la città di Nora. Solino 4,1 ricorda: «Non importa dunque narrare come Sardo, nato da Ercole, Norace da Mercurio, l’uno dall’Africa e l’altro da Tartesso della Spagna, arrivassero sino a quest’isola, e da Sardo abbia preso il nome la regione, e da Norace la città di Nora…».

Giovanni Ugas 24-28 porta una serie di argomenti a favore della parentela succennata, ma poi non riesce a convincere, non fosse altro perchè Nora risale al 1000 a.e.v. (750 a.e.v. secondo Ugas), mentre Noráce risale (secondo Ugas) all’Età del Vaso Campaniforme ossia al 2100 a.e.v. Allora dobbiamo affermare che questo mito sulla fondazione di Nora, sortito dalla febbrile immaginazione greca, pare nato per la casuale parentela fonetico-semantica tra Norace e Nora.

Noráce (o Nòrace) è in realtà un classico stato-costrutto accadico, formulato a prescindere dall’esistenza di Nora. Ha un etimo accadico, risalente proprio al III millennio a.e.v.: da nūru ‘luce’ + aḫu ‘strumento’: nūr-aḫu. Come dire, ‘strumento della luce’, classico appellativo rivolto a un eroe che si suppone provenisse dalle ombre del Tramonto verso la luce d’Oriente. Anche nuraghe/nurake sembra avere la stessa etimologia, avendo esattamente la stessa forma di Norace (Nurace = nurake). Infatti il monumento è stato così denominato proprio per essere l’altare del dio Sole (‘strumento della luce’). Per quanto, a mio avviso, la base etimologica di nuraghe sia ancora più arcaica, avente le basi nel sum. nu-ra-gu: nu ‘creatore’, ‘sperma (divino)’ + ra ‘puro’, ‘ fulgido’, ‘splendente’ (vedi egizio Ra ‘Sole che splende’) + gu ‘forza’, ‘complesso’, ‘interezza (di edificio)’. Il composto nu-ra-gu significò quindi ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’. Era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare il Sommo Dio dell’Universo, raffigurato anche come Dio-Sole.

Appalesata l’identità Norace = nurake mediante la lingua accadica, non resta che ringraziare i Greci (Pausania) ed i Romani (Sallustio) per aver tramandato il nome Norace ed averlo legato (nel certo o nell’incerto) a Nora. La cupidigia dei Greci nei confronti di una Sardegna (e di un Occidente) da cui erano tagliati fuori in virtù della talassocrazia sardiano-fenicia, li fece fantasticare assai sulla questione. Ma c’è un fatto singolare, sul quale mai nessun linguista ha riflettuto, ed è che i Greci sono stati i primi nella storia ad aver prodotto il nome del nuraghe (sia pure attraverso il mito di Norace: infatti dal sumerico il nome è soltanto dedotto (da me), mentre in babilonese, come sappiamo, l’altare-torre sopra lo ziqqurath era detto nuḫar). In tutto ciò i Greci ebbero la veste di mediatori – pratica nella quale erano maestri – tra la civiltà accadico-babilonese e quella mediterranea.

Tutta l’etimologia che precede su Norace lascia la questione a “bocce ferme”, nel senso che appare opportuno attenersi alla tradizione greco-romana ed accettare che Norace provenisse dall’Iberia, forse nell’epoca del vaso campaniforme. Anche se la questione resta assai nebulosa.

2) Tartessos (P 89). È termine greco (Ταρτησσός) reso noto anzitutto da Dionigi il Periegeta. È scritto altrimenti in ebraico come Taršiš (e con esso s’indicano tante cose: il figlio di Javan 1Cr 1,7; la regione aurifera Sal 48,8; 72,10; 2Cr 9,21; 20,36.37; un beniaminita 1Cr 7,10; un nobile persiano Est 1,14; figlia di T. Is 23,10; navi di T. Is 2,16; 23,1.6.14; 60,9; 66.19; Ger 10,9; Ez 27,25; Gio 1,3; mercanti di T., Ez 27,12; 38,13; nave di T., 1Re 10,22; 22.49). EBF cita Tartesso con sicumera, facendo intendere, se non altro per via subliminale, che tale città fosse iberica. Si dice che la città (col suo territorio), posta attorno alle rive del Guadalquivir anche se non è stata mai ritrovata, fu in gran relazione con Focesi e Fenici (non si dice degli Shardana, ma sembra prioritario, visto l’uso che gli Shardana fecero del bronzo), appunto quale fornitrice di stagno. Nessuno ha voglia di ricordare che la Sardegna produceva stagno nelle miniere intorno Gonnosfanadiga-

Molti commentatori hanno trovato stravagante pensare che il toponimo (o coronimo) della Bibbia si riferisca alla stessa regione atlantica, anche perché i testi biblici parlano di oro, non di stagno. È possibile dunque che gli Ebrei indicassero altro territorio, non solo per l’oro ma per la fonetica terminante in –šiš. Pressochè tutti i ricercatori attorno al Guadalquivir non hanno sinora trovato la menoma traccia di Tartessos.

A mio avviso, la radice del termine Tartessόs (o Taršiš) è anch’essa mediterranea, come tale reperibile anzitutto nelle lingue accadica e sumerica. Propongo pertanto come base etimologica lo stesso radicale che troviamo in Tharr-os (antica Thar) e in Tha-Thar-i (ossia Sàssari, antica Tha-thar) col significato di ‘augusta, eccellente’ (vedi la semantica delle attuali Austis e Aosta) + sum. teš ‘pride, orgoglio’. In Ṭar-teš (senza il fuorviante suffisso greco –os) leggiamo quindi ‘Augusta e Orgogliosa’ (appellativo più che meritato). Quanto alla forma ebraica Taršiš, o Ṭaršiš, può avere alla base la composizione accadico-sumerica Ṭar– ‘Augusto’ + šeš ‘ungere’, col significato di ‘Augusto (paese) dei profumi’: infatti la maggioranza dei ricercatori colloca la regione biblica verso il tropico, sul Mar Rosso, donde provenivano i profumi d’Israele. Come si può notare, ogni bacino d’utenza aveva una regione precisa cui riferire le produzioni di maggior bisogno. Israele aveva la sua, ma altri popoli miravano ad occidente, sembra proprio alla Sardegna ch’era piena di minerali, e in tal senso la favolosa città portuale di smercio doveva essere Tharr-os.

3) Ilienses. EBF indica, come terza citazione della densa frase a pag. 89, gli Ilienses, che dichiara essere un popolo di origini iberiche. E allora vediamo di capirlo mediante l’etimologia. L’etnico indica, come universalmente noto, un popolo che abitava le montagne all’interno della Sardegna: così chiamato dai Romani. A noi poco importa se i Romani credettero veramente all’origine troiana degli Ilienses, in forza di quell’etnico. Ma se ammettiamo che ci avessero creduto, sorge un forte sospetto: perché i Romani, anziché ingraziarsi in tutti i modi questa antica popolazione “sorella” e farle – come suol dirsi – “ponti d’oro”, l’hanno invece combattuta senza esclusione di colpi (e di mezzi)?

In realtà Ilienses, etnico arcaico che i Romani si trovarono bello e confezionato, ha la base etimologica nel sum. ili ‘uomo’ + en ‘signore, dominatore (ossia libero)’ + še ‘una qualità di latte’: ili-en-še ‘popolo libero produttore del latte X’: ovviamente si trattava del latte pecorino. L’occasione è buona per precisare l’etimo di Ílion (gr. Ἴλιον), termine anatolico con basi sumeriche, da ilu ‘dio’ + unu ‘città’: stato costrutto ili-unu, col significato di ‘Città divina’. Sono curioso di sapere in forza di quale citazione, o argomento, o etimologia, EBF pensa che gli Ilienses fossero un popolo originario dell’Iberia.

Sembra del tutto ovvio immaginare che gli Ilienses siano stati i predecessori di quegli abitatori delle montagne, in seguito e ancora noti come Barbaricìni. Ciò è spiegato persino dall’etimologia del lemma Barbaricìno, composto sardiano con base nell’akk. arbu ‘(montagna) aspra, incolta’ + rīqu(m) ‘libero’ + akk. enu ‘signore, lord’ (stato costrutto arba-rīq-enu > [b]arbarikinu > barbaricínu). Il significato sintetico è ‘libero signore delle montagne’. È noto infatti che i Romani ebbero pieno uso soltanto dei territori di pianura o collinari, ma non di quelli pertinenti agli Ilienses, costituenti l’asse montuoso centro-orientale della Sardegna.

Altro possibile etimo per Barbaricini è arbu ‘(montagne) aspre, incolte’ + aria ‘vuoto’ + kīnu ‘legittimo’ (stato costrutto arb-ari-kīnu), col significato di ‘legittimi (sott. abitatori) del territorio vuoto e incolto’.

4) Balares. La quarta citazione di EBF a p. 89 sono i Bàlari, lat. Balares. Pausania (X, 17,9) dice che i Corsi chiamano βαλαροί i fuggiaschi. La notizia che si tratti di disertori dell’armata cartaginese rifugiati sui monti deve risalire alla fonte di Pausania, che è Timeo (OCE 601). Questo raro termine greco sembra avere a base l’akk. ba’al-ēri ‘signore del luogo, dominante sul luogo’, da fenicio-ugaritico b‘l, aramaico ba‘lā ‘signore, sovrano’ + aramaico ar‛a ‘territorio, paese’. Da questo populus pare abbia preso il nome la Gallùra (vedi appresso). Pittau per induzione pensa che la stessa Pérfugas (vedi) sia stata fondata dai Bàlari, per il fatto che anche Pérfugas significa (in latino) ‘fuggitivi’. Altri studiosi insistono sulla possibilità che i Balares provenissero dalle isole Baleari. Blasco Ferrer lo dà per certo.

Quanto alla Gallùra, nome del territorio a nord-est della Sardegna, fu la base dell’antico Giudicato di Gallùra, in seguito dominato da Nino di Gallùra (eternato da Dante). L’araldica del Giudicato aveva per logo il gallo, ma con tale pennuto la Gallùra non ha parentela.

Il coronimo è molto antico e risale a prima della nascita del Giudicato. Secondo F.C. Casula (Di.Sto.Sa. 199), la Gallùra prese tale nome perché dirimpettaia del Fretum Gallicum (poi Bocche di Bonifacio), detto ‘Stretto dei Galli’ perchè dopo le Invasioni Barbariche la Còrsica appartenne ai Franchi della Gallia, contrariamente alla Sardegna che appartenne all’Impero di Bisanzio. L’ipotesi del Casula non è solo suggestiva: è principalmente realistica, se teniamo conto che la Gallùra, oltre all’identità tra il coronimo e il nome dello Stretto, ha sempre gravitato sulla Còrsica meridionale, essendo da sempre l’autentico punto di sutura tra le due isole, e condividendo anche il linguaggio della Còrsica meridionale, anziché il volgare della Sardegna. Non è un caso se pure in epoca romana gli abitanti della Gallura vennero chiamati Còrsi. E quando il termine latino Fretum Gallicum cessò a favore della lingua volgare, lo stretto fu nominato Bocche di Bonifacio, ancora una volta un termine proveniente dalla Còrsica, non dalla Sardegna.

Sembra quindi confermato che la Gallùra fu sempre, da parecchi millenni e fino a metà del XX secolo, un’appendice della Còrsica, quasi un “dominio” della Còrsica, ed è con tale isola che fanno i conti parecchi fenomeni linguistici della Gallùra.

Ciononostante, occorre ricordare che in epoca romana la parte occidentale dell’attuale Gallura era abitata dai Bálares suaccennati, e si può supporre che Gallura sia ipercorrettismo italianizzante < *Balura/Ballura. Né può scartarsi l’ipotesi che il termine sia più antico, dal sum. bal ‘pietra’ + uru ‘sede, insediamento, territorio’, col significato di ‘territorio di pietra’, in considerazione dell’asperrima natura della Gallura la quale, fino allo sviluppo turistico cominciato 50 anni fa, non fu altro che un territorio a esclusiva vocazione pastorale. Entro questo ventaglio di opzioni possiamo mettere pure che i Balares possano essere stati isolani balearici trasferitisi in Sardegna come colonizzatori. In quest’ultimo caso, potrebbe pure adattarsi a tali colonizzatori l’etimo sumerico testè ipotizzato, vista la natura montana delle Baleari.

 

5) Ìberi. Sono gli abitanti dell’antichissima terra dell’Iberia e della Lusitania. Vi scorre il fiume Ebro che ha la stessa base etimologica; la quale poggia sull’akk. ebēru(m), epēru (v. Epiro, così detto dai Macedoni) ‘attraversare’ il mare, il cielo, ‘coricarsi’ del sole. Con tutta evidenza, rispetto ai popoli del Vicino Oriente (e pure della Sardegna), gli abitanti della penisola iberica furono considerati per antonomasia ‘Coloro che si trovano nel sito del Tramonto’. La stessa cosa va detta per l’Epiro, una terra occidentale rispetto ai popoli balcanici dell’interno.

Se Blasco Ferrer ammette che pure gl’Iberi, così come i Paleobaschi (P 97), ebbero una lingua “anindoeuropea” e isolata, oltreché agglutinante, vuol dire che l’intera penisola iberica (ivi compresi i Pirenaici e gli Aquitanici) prese parte, nel Paleolitico, alla Prima Cenosi Linguistica Paneuropea e Vicino-Orientale, avente il sumero come lingua-pivot.

 

6) Arbatàx (P 11) nomina un’appendice abitata del comune di Tortolì. Originariamente era un’altura scabra e selvaggia, interamente costituita di porfido rosso, elevata sul mare, divisa dall’abitato di Tortolì da una pianura. In ebraico (e in arabo) significa ‘quattordici’. Se fosse arabo, sarebbe l’unico toponimo sopravvissuto alla millenaria talassocrazia che rese insicure le coste sarde, esponendole a sbarchi ed anche a soggiorni prolungati da parte dei pirati del Maghreb e delle Baleari. Però non è dato sapere quale ragione ci sarebbe stata a dare il nome Quattordici a questo ottimo sito da sbarco e da soggiorno. Sarebbe meglio, allora, considerarlo come ebraico arba ‘quattro’, riferito alle miglia che lo dividono da Tortolì. Ma anche così saremmo fuori strada. Arbatàx in realtà significa ‘altura sterile, infruttuosa’ ed ha la base nel babilonese arbūtiš ‘(altura) entro un territorio sterile, infruttuoso’.

L’occasione data da questo etimo mi consente di trattare il lemma sardo Arbu, che EBF ha bistrattato per tutto il suo libro. Normalmente questa è la parte aggettivale di un oronimo: Mont’Arbu, il quale a sua volta è stato talora italianizzato: Mont’Albo. I più celebri sono il Mont’Arbu di Seùi, Montàrbu di Tertenìa e il Monte Albo di Lula-Siniscola. Sono ritenuti degli oronimi di facile comprensione, dal latino albus ‘bianco’ con tipica rotacizzazione in quasi tutta l’isola, almeno nella dizione sarda. A rendere ancora più intuitiva l’etimologia di arbu è l’osservazione che i monti con questo aggettivale sono tutti di calcare, il quale notoriamente è bianco rispetto alle altre rocce.

Ma la faccenda non sta proprio così. C’è calcare e calcare. Quello del Terziario è normalmente biancastro (specie quello di Sassari-Li Punti; un po’ meno lo è quello di Cagliari-Monte Urpinu), ma per lo più ha il colore della crema chiara, talora del caffellatte. Invece il calcare del Mesozoico, cui si riferiscono tutti gli aggettivali arbu, non è affatto biancastro, è marcatamente grigio o persino rosso-ferrigno. Non è, però, che le sue masse non appaiano bianche, da lontano, e talora persino abbacinanti, com’è per il Supramonte di Urzuléi visto dalla statale 125, il quale a momenti sembra una cremagliera innevata, tanto è reso abbacinante dal sole estivo. Strano ma vero, quella roccia calciomagnesiaca appare grigia o ferrigna soltanto spaccandola. Le superfici madreperlacee (e abbacinanti) sono dovute ad uno speciale lichene dal colore biancastro-sericeo che ammanta le rocce dilatandosi in forma normalmente tondeggiante (“lichene-dollaro”), e pure a un altro lichene ancora più biancastro, che occupa ogni interstizio della parete rocciosa.

Ma, a ben notare, l’aggettivale arbu manca proprio a quelle eminenze abbacinanti, che più lo meriterebbero. Già questo aspetto fa riflettere, onde il metodo storico-geografico-ambientale che ci siamo dati nella ricerca deve farci acuire l’immaginazione oltrechè la forza d’astrazione, per capire come potesse apparire la montagna tremila anni fa. Ed allora, per ciò che adesso dirò, la sagoma abbacinante dobbiamo riservarla soltanto alla montagna di Urzuléi, in virtù del fatto che s’oppone tutta intera al sole del mattino, i cui raggi l’impattano perpendicolarmente, rendendo la chilometrica cremagliera spoglia d’alberi uno spettacolo affascinante.

Ma questa montagna, come detto, non ha l’aggettivale arbu. Ce l’ha, invece, il Mont’Arbu di Seùi il quale da sud non è impattato dal sole perché risulta integralmente sub-pianeggiante ed ammantato da una buia foresta di sclerofille. Le sue pareti sono nude e precipiti soltanto a nord, formano paurosi precipizi, ma rimangono in ombra, con una sagoma addirittura tenebrosa. Il Mont’Arbu di Tertenìa ha invece la stessa giacitura del Supramonte di Urzuléi, s’offre all’irradiazione matutina con un impatto perpendicolare ma, ahimè, le sue pareti non sono lisce, anzi sono molto frastagliate, ed in più i licheni non sono affatto perlaceo-sericei. Talchè le sue gugliette appaiono anonime, grigio-terrose, e per soprappiù spuntano dalla foresta in modo insufficiente, con sagomature che dalla statale 125 non attirano l’attenzione dell’uomo, tantomeno l’estro poetico. La montagna di Tertenìa, vista dal basso, con l’occhio dei suoi fruitori, è dunque una sagoma amorfa, un’altura boscosa spersonalizzata che col latino albus non ha evidentemente alcuna parentela. La terza montagna, Il Monte Albo di Lula-Siniscola, è lunga venti chilometri e apparecchia al sole molte pareti stagliate contro la vallata di Marréri-Isalle (agro di Dorgáli). Ma non è tanto lo scintillio dei suoi licheni a fare impressione quando la si guarda dal basso, piuttosto l’asperrima sagoma che mette l’angoscia a qualunque pastore debba inseguire le proprie capre su quelle pietraie mozzafiato, che rendono la montagna paurosa e imprendibile, se non dagli alpinisti. Talchè la montagna non fu utilizzata dai Dorgalesi ma soltanto da quelli di Lula e Siniscola, che ci sono saliti dalle vie più facili, quelle da nord, che accedono alle valli interne ammantate da belle foreste di leccio. Insomma, il Monte è chiamato Albo proprio e soltanto da quelli che, utilizzandolo, ne vedono costantemente la cremagliera-nord, perennemente in ombra.

Da tutto quanto precede, mancano le condizioni per credere che l’aggettivale arbu sia nato, per queste montagne, in contrasto con le sagome montane circonvicine, le quali magari avrebbero un colore meno “bianco”. La precipite e lunga Rocca di Chighízu, in agro di Sàssari, è la più bianca della Sardegna, e nel momento di maggiore impatto del sole appare quasi bianca come le gessose pareti di Dover. Eppure non ha rapporti com l’aggettivo arbu.

Il mistero di questo aggettivo svanisce quando il visitatore s’addentra su quelle giogaie connotate dall’aggettivo, s’affatica sino allo spossamento in una selva paurosa che non è certo fatta di soli alberi: questi servono spessissimo per aggrapparsi, per tenersi, per non precipitare, per non essere inghiottiti da fratture, da voragini che s’aprono a miriadi, terrificanti ed infinite, dove da millenni intere mandrie di bestiame hanno perduto la vita e molti morti ammazzati hanno perduto persino la possibilità d’essere rintracciati e pianti. I vari Mont’Arbu sono le costruzioni naturali più impervie della storia geologica della Sardegna. Ecco perché dobbiamo attingere, per l’etimo, non al latino ma all’antico babilonese arbu che significa ‘abbandonato, incolto, devastato (waste, uncultivated: of meadow and cetera)’. Con la stessa radice abbiamo il coronimo Barbágia, Brabaxiána ed il toponimo Árbus. Ma anche Torralba, Viddalba, Nuraghe Alvo in quel di Baunéi, i vari Monti Arbu o Albo, il Monte Alvàro, e c’è persino l’ormai italianizzato Aspro o Aspru (che ripete la stessa semantica un tempo appartenuta ad arbu).

7) Arbu, Albo. Vedi Arbatax.

8) Maracalagònis, nome di un villaggio situato nel Campidano di Cagliari. È composto dai toponimi Mara e Calagònis; il secondo membro va scomposto a sua volta. Circa il membro Mara, la sua origine antico-accadica è pacifica: da marû(m) ‘grasso, ingrassato’, ‘ingrassare’, ‘nutrire con fieno, ingrassare’; ‘dare in abbondanza’; marû(m) ‘animale ingrassato’; ug. mr’, aram. מרא ‘grasso, ingrassare’. Con ciò viene capovolta la tesi di quanti collegano il lemma al significato di ‘salato’ o addirittura di ‘stagno’, riferendosi al vicino “stagno di Mara”. Calagònis è registrato già in RDSard. a. 1341 come Talagonas, l’anno successivo come Calagone, poco dopo Calagonis. Non ripeto le mie meraviglie (che ho espresso anche per Mandas) sulla leggerezza dei pubblici ufficiali tenuti a registrare il nome del paese, e che in pochi anni danno tre versioni.

Sulla traduzione di Calagònis (lemma col solito suffisso latineggiante in –is), il tentativo di ricuperargli un significato si misura anzitutto, per quanto possibile, col paesaggio e col sostrato geologico. Il territorio di questo doppio paese – pianeggiante od a poggi appena accennati – è dominato da due tipi di sedimenti: 1. marne arenacee epibatiali del Miocene Superiore; 2. conglomerati, sabbie, argille più o meno compattate, in genere a terrazze, del Quaternario. Tale base geologica ha giocato un certo ruolo nel toponimo Mara (vedi); lo stesso valse per Cala-gònis. La traduzione del doppio toponimo Cala-Gonis passa infatti per il sum. kal ‘raro, di valore’ + gunu ‘insediamento, villaggio’, col significato di ‘Insediamento di valore’ (relativo all’agricoltura praticabile tutt’attorno, a suo tempo avvantaggiata – ma senza esagerare! – dal piccolo stagno d’acqua dolce). Ricordo che in Sardegna kala indica pure il ‘ricovero dove si rifugiano le anguille fluviali’. Nel centro-Sardegna kala significa ‘tana della volpe’, ma anche ‘formicaio’. Come si vede, cala diversifica il semantema tra l’Italia e la Sardegna ma anche tra le stesse zone linguistiche sarde.

Un ulteriore approfondimento sul toponimo Cala-gònis è possibile, per rendere più valida l’indagine, ma non aiuta a perfezionare l’etimologia. Comunque sia, in Sardegna cala (vedi lemma) connota anche il ‘litorale con spiaggia stretta e ciottolosa ed alta banchina alluvionale’; in italiano cala significa, tout court, ‘insenatura marina’ (formula più generica rispetto a quella sarda). Cortellazzo e Zolli sanciscono per tale lemma italico una origine preindoeuropea, quindi, disgraziatamente, …ignota (così deduce anche Wagner il quale, ligio ai propri modelli metodologici, sancisce comunque la derivazione italiana del cala sardo).

Disgraziatamente per quei linguisti, l’origine dei due lemmi, sia sardo sia italiano, è notissima, avente la base nell’akk. kālû che significa ‘diga che attornia i campi per trattenere all’interno l’acqua irrigua’, ma anche ‘a type of marshy ground’ ossia ‘un tipo di suolo paludoso’, per estensione indica la parete alluvionale che aggetta sulle spiagge ciotolose. Come si vede, il campo semantico accadico ingloba sia le cale marine sia le cale (o argini) agrari. Considerato il paesaggio delineato per (Mara)-Calagònis, questa contaminazione non riguarda affatto lo stagno di questo territorio.

Per concludere, il nome del villaggio Calagònis (poi fusosi con Mara), ha un’origine geo-economica più complessa e comprensiva del semplice Mara. Mentre questo richiama soltanto gli effetti della condizione ambientale (l’ingrasso del bestiame, o degli abitanti), Calagònis richiama, oltre allo stagno medesimo (allusione indiretta), l’irrigazione, la fertilità dei suoli, i cereali in surplus da conservare; insomma, richiama un territorio benedetto da Dio.

9) EBF P 61 sostiene che Bosa, nome di un comune della Planargia, ha le basi etimologiche nel radicale basco *Osa ‘foce di un fiume’ (con b- prostetica). Lo trovo assurdo. La base sta nel sum. bu ‘perfetto’ + sa ‘accesso, ingresso, porto’, col significato di ‘porto perfetto’, a causa del suo porto fluviale profondo, protetto in sovrappiù da un’isoletta posta al centro dell’estuario. Bosa ricorda in tal caso anche nel nome l’antica vocazione marinara.

 

10) Osserviamo adesso arròa, arròja, orròa, ròja, orròja ‘zenia de canale, badhigru, logu in fundu prenu de abba’ (Puddu), ‘torrentello’, ‘forra al cui fondo scorre dell’acqua’. Il termine è condiviso pure dalla lingua basca: arro ‘tonfano’, ‘bassura (di rio)’; ‘fenditura’, arroil ‘chiavica, fognatura’, ‘cavità’. Ha la base in alcune radici sumeriche tutte ricorrenti per similarità in un campo semantico unificante: ur ‘dragare, trascinare’, uru ‘corrente d’acqua, inondazione, diluvio’, uru ‘pesce’.

11) Bitxi. In sardo beta, bette, bitta, bitti, bithi è un ‘agnellino, capretto, cerbiatto, piccola daina’. La base è l’akk. bittu ‘figlia’; ma la base primaria è il sum. biza ‘bambola, fantoccio’ (z = /tz/). Ha il suo pari nel basco bitxi ‘gioia, giocosità, grazia’, ‘leggiadro’; bitxi– ‘ornamentale’.

12) Kòstike, costi, colόstru ‘acero’ (Acer monspessulanum), ‘rosa di monte’ (Rosa canina L.), ma specialmente ‘agrifoglio’ (Ilex aquifolium L.). Costi è pure cognome. Per il significato e l’etimologia parto da colóstru ‘’rosa di monte’ (Rosa canina L.). Paulis NPPS 362 ricorda una serie di varianti del fitonimo, che ha parentela pure col basco korosti, gorosti ‘agrifoglio’: golóstiu a Bitti, Oroséi; colóstri a Nùoro; golósti’e a Olzái, ‘olósti’e a Orgòsolo; kóstiu a Orani; colóstri a Fonni e a Mògoro; olóstru a Bonorva, Bòrore, Giave, Mores, Oschiri; olóstiu a Bono; olósti a Dorgali; olostríghe a Santulussùrgiu. Pur non affermandolo, sembra propendere per la parentela strettissima sardo-basca, se non addirittura per una derivazione del fitonimo sardo dal basco. Così pure Blasco Ferrer (P 90), per quanto questi propenda per una base basca gaztigar ‘acero’.

La proposta di Blasco sembra dare il destro alla giusta intuizione etimologica, già suggerita peraltro dal suffisso –r tipicamente sumerico. La base è il sum. ḫuš ‘pianta’ + akk. ṭēḫû (dall’aramaico): ḫuš-ṭēḫû ‘propagatore di briciole’. L’albero ebbe evidentemente tale nome per il fatto che le sue samare alate volano come insetti rotanti, planando tutt’attorno. L’esistenza del termine basco fa capire che il fitonimo appartiene alla Prima Grande Cenosi Linguistica (paleo-neolitica), e quindi che il fitonimo fosse espanso un po’ in tutta l’Eurasia, ivi compresa la Mezzaluna Fertile. Ma a Blasco suggerisco di rinnegare la pretesa parentela di gaztigar col lat. gelicidia.

13) Kúkkuru (P 125) ‘cima appuntita’ ma anche ‘sommità del cranio’; deriva da base corrispondente ad akk. qaqqadu, ugaritico qodqd, ebr. qōdqōd ‘capo, vertice’, con rotacizzazione sarda conservata dalla più antica base sum. kur ‘monte’, con termine raddoppiato: ku-kur. Cfr. sanscrito kāhra ‘duro’. Per il fenomeno del raddoppio della radice, cfr. gr. Κάρχαρος ‘che morde’. Suggerisco a Blasco di lasciar perdere la pretesa parentela di kúkkuru con *goni (lemma da lui asteriscato nonostante che in Sardegna esista veramente), poiché questo è dal sum. gune ‘centro di culto’, mentre egli forse voleva riferirsi all’akk. gennu, ginnu, kinnû ‘montagna’, anche questo incongruo ai nostri fini.

14) Eni ‘tasso’ (Taxus baccata) in Ogliastra. Vedi P 90. Paulis NPPS tenta una ricostruzione etimologica impossibile, partendo dal basco agin ‘tasso’ e finendo col prelatino acinus ‘bacca’: tutti lemmi foneticamente incommensurabili col nostro. Sarebbe più corretto cominciare a conoscere meglio quest’albero venerando per quello che rappresentò nel territorio montano della Sardegna. Esso fu un vero signore delle foreste (lo fu, ahimè, sino a che i tagliatori di fine Ottocento non lo prelevarono ab imo, lasciandone per puro errore solo qualche esemplare nel Supramonte, ad Orthachis, presso la vetta del Monte Rasu, ed uno solo nel Monte Lattias, in una forra donde fu impossibile prelevarlo. La base etimologica del fitonimo sardo è, a mio parere, l’akk. enu(m) ‘lord’, sum. en ‘lord’, perché un tempo dovette essere proprio il signore degli alberi.

15) Per golosti (Blasco Ferrer P 90), vedi al già discusso kòstike.

16) Giágaru, giácaru, agiágaru, zágaru ‘cane da caccia’. Blasco Ferrer P 90 lo collega al basco txakur ‘cane’, zakur ‘cane grande’. Anche stavolta Blasco porta all’obiettivo, e il termine sardo-basco mostra una nitida origine sumerica, da zaḫ ‘spostare, traslocare, trascinare’ + ur ‘cane’, col significato di ‘cane da caccia’. Il termine sardo è il più vicino a quello sumerico.

17) Mόgoro ‘collinetta’. Anzitutto è il nome di un comune dell’Oristanese. Il toponimo è attestato in RDSard. a. 1341 come Mogro, poi Mogoros infine Mògoro. Vedi Mogorella e mògola. È interpretato come ‘collina’, cfr. basco mokor ‘picco, punta’, catal. ant. mugarón, moguró, muguró ‘capezzolo’. Cfr. akk. makurru, makkūru, maqurru ‘gibbosità, gobba della luna crescente’. Ha la base etimologica nel sum. mu ‘crescere’ + kur ‘montagna’, col significato di ‘montagna che cresce’ (ossia, che è ancora piccola). È possibile l’ipotesi di Blasco Ferrer (P 90) che il lemma sia imparentato pure col lat. mūcrō.

18) Sakáju, sakája ‘capretto di un anno’. Secondo Blasco Ferrer P 90 è da collegare al basco sekail ‘(bestia) magra’. A tutta prima potrebbe sembrare congruo. In ogni moddo, Blasco non fornisce neppure l’etimologia.

Saccája log. e camp. ‘agnello, pecora o capra di un anno’, che ha raggiunto l’età in cui può essere ingravidata. Wagner sostiene che il termine derivi da saccu ‘sacco’, e questo dal fatto che l’utero delle femmine saccaie è finalmente in grado di concepire. Nel sostenere ciò Wagner viene influenzato dal Corominas, che pensa allo stesso modo. Ed ovviamente tutti gli studiosi che hanno affrontato il problema ritengono che il termine sardo derivi da consimili voci iberiche (cat. sagall). Ma intanto nessun linguista ha osservato che in sardo esiste principalmente il maschile saccáju (registrato dal Wagner come lemma portante), ed un saccáju non può affatto suggerire l’idea della gravidanza. In realtà Wagner e Corominas hanno ragione a legare questo lemma al saccu, che però non è affatto il sacco dell’utero. Il termine ha la base etimologica nel bab. saqqu(m) ‘tessuto da sacco’, e si ricollega al fatto che l’agnello, raggiunto l’anno, è finalmente adatto ad essere tosato e fornire lana da tessere, diventando “saccàju, saccàja” (aggettivale).

19) *Goni. Blasco Ferrer P 90 si ostina a rendere questo lemma con l’asterisco, mentre in Sardegna esso esiste davvero. Goni è il nome di un comune del Gerréi. La radice del toponimo è il sum. gune ‘centro di culto’. Dovette esserlo in ragione del suo alto nuraghe, ma anche dei suoi menhirs, alcuni dei quali raggiungevano altezze tipo obelisco, almeno a giudicare da quello da me visto, spezzato in tre parti, che misurava attorno ai 10 m. Con questa etimologia diamo un colpo di spugna alle ipotesi che tendono ad affratellare i toponimi di questo tipo all’akk. gennu, ginnu, kinnû ‘montagna’, anche perché tutt’attorno al villaggio non si riscontrano altro che poggi. Stesso radicale e stessa semantica di Goni abbiamo per il nome del villaggio di Fonni (Onne: vedi).

20) Óspile ‘luogo fresco per ricoverare il bestiame’. È forma allotropa di cungiáu ‘pascolo chiuso da muri’. Significa anche grutta, selcia ‘grotta, spaccatura nella roccia’, ‘logu chi istat meda in umbra’. Ad Urzuléi indica anche il ‘burrone’ di ridotte dimensioni. Blasco Ferrer (P 90, 111) fa notare che il termine «deriva linearmente dalla base basca ospil < hotz-bil ‘luogo fresco’». Egli precisa che «nella toponomastica sarda sono numerosi i composti con l’aggettivo ‘freddo’, nell’area più arcaica della Barbagia, della Baronia inferiore e dell’Alta Ogliastra, e tutti con riferimento a ‘corsi d’acqua’, a ‘terreni bagnati da vene’, a ‘ripari coperti, ombrosi e dunque freschi’, a ‘colline e terreni in generale esposti a nord’». Ma la dimostrazione che ne segue, esposta sulla scorta delle informazioni dell’olzaese Oliviero Nioi, non è tra le più convincenti. In ogni modo, Blasco non fornisce alcuna etimologia, lasciando credere, subliminalmente, che il termine basco sia la vera base arcaica. Non ne sono affatto convinto.

La base arcaica del lemma sardo è invece il sum. ‘recipiente’, ‘chiudere, sigillare, bloccare’ + bilam ‘animale’: uš-bilam, col significato di ‘chiusura per animali’. La base basca, in virtù della b– del secondo membro (di hotz-bil), pare la più vicina all’origine sumerica, rispetto al lemma sardo.

 

21) Aùrri ‘carpino nero e bianco, carpinella’ (Carpinus betulus, Ostrya carpinifolia Scop.). Fitonimo citato da Blasco Ferrer P 90, nonostante ch’egli confessi la scarsità di correlati in area basca. Ma io ho già tradotto il termine qualche anno fa in “Flora Sardōa”. Sarebbe stato opportuno che Blasco l’avesse consultato prima di vagare nel vuoto. Pittau (LSP 88) lo associa a tanti toponimi inadatti che di simigliante hanno soltanto la forma del radicale, non il significato. Infatti forme come Aurreddus, Aurracci, Urracci, Saurrecci, Zaurrai sono da ricondurre alla laura, ossia al ricovero in pietra dei monaci bizantini, non al carpino. Vedi per essi il lemma Tepilòra.

Prima di proseguire, ricordo che in Sardegna le uniche due foreste naturali di carpino nero si trovano su due fiancate montuose (palas) entrambe con pendenza di rottura, l’una situata a nord e l’altra ad est, immediatamente alla base delle bastionate carsiche di Mont’Arbu di Seùi e del plateau di Villanovatùlo. A meglio precisare, le due foreste insistono proprio in un sito ubertoso, con ottima terra granigliosa ed aerata, costantemente inumidita dalle micro-scaturigini dell’immensa area dolomitica. La forma sarda aùrri deriva direttamente dal babilonese aburriš “in a green pasture”, “to lie/dwell in a green meadow, vivere in un prato verde” o, che è lo stesso, da aburru “water-meadow, prato irriguo, pastura, pascolo”.

22) Ili. È un morfema paleoiberico (P 97-98 e passim) che EBF – sulla scorta di vari studiosi spagnoli – crede d’individuare in una serie di toponimi, quali Iliberris (‘città nuova’) → Elvira → Granada, Elne, Ilerda → Lleida → Lérida, Iluro, Ilici, e tantissimi altri. Egli ricorda le difficoltà e gli scontri culturali che stanno portando, passo passo, a tratteggiare una larvata fisionomia del Paleoiberico. Non è il caso che anch’io mi soffermi a ingarbugliare la questione. Se però potessi dare un contributo, indicherei il parallelo di ili col toponimo anatolico Ílion (gr. Ἴλιον) avente basi sumeriche, da ilu ‘dio’ + unu ‘città’: stato costrutto ili-unu, col significato di ‘Città divina’.

23) Ala termine toponimico sardo. EBF (P 99) nota che in basco la base odierna del toponimo ala designa i ‘terreni destinati al pascolo’ o anche ‘l’azione stessa del pascolare’. Faccio notare che in Sardegna il toponimo, spesso rotacizzato e quasi sempre inglobato in un sintagma, parla di un sito prevalentemente agrario, del quale s’individua un’area specifica: ara, ala ‘parte di un luogo più vasto’. Ha la base etimologica nell’akk. âlu ‘tagliare, resecare’, ma anzitutto nell’aram. ārāʽ ‘terra (in senso universale)’, akk. ārā ‘terra, territorio’. Vedi Arelò ed Aritzo, ma anche Alà ed Ales, tutti col concetto di ‘territorio, sito’. Cfr. il sum. al ‘zappa, marra’. Da osservare che in akk. abbiamo ālu anche come ‘città, villaggio’. Facile osservare che âlu ‘tagliare, resecare’ e ālu ‘villaggio’ rientrano in un campo semantico che tende a fonderli. Va da sé che già anticamente le differenze semitiche ārā e âlu, ālu furono sentite, almeno in Sardegna, molto similari – anche concettualmente – e presto divennero fungibili, scambiabili.

In ogni modo ara, ala fa parte pure del sintagma Paùli Ara, dove non si ricaverebbe il concetto di ‘territorio’ ma quello di ‘granaio’ (akk. arû). Ciò per il fatto che il terreno contermine doveva essere utile alle coltivazioni a causa dell’acqua disponibile. Ma non è detto. È più congruo pensare al nome di un proprietario o possessore dell’area umida. Infatti, nel segnalare che Ala è anche un attuale cognome arabo (palestinese), segnalo pure il cognome sardo Ara, già documentato in CSMB 178, 179 e CSMS 252; interpretato dal Pittau come sardo ara ‘brezza fredda’ < lat. aura; in alternativa, come log. ara ‘seminato’ deverbale di arare; oppure come variante barbaricina del cognome Fara; in ultimo come italiano ara ‘altare’. Manconi cita anche EA (de Aras) e lo ritiene dal log. ara ‘ramo spinoso’ < lat. vara ‘verga, ramo forcuto’. Ricorda inoltre che è un cognome pure spagnolo. EBD lo riconduce all’ebr. Ara (1Cr 7, 38), Arah (Ezr 2,4). Indubbiamente, il fatto che il cognome sia presente nelle più antiche carte della Sardegna e che sia registrato direttamente nella Bibbia, non lo accredita come spagnolo tout court ma lo fa derivare con certezza dall’aram. e akk. ārāʽ ‘terra, territorio’: > sardo ara, ala ‘territorio, angolo o porzione di territorio’. Ovviamente, anche il cognome spagnolo partecipa della stessa etimologia di questo cognome panmediterraneo.

24) (H)Aran. Secondo EBF (P 100) «si tratta di una delle testimonianze più cogenti per la ricostruzione storico-linguistica. La radice è tipicamente paleobasca, e si trova ben rappresentata nella toponomastica ispanica settentrionale, anche in nomi semplici o composti che trovano pieno riscontro nei nomi di luogo sardi, quali Arani, attestato in età antica nelle Asturias (sd. Arani), Arance, un affluente del Luy-de-France nei Pirenei atlantici (sd. Aranzu), i numerosi Arambeltza, che corrispondono perfettamente a sd. Araunele, –o, –u, e infine un Barranco Aran in Aragona (e cfr. più avanti Ortarani). Ho già detto che aran suole designare, per mera contiguità semantico-referenziale (o metonimica), non tanto le ‘valli’, quanto piuttosto i ‘ruscelli’ e le ‘fontane’, e anche le ‘alture’ che coi rispettivi costoni generano le depressioni orografiche. I toponimi sardi Arana, un monte a poca distanza dalla sorgente chiamata Urpes, e Aranzu, designazione di una fonte nei pressi di Irgoli, calzano ad unguem con questo significato basilare. Di rilievo per le considerazioni che svolgerò a proposito dell’iberico *ORTU è la testimonianza di Ortarani a Urzulei: un sopralluogo condotto personalmente con i miei informatori ha confermato che si tratta di una ‘vallata stretta’ sul Supramonte, dove si trovano corsi d’acqua e sorgenti».

Debbo ammettere che il metodo etimologico di EBF è molto discosto dal mio. Forse non s’incontreranno mai, poiché io non sopporto quell’approccio meramente ideologico, ossia basato “a tavolino” sulla scorta di omofoni (forniti peraltro da altri accademici) approntati senza che l’indagine ambientale (esercitata dal vivo con le competenze geografiche e naturalistiche delle quali mi sono sempre avvalso) entri in azione come un setaccio, al fine di separare nettamente, tra le radici identiche o similari (e sulla scorta dei dizionari antichi!), i singoli significati e, quando sono evidenziabili, le reali differenze semantiche. Il poter impugnare un fascio di radici omofoniche non autorizza a fare “di tutte le erbe un fascio”, specialmente se le omofonie sono accattate da due aree lontane come quella basca e quella sarda. Tanto per cominciare, io lascio a EBF la responsabilità di confrontarsi con le radici basche da lui profuse nel suo libro. A me non sarà possibile farlo (eccetto i rari casi che di volta in volta indicherò), poiché considero già un grosso azzardo cimentarmi a identificare (alcuni) toponimi sardi, visto che solo in Sardegna (solo nelle sue poche plaghe dove ho realmente studiato l’ambiente) posso esercitare le mie competenze ambientali e geografiche, affinate in decenni di studio meticoloso. Tutto il resto è aleatorio. Soltanto un temerario che abbia in poca considerazione le aspettative del lettore può proporre con sicumera dei paralleli-identità sardo-baschi senza le necessarie e rigorose verifiche ambientali. Io la considero un’avventura onirica. Ciononostante, mi è forza seguire le elucubrazioni di EBF al fine di poter fornire al lettore la mia interpretazione dei fatti, sempre in relazione alla Sardegna.

Comincio, a caso, dal toponimo Ortarani di Urzuléi. La carta topografica lo riporta due volte, a 1 km di distanza l’un l’altro, con la grafia Ortorani. E qui cominciano i problemi, poiché vorrei sapere se il cartografo di fine ‘800 abbia ipercorretto la pronuncia Ortarani in Ortorani credendolo l’equivalente dell’it. ‘ortolano’. Se fosse Ortorani, qualcuno potrebbe scinderlo anche in Ortu ‘e Orani, come dire ‘orto di Orani (cognome)’. Lecito. Ma in quest’area supramontana vigono gli usi comunistici, quindi va scartata una proprietà (l’orto presuppone la proprietà: non è come l’esercizio del pascolo). Peraltro conosco bene i siti dei due toponimi, oltre alla roccia c’è solo argilla (per giunta scarsa): arduo impiantarci un orto. Inoltre i due siti stanno in aree carsiche, prive d’acqua: l’orto non è possibile. Infine i due toponimi insistono su plaghe completamente rocciose: quale orto possiamo ipotizzare? Vada quindi per Ortarani, anche se non ho mai accettato a cuor leggero le pronunce proferite dai residenti, gente avvezza alla paronomasia, pronta a sbagliare credendo d’essere nel giusto. Ma occorre fare di necessità virtù.

Tuttavia è un secondo problema che mi porta allo scontro con EBF. Egli sostiene che le radici basche aran (e pertanto anche quelle sarde) sogliono designare «non tanto le ‘valli’, quanto piuttosto i ‘ruscelli’ e le ‘fontane’, e anche le ‘alture’ che coi rispettivi costoni generano le depressioni orografiche». Ma nel Supramonte non ci sono sorgenti, né ruscelli, né costoni ruscellanti. È tutto un immenso deserto: lo dicevo già nello scartare l’ipotesi Ortorani. Perché EBF sostiene di aver constato di persona lo stato dei luoghi? Secondo me, non lo ha fatto. Se non s’intende di geologia, di ambiente e di storia locale, perché si è affidato ciecamente alla superficialità degli informatori? Cosa dirà, adesso, ai suoi colleghi cattedratici che dalla Spagna gli hanno passato le loro brave informazioni? E mi domando se quelli pure abbiano fatto lo stesso lavoro “a tavolino” fatto da EBF. Se così fosse, siamo nel mezzo di ipotesi idealistiche, non realistiche.

Ma l’analisi dei due toponimi non è terminata, almeno da parte mia. Uno dei due toponimi è chiamato Cuìle Ortorani, quindi è segno che c’era un ovile. L’ovile (che per la verità era caprile) veniva impiantato normalmente nei rari siti dove la pioggia gocciolante dalle rocce s’insaccava nei presethos, i quali venivano coperti con sassi a piattabanda per impedire l’inquinamento da parte del bestiame. Era l’unica fonte idrica del pastore. Quando s’esauriva, occorreva scendere al paese. Il secondo toponimo Ortorani segnala una “scala” ossia una discesa quasi precipite da una cresta montana alta 1200 m. Si osservi che queste montagne sono dolomitiche. Figurarsi se proprio qui possiamo trovare acqua. Si trova solo pietra.

Dopo l’esame ambientale dei due toponimi, eccomi all’esame linguistico. EBF sostiene che la radice paleobasca aran è «una delle testimonianze più cogenti per la ricostruzione storico-linguistica» sardo-basca. E allora comincio dall’elenco fatto dal Paulis (I nomi di luogo della Sardegna 426): M.Arana (Torralba), Aranache (Orune), Sorgente Aranamò (Buddusò), Arancola (Cuglieri), Sorgente Arani (Fonni), Nuraghe Aranna (Lodine), Sorgente Arannulu (Desulo). Chi mi garantisce che la radice sia aran, e non che alcuni dei toponimi, com’è probabile, siano segmentabili in ara– + secondo membro? E se la a– di aran– fosse talvolta una protesi eufonica, e che quindi la vera radice fosse ran– o altro ancora? Tutti questi problemi sono tali da far tremare. E sono soltanto all’inizio.

Ci sono casi in cui i problemi si complicano per la diversità di pronuncia di una radice, secondo i cantoni linguistici, talchè si crea il fenomeno degli allomorfi, i quali non sempre sono riconducibili a un prototipo. Questo qui poi – che sbocci in vari allomorfi o rimanga identico a se stesso – può cambiare significato di zona in zona. Esempio, i tre allomorfi aranìle, (b)eranìle, beranìa nel Nuorese indicano lo ‘sterco degli animali ammassato per letamare i campi’. Ma nel nord Sardegna indicano il ‘maggese’. Due significati assai diversi da quello proposto da EBF. Si potrebbe immaginare il confronto dei tre lemmi col lat. veranum (tempus) ‘tempo di primavera’, cui aderisce la semantica di akk. eru, aru ‘produrre, concepire’, ‘ramo, fronda’. Ma la questione si complica quando andiamo ad analizzare proprio il vocabolo sardo eránu, indicante normalmente la ‘primavera’, che crediamo il prototipo dei tre. Esso significa sempre ‘primavera’, o abbiamo delle eccezioni? Esempio, per Baccu Eránu nel Supramonte di Baunéi si potrebbe ipotizzare un ‘canalone della Primavera’? È arduo ammettere una denominazione legata alla primavera la quale evoca la micro-transumanza stagionale, vista l’omogeneità territoriale ed ecologica di questo vastissimo territorio, che non ammette transumanze. La selvaggia e asperrima località cui appartiene il toponimo fa propendere per altro etimo. Considerato che l’intero Supramonte è un noto biotipo a Quercus ilex in purezza, per Eránu va immaginata la base sumerica eranum ‘albero’, ‘un tipo di albero’. Quindi Baccu Eránu sembra significare in origine la ‘gola ricca di alberi, ricca di lecci’. Ma pure tale base sumerica mi lascia perplesso. E non mi si venga a dire che io sono un perfezionista, un ambientalista impenitente; risponderei che il prelievo del legno nelle gole è sempre stato un problema economico di rilievo. A che valeva prelevarlo in quella gola infernale, se tutt’attorno c’erano aree meno impervie e foreste di lecci più curate? E allora, diciamolo che Baccu Eranu nel selvaggio Supramonte di Baunéi indica qualcos’altro. Basta transitarci per rischiare l’infarto, masso su masso, rovine dopo rovine, dislivelli paurosi: impraticabilità assoluta. E allora, ecco che “l’ultima spiaggia” in questa orribile gola ci viene incontro col toponimo Arágnos. Può essere la soluzione? Vediamo.

Riceve questo nome un boschetto di Taxus baccata sopravvissuto allo sterminio della foresta del Gennargentu, la quale un tempo permaneva oltre q. 1700. Il boschetto fiorisce in mezzo alle “rovine” di Su Sciùsciu, da dove nemmeno gli incendi lo possono sloggiare. Infatti Su Sciùsciu (vedi) è un immenso ammasso di porfidi frantumati da millenni d’intemperie.

Ortu is Arágnos-Aráncios suona come ‘orto dei ragni’ oppure ‘orto degli aranci’, ma è una paronomasia. La base etimologica del sardo ortu ‘giardino, orto’, con riferimento al boschetto, è da sum. ur ‘recinto (di orto)’ + suffisso aggettivale tu (per il concetto di ortu, cfr. l’aggettivale it. chiudenda). Arágnos ha la base nel sumerico raḫ ‘rompere, frantumare, sbriciolare’ + nud ‘distendersi, sdraiarsi’: raḫnud ‘rovina (di pietre) espansa’. Ortu is Arágnos significa ‘giardino cresciuto sulla rovina di pietre espanse’.

Questo toponimo apre pure alla comprensione dell’antico significato di Golfo Aránci, nome oggi attribuito a un villaggio sorto dal nulla nel secolo scorso (proprio come sorse dal nulla Stintino) e rapidamente cresciuto in pochi decenni, infine reso autonomo da Olbia, di cui, munito di moli e porto artificiale, è diventato un’appendice commerciale. Un tempo il toponimo apparteneva all’intero promontorio costiero: lo ricordo bene, da quand’ero bambino, e si può leggere pure nelle vecchie carte. Tale golfo è assai valido per la difesa dalle tempeste di Tramontana, e da quelle di Maestrale, e sembra ovvio che qualunque nave nell’antichità vi si rifugiasse rapidamente al fine di navigare in sicurezza sotto costa sino al vicino porto naturale di Olbia. L’accostamento non ebbe giammai il fine di approdarvi, viste le ininterrotte scogliere.

La paronomasia ha giocato brutti scherzi agli sprovveduti, e nacque persino la leggenda che una nave carica di arance abbia naufragato presso la sua riva. Altri “sapienti” fecero invece notare che (Golfo) Aranci non è altro che un ipercorrettismo del gallurese ranci ‘granchi’, quindi dovremmo tradurre ‘golfo dei granchi’. In realtà questo golfo, noto per avere ospitato una folta colonia di mufloni proprio in riva al mare nonchè sul monte retrostante, deve il nome al fatto che, nonostante l’arcuato e alto promontorio sia un baluardo contro i venti di tempesta, tutto il territorio sino al mare è (fu, prima delle edificazioni) un parossistico ammasso di rocce che rendono inapprodabile il litorale e invivibile la terraferma. Da qui il nome antichissimo, identico a quello del toponimo nel selvaggio Gennargentu. Pari toponimo abbiamo in Baccu Arángios, una ripidissima pietraia boscosa ai cui piedi sorge San Gregòrio (vedi), piccolo agglomerato di ville nell’agro di Sìnnai. La sua conformazione (una depressione orografica colma di rocce e maquis) esplica fedelmente il significato da me evidenziato. Pari significato ha dunque il già discusso Baccu Eránu. Quanto ai citati Cuile Ortorani e Scala Ortorani, restiamo nella stessa fattispecie, ovviamente dopo aver fatto salvo il primo membro Orto– (EBF direbbe orta-) che ha i giusti riferimenti nei toponimi sardi Ortacesus, Ortákis, Ortái, Ortìni, Ortobéne, Ortonùle, Ortorutta, Ortu, Ortuábis, Ortu Cammínu, Ortuéri, ecc. Lascio perdere, perché assurda, la proposta di EBF di considerare la radice Orto– come tautologica del basco aran ‘valle’ (P 122). Lungi dal proporre ideologie “da tavolino”, che tutto unificano senza discernimento di sorta, io sostengo invece la necessità di analizzare ogni lemma per conto suo, non solo per capire bene (de visu!) l’ambiente che ha generato quel toponimo, ma pure per confrontarsi, liberando la mente da preconcetti, con la variegata “legge della segmentazione variabile” (ab-cd-ef, abc-de-f, a-bc-def, abc-def, ab-cdef, a-b-cdef…) da me esposta nella Prefazione. E allora, vediamo qualcuno dei toponimi testè citati (che poi ritroveremo nel Dizionario Etimologico).

Ortacésus, comune della Trexenta. L’etimo sembra essere l’akk. urû(m) ‘stalla’ o ‘stallone’ (riferito specialmente agli equini) + taḫu ‘giovane animale’ (stato costrutto: ur-taḫ– + suff. sardiano –ésu). Quindi sembra un aggettivale riferito all’allevamento del bestiame; l’area, prima che i Punici la destinassero con la forza alla coltura del grano, fu un sito vocato all’allevamento del bestiame, specialmente equino. Questo, a ben vedere, è lo stesso etimo del toponimo Ortákis.

Orthakis, sito pianeggiante in territorio di Bolòtana, nell’area sub-cacuminale della cordonata vulcanica del Marghine. È ricco d’acque, anzi ci nasce proprio un fiume, il rio Mannu. La radice ort-, il tema ort-a– oppure il composto or-ta-, sono troppo comuni in Sardegna perchè manchino buone ragioni di attribuirli meticolosamente con competenza. La base etimologica è l’akk. urû(m) ‘stalla’ o ‘stallone’ (riferito specialmente agli equini) + taḫu ‘giovane animale’: stato costrutto ur-taḫ-, col significato di ‘(sito d’allevamento per) giovani stalloni, per puledri’, quasi a indicare che la feracità di questi pascoli consente i migliori allevamenti.

Ortái. La Sedda Ortái sta accanto a Nùoro, ma il toponimo Ortài è pure dell’agro di Orotelli e Burcéi. Non può essere un caso che Ortái sia il nome di una sella. Le selle ed i pianori furono, nell’alta antichità, i siti privilegiati per le osservazioni astronomiche. A mio avviso, Ortái è un arcaico composto sardiano, basato sul sumerico uru ‘sito, insediamento’ + uttu ‘calcolare, numerare’ (ur-uttu > ur[ut]tu + suffisso ebraico –ái). Fu dunque, per antonomasia, il ‘sito delle osservazioni astronomiche’. In ciò era affratellato all’area piana e cacuminale del Monte Ortobène.

Ortìni. Toponimo del Supramonte di Olièna indicante il cognome dell’antico detentore del luogo (evidentemente un capraro). Questo cognome è uguale al log. cortina ‘circonferenza dell’albero appositamente mondata per raccogliere i frutti’, come si fa per le olive, noci, ecc. Deriv. di corte < lat. cohors, obbligatoriamente da confrontare con Gortyna, Cortona, Crotone, e persino con Creta nonchè Cirte dei Pelasgi Perrebi, secondo Semerano (PSM 49) che propone per quei lemmi italici e greci la base comune nell’akk. qaritum, ugaritico qrt ‘città’, ebr. qeret, aram. qarta. In questo caso Ortini in quanto cognome avrebbe il valore generico (e antichissimo) di ‘fortezza, rocca’.

Ortobène, Orthobène, Orthovène è il monte granitico che a oriente fa da vedetta a Nùoro dall’alto di mille metri. Monte venerato, coperto di foresta, dotato di sorgenti. Per ricuperare l’etimo ci sono varie possibilità, ma occorre metodo rigoroso. È banale accostarlo al gr. ’Óρθος, che è il cane di Gerione tricipite. E non è metodico adottare un termine greco nella lingua e nella toponomastica di un’isola che dai Greci non ricevette alcun influsso. Altra via per ricuperare l’etimo di Ortobéne è tracciata da Pittau ON 108, da lat. orior ‘sorgo’ > ortivortov-, come dire ‘Monte del Sole nascente’. Ipotesi non valida. Scendendo più a fondo possiamo valutare per Ortho- la base akk. uruttu ‘a stone’, per estensione ‘una vetta’, un ‘punto di vedetta’. Sulla scia di questa traccia, si potrebbe spiegare –Bene con accadico abnu, fenicio ’bn, ’abn ‘roccia, pietra, stele’. Quindi, con queste due radici semitiche, potremmo tradurre Orthobene come ‘la rocca della vedetta’. Rimarremmo nel campo semantico dell’ipotesi greca. Il credito di tale campo semantico è rafforzato da una agglutinazione di due membri sumerici: uru ‘sito, insediamento’ + uttu ‘calcolare, cumsiderare’ + fenicio ’bn ‘pietra, stele’: Orto-bene = ‘Rupe del sito d’osservazione e calcolo del firmamento’: in composto ur-uttu’bn, poi sentito come Ortobène.

Orthonùle. Sito accanto Dorgáli, nella valle di Oddoène. Per capirne l’etimologia lo scomponiamo in Ortho-Nùle. Il primo membro va visto come agglutinazione di due membri sumerici: uru ‘sito, insediamento’ + uttu ‘calcolare, cumsiderare’. Il secondo membro Nule < sum. nu ‘creatore’ + lu ‘divampare’: nu-lu = ‘creatore divampante’ (epiteto del Dio Luna). Quindi Ortho-nule indicò in origine un sito di osservazione della Luna, o di adorazione del Dio Luna.

Ortorutta. Il Cuile Ortorutta sul Monte Albo di Lula significa, semplicemente, ‘orti associati’ (composto apposizionale), dall’assiro rūtu, ruttu ‘compagno, socio’. Non si può capire la logica profonda di tali toponimi se non si guarda alla situazione socio-economica sopportata dalle popolazioni rurali nel passato, allorché ogni lembo di terra pianeggiante e fertile era sottratto alle greggi, recintato ed adibito ad orto. Che fosse vicino o lontano dal centro abitato non importava, perché tutta la popolazione maschile era sparsa per le campagne e per i monti, essendo quella l’unica economia che garantiva la sopravvivenza nei territori non-cerealicoli. In questo sito, evidentemente, i pastori recintarono e coltivarono in buona armonia. Per l’etimologia di orto-, vedi ortu.

Ortu ‘orto, giardino’; è anche cognome, documentato nei condaghes di Silki e Salvennor. Ha la base nel lat. hortus ‘giardino, terreno chiuso per le pratiche agrarie’, che a sua volta ha l’eguale nel gr. χόρτος ‘recinto, cortile’. Come il lat. hortus, la voce greca rappresenta anch’essa l’aggettivo verbale di akk. ḫarāṣu, aram. ḫrṣ, sir. ḫrṭ, ebr. ḥāraš ‘dividere, separare’; ḥorēš ‘thicket, boschetto’.

Ortuábis. Il toponimo dell’agro di Meàna è da scomporre in due membri. A tutta prima sembra significare ‘il giardino (o l’orto) degli Abis’. Ma la traduzione sembra alquanto banale. In ossequio a quanto scoperto in rapporto a certi toponimi della Sardegna, allora propenderei (ma è pura ipotesi) per vederci un osservatorio astronomico, da una agglutinazione sumerica uru ‘sede, sito stabilito, insediamento’ + uttu ‘calcolare, numerare’ + akk. apu ‘hole, opening’ in the ground, sum. ab ‘finestra’: ur-uttu ab = ‘il sito per l’osservazione (astronomica) mediante una finestra’. L’ipotesi è azzardata, lo riconosco, ma faccio osservare anzitutto che il sito di Ortuábis si trova sul lembo del grande plateau dolomitico del Sarcidano, il quale spesso – com’è tipico di questo calcare – presenta dei “pavimenti” o dei “tetti” bucati. È celebre uno dei siti “bucati”, quello di Sàdali chiamato Su Tùrrunu.

Ortu Cammínu. La Punta Ortu Cammínu è una vetta angolare del Supramonte di Olièna, alta 1331 metri. La cremagliera delle alte vette dolomitiche sovrastanti la bella vallata di Olièna e i siti collinari attorno a Monserrata forma una squadra perfetta, con un lato a rigorosa direzione SN, l’altro a rigorosa direzione WE, incernierata proprio dalla Punta Ortu Cammínu, da cui si gode uno spettacolo mozzafiato su buona parte del territorio nuorese e sulla Barbagia.

Questo oronimo composto sembra banale: Ortu ‘giardino’, Cammínu ‘via, cammino’. Ma nessuno si è chiesto perché questa punta trigonometrica, che delimita una gran parte del territorio con dei tracciati che sembrano costruiti a compasso, quasi a dare un senso preciso alla compartizione del mondo in paralleli e in meridiani, abbia un nome che è una perfetta contraddictio in terminis. Ortu indica un ‘giardino’, e quassù, tra pietraie terribili e venti proibitivi, sarebbe un assurdo. Cammínu indica una ‘strada’ o almeno un ‘sentiero’, ma quassù, almeno fino a quando gli escursionisti, da 30 anni, non hanno cominciato a esprimere passione per quelle rocce alpinistiche, non c’è mai stato alcun sentiero, il quale peraltro avrebbe condotto soltanto sui precipizi. Non vale neppure l’ipotesi che Ortu-Camminu indichi un doppio cognome. È quindi ovvio che l’oronimo non è altro che una paronomasia, un adeguamento fono-sintattico a termini attuali di un composto sardiano del quale più nessuno conosce il significato.

A mio parere, l’oronimo (Punta) Ortu Cammínu ha la base in una agglutinazione sumerica uru ‘sede, postazione, insediamento’ + uttu ‘calcolare, numerare’ + kammu ‘strumento’ + ennug du ‘osservare, scrutare’. L’agglutinazione di questi termini fa (Punta) ur-uttu-kamm-ennug (du), e sembra indicare sinteticamente un arcaico sito astronomico, noto come tale da almeno 7-10000 anni fa, chiamato così per essere il ‘sito’ (uru) per ‘calcolare’ (uttu) con ‘strumenti’ (kammu) mediante ‘osservazione, cum-sideratione’ (ennug du). Se la traduzione ricalca il vero significato dato dagli antichi progenitori, allora avremmo un’altra delle tante prove linguistiche del fatto che gli Shardana, anzi i loro progenitori, conoscevano l’astronomia.

Si badi bene che l’oronimo Ortu Cammínu è pure traducibile mediante l’akk. uruttu ‘a stone’ (per estensione ‘una vetta’) + kammu ‘tavola, placca’ + īnu ‘occhio’, ‘buco per traguardare’, ‘una figura geometrica’, che in composto fa uruttu kamm-īnu > ur(u)ttu kamm-īnu, col significato sintetico di ‘vetta per la cum-sideratione mediante una placca’.

Se veramente gli antichi ritenevano giusto quest’ultimo significato, allora saremmo di fronte a una scoperta eclatante. Al riguardo va infatti sottolineato che gli Arabi nel Medioevo, ancora prima della bussola, conoscevano benissimo l’arte dell’orientamento per terra e per mare. Utilizzavano, guarda caso, il kamal (fonetica quasi identica a kammu), che era una ‘tavoletta’, una ‘placca’, così descritta da Stefano Medas in De rebus nauticis 177-8: «strumento nautico ampiamente utilizzato dai naviganti arabi, che si compone di tavolette rettangolari di legno, normalmente tre di diversa misura, al cui centro è fissata una cordicella con dei nodi realizzati a distanze predeterminate. Secondo le sue dimensioni ciascuna tavoletta permette di coprire un settore angolare diverso; quella più piccola serve per rilevare gli angoli stretti, quando la stella è poco elevata sull’orizzonte; quella più grande per rilevare angoli ampi, quando la stella presenta un’elevazione maggiore. La tavoletta veniva spostata avanti e indietro finchè l’osservatore vedeva combaciare il bordo inferiore con l’orizzonte e quello superiore con la stella, contemporaneamente. In quell’istante, veniva anche rilevata la distanza tra l’occhio dell’osservatore e la tavoletta, grazie alla cordicella che era trattenuta sullo zigomo o tra i denti. Così si stabiliva un rapporto corrispondente ad un valore angolare (altezza della stella sull’orizzonte), identificato in modo empirico dai nodi della cordicella e dalle frazioni comprese tra questi. Quanto maggiore risultava la distanza della tavoletta dall’occhio, tanto più piccolo era l’angolo di elevazione della stella sull’orizzonte, e viceversa».

Ortuéri nome di un comune del Mandrolisái. Anticamente era Ortuesi/Ortueri. Si potrebbe tradurre ‘orto del dominatore, del padrone del posto’ (lat. Hortus Eri > Ortu-Eri). È a un dipresso quanto succede per Ortu Abis (‘Orto degli Abis’: vedi). Ma per Ortu Abis l’etimo sarebbe in linea con la tradizione toponomastica sarda, mentre qui l’etimologia, se adottata, sarebbe carente di metodo. Infatti questo sarebbe il primo toponimo sardo a parlare delle proprietà di un “dominatore”, chiamato proprio così, senza dargli nome e cognome. Nessun indigeno avrebbe sopportato una designazione siffatta, connotante rapporti smaccatamente schiavistici, a meno che il “dominatore” non fosse stato un essere divino. Ed è proprio l’attinenza con la divinità che fa considerare come verosimile un altro etimo: Horus Tueri > Hor-Tuéri > Ortuéri. Sappiamo che molte «divinità egizie passarono in Sardegna tramite i Cartaginesi conquistatori, ed alcune di esse ebbero un culto fiorente che è attestato ampiamente nel periodo imperiale» (Meloni, 390). Aggiungiamo che una parte dei 4000 liberti trasferiti in Sardegna nel 19 e.v. per fronteggiare i Barbaricini erano di religione egizia, ed è quindi certo che una tradizione fenicio-egizia pressoché millenaria, ravvivata per giunta nel 19 e.v., deve aver lasciato qualche traccia di sé.

Horw è un’antichissima divinità solare, immaginata come un falco sollevantesi in cielo a illuminare coi suoi raggi la terra. Egli poi s’indentificò nel figlio di Osiride e fu venerato come Horo il Vendicatore del Padre. Tueri era invece la Dea-ippopotamo venerata come protettrice delle madri durante l’allattamento. Evidentemente ad Ortuéri c’erano i templi o gli altari di questi déi egizi.

In ogni modo, se proprio volessimo interpretare il primo membro di Ortu-eri con origine dal sardo ortu ‘orto, giardino’ (cognome documentato nei condághes di Silki e Salvennor), ne identifichiamo la base etimologica nel lat. hortus ‘giardino, terreno chiuso per le pratiche agrarie’, che a sua volta ha l’eguale nel gr. χόρτος ‘recinto, cortile’. Come il lat. hortus, la voce greca rappresenta anch’essa l’aggettivo verbale di akk. ḫarāṣu, aram. ḫrṣ, sir. ḥrṭ, ebr. ḥāraš ‘dividere, separare’; ḥorēš ‘thicket, boschetto’ (CDS II 319).

Dopo questa defatigante analisi della supposta radice sarda (H)Aran, bisognosa di assoluto rigore, di acribia, d’intuizioni (ma pure irta di trappole e talora, lo confesso, d’incertezze), condotta in ogni modo dietro una conoscenza diretta dell’ambiente, non avrei voglia di tener ancora bordone a EBF e a questa sua radice. Figuriamoci se poi debbo metterla a confronto con le fonetiche similari esistenti a nord dei Pirenei! Unicuique suum. Lascio fare ai ricercatori baschi, che stanno in loco, i quali del proprio territorio sono i padroni e i gestori, e ne conservano la memoria storica; sarebbero senz’altro i migliori in campo, sempreché abbiano la stessa cura nel gestirsi la propria cultura ambientale (…e sappiano calzare gli scarponi), nella coscienza che le etimologie “a tavolino” sono dei torti alla buona fede del lettore.

Con questo spirito, mi perito pure di analizzare tutti gli altri radicali sardi recanti il supposto *aran (meglio asteriscarlo, al fine di renderlo innocuo!), per il fatto che non conosco e non saprei interpretare ambientalmente gli altri luoghi sardi dove esso appare. Spero che ciò basti a dare a questo problema variegato e spinoso delle soluzioni intelligenti.

Nel mentre, prego ancora EBF di non insistere a vedere questo radicale (e molti altri che ci propone) come un regalo dei Baschi. Quindi lo diffiderei amichevolmente di mettere nel cassetto le frasi coloniali del tipo «La diffusione del termine encorico basco supporta con forza l’ipotesi d’una sua irradiazione in Sardegna dalla costa iberica e francese meridionale» (vedi P 100).

25) Ardi (P 101). EBF vorrebbe omologare i toponimi sardi Ardaùli e Artilái al vocabolo basco ardi ‘pecora’. Secondo lui indicherebbero la stessa cosa, in virtù delle tradizioni pastorali dei Sardi (sic!). Posta così, senza ragioni intrinseche (etimologiche), the proposal is very chilly, essendo marchiata dall’ideologia. In Sardegna la vocazione pastorale viene espressa nei toponimi in altro modo: vedi la settantina di nomi di villaggio legati alla economia agro-pastorale, quale Àllai, Arbatàx, Àrdali, Arzachèna, Àrzana… (§ 1.1.q del presente libro). Mi domando perché certi toponimi sardi debbano ricevere luce e significato da un termine basco, senza che venga avanzata prioritariamente una etimologia del termine basco scelto come indicatore.

Quindi prego EBF di cercare l’etimologia di ardi, poi vedremo. A meno ch’egli non voglia tentare l’operazione inversa: dare prima una etimologia ai termini sardi per poi avvalorare il significato del termine basco. Ma neppure questa operazione viene tentata, poiché EBF sembra voler fare tutto, tranne che scavare nelle etimologie. A lui interessano le “convergenze parallele” basate soltanto sulla fonetica. Ma questo metodo non è valido. Peraltro, in Sardegna non abbiamo alcun vocabolo che foneticamente e semanticamente possa corrispondere al basco ardi. Tantomeno possediamo un vocabolo siffatto col significato di ‘pecora’. Cerco tuttavia di secondare l’indagine di EBF con l’analisi di qualche toponimo sardo con radici similari, le quali però, come si vedrà, non corrispondono al basco ardi, ard.

Ardaùli è un comune che sta alto sul versante sinistro del lago Omodèo, nel Barigádu. Il toponimo, apparso già in RDSard. a. 1341 come Ardaule, poi anche Arduli, è scomponibile in due lemmi: Arda-Uli. Il toponimo è un epiteto sacro rivolto al Sole, al Dio Sommo dell’Universo, del quale evidentemente un tempo esistette il santuario. Ha la base etimologica nell’akk. (w)ardu ‘servo, servitore, ministro del culto’ + ul ‘brillante, splendente’, col significato di ‘Servo di Dio Altissimo, del Sole Splendente’. Il villaggio dovette essere dedicato al Sole.

Artilái. S’Arcu Artilái è un passo glabro che divide due porzioni del Gennargentu desulese, dominate a nord dall’altissimo Bruncu Spina, dal quale si discende al passo. Artilái deriva dall’aramaico talmudico ̓artilai col significato di ‘nudo’. Essendo strategico e troppo propinquo ai confini del territorio dell’antica Sorabíle (Fonni) abitato dai Romani, sicuramente il passo veniva disboscato apposta e assiduamente dagli Ilienses, per renderlo meno esposto a imboscate improvvise ed indesiderate.

Árdali è frazione del comune di Triéi, in Ogliastra. Si può immaginare che Triéi, il sito principale, per il fatto d’essere al fondo di una bella valle alluvionale, abbia avuto origine da un gruppetto di famiglie che si dedicarono all’agricoltura. Le restanti famiglie del clan preferirono utilizzare il restante territorio per la pastorizia. In questo caso, Árdali può avere la base nell’aram. āraʽ ‘territorio’ + dâlu ‘muoversi, gironzolare attorno’, col significato dunque di ‘territorio pastorale’, ‘territorio del pascolo vagante’.

Árdara è comune del Meilógu, antica capitale del giudicato di Torres. Manconi informa che «Ardu doveva essere una minuscola villa che aveva un unico cappellano o parroco insieme alla vicina Villa Tavera: DE, 47, 1682 (nella Flumenargia, giudicato di Torres). Altra località Ardu esisteva nella curatoria del Sigerro, giudicato di Cagliari. In CSMB, 93, 131, si ha Dardu = de Ardu. In CSPS 182, 399, 422 d’Ardu. In EA si riscontra ripetutamente Ardu e anche Dardu. In CDS in atti del 1410 si ha de Ardo». Tutto ciò osservato, va detto che Àrdara è un composto sostantivo-aggettivo in rapporto apposizionale (karmadhāraya), traducibile con l’aram. āraʽ ‘territorio’ + dār ‘generatio, aetas’ (i.e. ‘cum omni generatione’, in perpetuum): cfr. sum. dari ‘eternal’, akk. dāru ‘era; eternity’. In origine significò quindi ‘territorio degli avi’, ‘su connóttu’ (ciò che il popolo ha sempre conosciuto).

Ardasái. Il nome del nuraghe Ardasái, posto in un breve spazio pianeggiante sui fianchi della montagna di Seùi, è un epiteto sacro riferito al nuraghe quale altare del Dio Sole; ha la base nel sum. ar ‘inno’ + da ‘pianoro’ + šaḫ ‘maiale’, col significato di ‘Inno del pianoro del Maiale’ (ricordo che il maiale a quei tempi era l’effige del Dio Unico, rappresentato dal Dio Sole e pure dal Dio della Natura). Il suffisso territoriale –ái è comune a molti toponimi sardi: è di origini ebraiche, con la stessa funzione del lat. –atum.

26) (H)Artza (P 101). Su questa radice EBF scrive: «Il confronto con basco artzai(n) ‘pastore di pecore’ bene si adatterebbe al cognome Arzu, al paese di pastori altoogliastrino summenzionato [Arzana] e al suo derivato Arzanadolu (con *dol)…».

La mia replica è la seguente. Il cognome sardo Arzu ha i raffronti col gallur. alsu ‘ontàno’ (Alnus glutinosa L.), sass. arísu ‘moro nero’ (Morus nigra L.), sp. aliso ‘ontano’, che hanno la base etimologica nell’akk. aru(m) ‘gambo, stelo’ + iṣu(m) ‘albero’: stato costrutto ariṣu, col significato complessivo di ‘albero delle verghe’. Fu proprio dall’utilità di questi alberi che originò persino il cognome Arzu.

Quanto ad Àrzana, varie occorrenze sarde escludono la radice basca. In campidanese sa árθana è una ‘nebbia o brezza locale nociva alla frutta’; anche in Barbàgia e Ogliastra: la sua base sarda è l’akk. arzu ‘gelo’, donde provengono tanti toponimi montani ad esso collegati, tutti a suffisso –ana (cfr. lat. alsus, participio di algēre ‘essere fresco, gelato’). Àrzana è termine schiettamente accadico, che può essere legato al gelo, ma preferirei vederlo come fitonimo significante ‘chicco d’orzo’ (arzānu). Evidentemente il villaggio fu fondato – giusta la teoria che ho espresso nella parte generale – da un gruppetto di agricoltori dedicati alla coltivazione di tale cereale, ai quali pian piano s’avvicinarono anche le famiglie pastorali della zona, magari creando un bixináu autonomo. Vedi Arzachèna, con cui Àrzana s’apparenta.

Quanto ad Arzanadólu, è un monte di scisti e filladi alto 1100 m, al confine tra i territori di Aritzo e Gadòni, ricco d’acque, che genera pure la Funtana Arzanadòlu dalla quale decorre il riu Tistiliosi passante alla base di Gadòni. Per poter dire qualcosa di questo oronimo (e idronimo) occorre anteporre un’accurata osservazione della situazione socio-ambientale attuale ed ex ante, per capire anzitutto che questa montagna è la più alta dell’area, ha sempre tributato le acque per essere la più esposta alle piogge di Maestrale e per essere la prima a ricevere le nevi del “Fronte Polare”; da qui, e dal fatto di essere bene esposta al quadrante settentrionale, è credibile che il lemma attenga al citato arzu ‘gelo’ > agg. arzanu ‘relativo al gelo’ + akk. dulû ‘secchiello’: Arzanadulu, col significato di ‘secchio, cisterna del gelo’ (con riferimento al fatto che, oltre ad essere tributaria di acque, fino a cent’anni fa nell’area di Gadoni-Aritzo s’insaccavano le nevi in appositi “pozzi”, o “cestelli”, da cui poi erano estratte e avviluppate nel fieno per portarle a Cagliari e confezionare sa carapigna, il dolce-gelato dell’epoca). Si osservi inoltre che questa montagna domina una delle più sicure e celeri vie di transumanza dal Gennargentu al Campidano, onde era facile portare la neve compatta sino alla capitale.

 

27) Baso (P 102). Soltanto uno studioso a vocazione penitenziale può adeguarsi alla contorta e vuota logica del seguente assunto di EBF: «La radice paleosarda masa– (< *maso) appare concentrata nel territorio orientale, spesso in composizione con logi ‘fango, terreno fangoso’ (Masilogi a Oliena). Data l’alta frequenza di scambi tra /m/ e /b/ in Paleobasco è più che probabile che ci troviamo in questo caso con la radice baso (e come in basco si ha anche *maso > masa in qualche composto, come in Masalai a Lula, che forse conterrà ugualmente –logi, –loi)».

La mia replica è la seguente. Circa il toponimo Masilòghi (l’unica variante, Masilòi, sta in agro di Fonni), è molto importante la notizia riportata da Dolores Turchi (GESMFRP 60 sgg) sulla festa di Santu Juvanne ‘e sos sordadéḍḍos, tenuta fino agli Anni Trenta del XX secolo presso S.Giov.Battista a su Gologòne, dal 5 al 13 agosto. «Tornavano in paese, a cavallo, con in groppa la fidanzata o la sposa, ma trovavano la strada sbarrata da un grande fuoco acceso davanti a una sorgente detta Masilòghi, poco distante dall’ingresso» di Olièna. «Si trattava di una grande pira, come quella che si costumava fare per la festa di Sant’Antonio Abate, sulla quale veniva poggiato un fantoccio fatto di paglia e ricoperto di stracci e di vecchie pelli… Quando i cavalieri venivano avvistati si dava fuoco alla pira e il fantoccio bruciava. Alla vista delle fiamme, che si levavano alte, i cavalli s’impennavano e spesso dame e cavalieri venivano sbalzati di sella».

La Turchi ricorda che la festa ha origini molto antiche, ed era riesumata specialmente in occasione di guerre, in particolare quelle navali fatte contro i Musulmani (quella centrale fu la battaglia di Lepanto). I soldati olianesi si raccomandavano a san Giovanni, ed una volta tornati lo onoravano in quel periodo. Il Mamuthòne, ossia il fantoccio, prima che fosse arso, era menato tre volte attorno alla vicina chiesa di san Francesco, poi veniva immerso nella fonte di Masilòghi. Dopo il rogo, cominciavano le danze e il divertimento si protraeva sino a tarda notte. La Turchi ricorda che nella Grecia arcaica quella del fantoccio annegato e bruciato era la sorte più comune delle vittime sacrificali, dei capri espiatori, del pharmakos, dei re sacri. Attorno a quel periodo, nell’antica Roma si svolgeva una solenne festa con luminarie dedicata a Diana Lucina (identificata con la Dea Madre mediterranea).

La Turchi (p. 66-67) suppone che Masiloghi fosse anticamente una fonte sacra. Il nome dei terreni circostanti è Prugatóriu ‘Purgatorio’, quindi è facile supporre che il sito fosse un luogo di purificazione, che lei ipotizza riservata agli affiliati ai Misteri Eleusini.

A parte il suo riferirsi ai Misteri Eleusini e non a quelli siro-fenici di Adone, l’interpretazione è giusta. Masilòghi è un composto sardiano con base nell’akk. masûm ‘detergersi, ripulirsi, purificarsi’ + lugû ‘porta, ingresso’, col significato sintetico di ‘Porta della Purificazione’.

EBF non traduce nemmeno baso, termine basco che significa ‘selva, bosco, foresta’. In ogni modo mi chiedo, che ci azzecca baso col sardo Masi– (stato costrutto da masûm ‘purificarsi)? In più, il basco logi significa ‘letto, alcova’, molto distante dal sardo-accadico logu lugû ‘porta, ingresso’, e anche ‘luogo, sito’. Eppoi, perché EBF insedia la radice masa– nel territorio orientale, se poi quella da lui analizzata è olianese? Non sa inoltre che questa radice ha invaso un po’ tutta la Sardegna (vedi, fra i tantissimi toponimi, soltanto Masaìnas, Masóngiu, Masiùle, Masalòni, nessuno dei quali centro-orientale, e pure i cognomi Masella, Masu, Màsala e altri venti). Si può notare che EBF, nel supremo sforzo di trovare addentellati alla “teoria della colonizzazione basca in Sardegna”, rende forzatamente equivalenti gli originari /m/ e /b/, ma poi non riesce a trovare alcun esempio concreto che avvalori l’azzardo, che nessuno gli autorizza, poiché a noi interessano i casi concreti, da analizzare senza ingombri ideologici.

28) Berri (P 102). In basco significa ‘nuovo’. Mi domando in forza di quale rivelazione sinaitica EBF c’imponga, senza tentennamenti, di credere che ogni radice sarda di uguale o simile forma abbia lo stesso significato, in questo caso «con riferimento ad ‘acque’ (Berritalai), a ‘terreni predisposti per il pascolo dopo la debbiatura’ (Birritelai) o a ‘edifici in pietra’ (Berrunurai)». A parte il fatto che in Sardegna non abbiamo alcun radicale berr– riferito al ‘nuovo’, resta un mistero come EBF evinca il “nuovo” dall’acqua, dal debbio, dalla casa in pietra. In ogni modo posso assicurare che in Sardegna qualunque lemma in berra-, berri– (stato costrutto) contiene altri significati, come può evincere da questa sequela.

Bruncu Berridoghé (Aùstis) può essere scomposto in due lemmi, da akk. bīru ‘fare una divinazione’ + ugu ‘death’. Quindi potremmo intendere l’oronimo Bruncu Berridoghé come ‘la vetta della negromanzia’ < bīru-ugu con inserzione eufonica della –d-.

Berra è un cognome da ebr. Beerah (1Cr 5,6), un principe rubenita; Beerah un principe ascerita (1Cr 7,37).

Berrái variante del cognomeo Berra, cui è apposto il suffisso –i di origine ebraica.

Berrìa cognome; più che variante di Barrìa, è da ebr. Beriiah (1Cr 7,23.30.31; 8,13.16). Beri‛à figura figlio di Ascer, pure figlio di Efraim, e pure come un beniaminita.

Berrìna, cognome che è un composto rituale sardiano, basato sull’akk. (w)erru(m) ‘potente’ + īnu(m) ‘occhio’ (stato costrutto werr-īnu), col significato di ‘occhio potente’ (riferito alla deità), indi traslato ai nomi virili.

Se poi EBF, con le operazioni subliminali cui ci ha assuefatti, c’induce in ipnosi fino a quando non avremo accettato una sciamanico trapasso da berri ‘nuovo’ a (Funtana) Frida di Foresta Burgos (P 102), ebbene, una volta risvegliati, gli dovremo pur chiedere che ci azzecchi il concetto di “nuovo” col concetto di “freddo”!

 

29) Bide (P 103). In basco indica il ‘cammino’, ‘sentiero’, e secondo EBF «viene usato spessissimo per creare nuovi composti, quale onbide ‘virtù’, da ‘buon cammino’ anche toponimo, Onbide, e forse Béon. La composizione Buon Cammino si ritrova in moltissimi micro toponimi sardi, in particolare sui monti, e appare inoltre rappresentata nella traduzione-calco greca (bizantina) Itria (da ὀδηγέτρια) ‘colei che guida lungo il buon sentiero’. Nulla di strano, di conseguenza, se già nell’antichità gli antenati dei Sardi utilizzassero la struttura basca, bide + on, per designare i percorsi fattibili, accessibili, poco impervi o privi di ostacoli. Da qui Bidoni, Bidoní, Bidonie, e col senso contrario, Bidunele e Bidumele ‘cammino buio, irto di ostacoli’».

L’adamantina certezza di EBF che i Baschi antichi abbiano colonizzato (culturalmente) gli antichi Sardi, lo porta alle vette immacolate della indimostrabilità, dove manca l’ossigeno ai polmoni e al cervello. E se i Sardi si tappassero gli occhi e i timpani, certamente EBF riuscirebbe a far passare le idee più assurde e indimostrabili come questa.

Esaminiamo da vicino la celebre Ítria, patrona di qualche paese e titolare di qualche chiesa, posta raramente sui monti. Il culto derivò da un dipinto di Madonna-con-Bambino portato da Gerusalemme a Costantinopoli nel 401-450, collocato infine nel monastero detto delle Guide (biz. ódigon), e da esso la Vergine prese il nome di Odighítria. Il culto poi arrivò in Sardegna, si presume durante la lotta iconoclasta, nell’VIII secolo (Anton Francesco Spada, Storia della Sardegna cristiana e dei suoi santi, 116-117). I Sardi con frequenti semplificazioni giungono spesso a smembrare i nomi, quindi dobbiamo accettare che di Odigh-ítria sia rimasto soltanto il suffisso –Ítria (da antico –ḗtria). Questo suffisso è in buona compagnia (vedi gr. geōme-tría e tanti altri in –tría, –tería, ecc.). Fatto singolare, in Sardegna questo suffisso bizantino continuò a significare semplicemente ‘Guida’. Ci resta ora da confrontare il composto bizantino ódi-g– (-g– da ágō ‘conduco’) = ‘guido lungo la via’ col basco bide, bid-e ‘sentiero’. Se ne rileva l’assoluta incompatibilità fonetica. Poco importa se poi in Sardegna il mero suffisso Ítria (non Odig-ítria!) divenne la Madonna del Buon Cammino. Qui interessa accertare che EBF fa voli metalinguistici, dei quali dobbiamo svelare l’inconsistenza sul piano scientifico. Nient’altro.

Per non appesantire la discussione rimando il lettore a leggere nell’annesso Dizionario Etimologico gli altri toponimi citati da EBF a rafforzo della propria tesi. Nessuno di essi ha una etimologia riconducibile alla sua semantica di cammino, tantomeno alla lingua basca.

30) *Des– (P 103). “Metodo confrontativo e tipologico” è chiamato da EBF il suo sistema di mettere a confronto i lemmi baschi con quelli sardi al fine di operare una “ricostruzione”. Il che significa che EBF assume delle tipologie da lui create (metodo tipologico) e poi le mette a confronto con lemmi sardi (metodo confrontativo). Noi accettiamo di essere attirati in un agone da lui preparato, accettiamo il suo filo conduttore idealistico e perentorio (ove si pretende che certe radici sarde abbiano, contro ogni prova, lo stesso significato di quelle basche); ma nell’accettare di scendere in tale agone non rinunciamo a vagliare ogni (tentata) dimostrazione attraverso il metodo rigorosissimo che ci siamo dati nella ricerca sui toponimi sardi.

Vediamo dunque la (supposta) radice basca *des-, la quale è già sospetta per il solo fatto di non esistere (altrimenti EBF non userebbe l’asterisco). EBF sostiene che l’attuale forma basca /l/ risale a un antico basco *[d], onde *des > les, che dà l’attuale leze ‘burrone, baratro, scarpata rocciosa, dirupo’ (lo avvalora anche con *da-gun > lagun ‘amico’). Oltre questa ricostruzione tutta interna al basco (senza alcun riscontro sardo), EBF pretende che tale “legge” e gli stessi raddoppiamenti baschi siano passati dai Pirenei alla Sardegna (mentre, per dirne soltanto una, non sa nemmeno che i raddoppiamenti furono un fenomeno grammaticale delle lingue agglutinanti, alle quali il sardo appartenne assieme a tutte le lingue semitiche). E qual è poi il “raddoppiamento” che EBF propone? Il toponimo… Désulo, il quale secondo lui nacque come De-désu-lo > Désulo. Da dove lo arguisce? Da un toponimo Dedéssilo di Fonni.

In realtà il nome del paese Désulo (dizione locale Hésulu, Ésulu, Désulu) non ha raddoppiamento ed ha la base nel sardo desu, indicante un ‘luogo solatio e riparato dal vento’. Questo è esattamente il caso del paese Désulo, rigorosamente protetto dai venti di nord e di nord-ovest, al cui toponimo “agropastorale” fu poi annesso il tema territoriale –lu. L’etimologia è basata sull’akk. dīšu(m), dēšu ‘primavera; sviluppo della primavera; erba; fioritura delle piante; abbondanza di fioritura’. A meno che non sia dal sum. de ‘portare, arrecare’ + šul ‘giovinezza’: e con ciò rientriamo a un dipresso nello stesso campo semantico. Va specificato, a disdoro di EBF, che il territorio sul quale sorse Désulo non presentava alcun ‘burrone, baratro, scarpata rocciosa, dirupo’, come subliminalmente EBF vorrebbe farci credere col suo radicale *des-/les-. Quanto al fonnese Dedéssilo, ebbene, possiamo accettare il raddoppiamento sumero-sardiano de-dé-ssilo (< sumero), ma ricordando che i raddoppiamenti avevavo sempre un ruolo esaltatore, moltiplicatore, plurale: nient’altro. Quindi il De-dé-ssilo fonnese esaltò al massimo grado l’ubertà, la fioritura dei pascoli. Il raddoppiamento esaltatore lo troviamo pure in Ol-ol-ái e quant’altri.: vedi Dizionario Etimologico.

In definitiva, ritengo piattamente ascientifica e senza prove di sorta la seguente conclusione di EBF: «Ecco come ricostruzione tipologica (sistema sillabico iterativo) e confrontativa (paleobasco *[d]- = paleosardo [d]- = basco [l]-) concorrano a identificare un modello di evoluzione interno al sistema comune basco-sardo, riflesso ancor oggi nei microtoponimi dell’area più arcaica della Sardegna». Spero che gli illuminati accademici del Mondo, cui il suo sermone è indirizzato, lo perdonino dell’albagia.

 

31) *Dol– (P 103). EBF afferma che la radice sarda dol– debba per forza risalire a quella basca *dol-, originata da un raddoppiamento (do-dol– > odol ‘sangue’). Questa macchinosa interpretazione, proposta per prima da Joseba Lakarra e “sposata” golosamente da EBD, gli dà l’autorità d’imporre che tutte le radici sarde in dol- significhino ‘sangue’. Ma EBF sbaglia e lo dimostro con qualche lemma sardo.

Baccu Dolcolce, toponimo del Supramonte di Baunéi, è la valle-canalone più importante dell’area, quella che collega la strada nuragica (poi romana, ora statale 125) al cuore del Supramonte, all’area centrale dei nuraghi e dei santuari. Questa valle-canalone, servita da una strada nuragica secondaria, si stacca da quella primaria all’altezza di Genna Arrámene e in quattro chilometri collega alla poderosa fortezza-altare di Nuraghe Alvo, al vicino santuario nuragico con betilo (ora chiesa di san Pietro), ai tre nuraghi di Co’ ‘e Serra, Nurageddu e Lopellái. Questa valle-canalone era la più praticabile (per quanto fosse la più profonda) e fu servita – come detto – da una comoda strada nuragica, ch’era la via maestra del Supramonte, la più importante, che legava le ampie valli di Triei all’altopiano sacro di Golgo. Dolcolce è un composto possessivo (bahuvrihi) da dividere in due parti: Dolc-Olce. Prima di procedere, va detto che è tipico di Baunéi, assieme a qualche area barbaricina (paradigmatica è quella di Sòrgono), “addolcire” le consonanti di molti termini d’uso comune ed anche di certi toponimi di cui si è perduto il significato. Il sintagma deriva dall’akk. durg-urḫu. Durgu = ‘parte centrale, la più profonda, di un terreno montano’; urḫu = ‘sentiero, carrareccia, strada’. Quindi Dolcolce è ‘la strada della valle profonda’.

Dolianòva, paese vicino Cágliari. Riprese nel 1905 il nome dell’antica Dòlia, che fu città vescovile dal 1089 agli inizi del sec. XVII. Unanimemente lo si avvicina al plurale lat. dōlĭa ‘botti, recipienti per fare il vino’ (sing. dōlĭum). Ma il termine latino a sua volta ha una base più antica, il sumerico du ‘accumulare, ammassare’ + li ‘spremere (olio)’, col significato di ‘(sito, villaggio dove si) ammassano e spremono le olive’. Come si vede, nel Lazio prevalse il concetto della “vinificazione”, mentre già millenni addietro in Sardegna (e nel mondo semitico) lo stesso lemma aveva dominato col concetto della “spremitura delle olive”. Va da sé che il coronimo e toponimo Dòlia deve supporsi di origine sumerica, e che al momento dell’invasione romana esso non sia stato modificato dalla lingua dell’invasore. Questa certezza è corroborata anche dal toponimo Serdiàna, che è il villaggio propinquo all’antica Dòlia, il quale ha la base etimologica nell’antico babilonese serdu ‘albero d’oliva’, serdīum (aggettivale di olivo). Quindi sembra ovvio che l’intero territorio chiamato Dòlia abbia avuto, da parecchi millenni, vocazione alla coltura delle olive.

Doloverre è un sito del Supramonte di Dorgáli indicante il tratto di valle che dal passo dell’Oddéu declina ad ovest fino alla base del Monte Tìscali. Tenuto conto che nel sito esistono alcune vasche naturali incassate nella dolomite, dove i pastori immagazzinavano l’acqua potabile, sembra di capire che il sito aveva il nome dalle vasche. In tal caso avremmo la base etimologica nell’akk. dulû ‘secchiello’ + bêru ‘scelto’, col significato di ‘vasche scelte’.

Aggiungerei (visto l’apparente raddoppiamento *do-do-) pure il toponimo Dodovòrgia, che indica una località piuttosto vasta del Supramonte di Baunéi, nella quale passano anche due canaloni-forre (giròves) con le solite pareti strapiombanti, irte di guglie, e il fondo sassoso difficile o quasi impraticabile. Il termine è un classico composto possessivo (bahuvrihi): dodo-vòrgia che significa ‘lo sprofondamento dei mufloni’. Deriva dal bab. dūdu ‘wild sheep’, ‘muflone’ + sum. burud ‘depression, low-lying area, depth’.

Dolái, toponimo di Baunéi, è proposto da EBF come contrazione di un precedente *Dodoliai. Su quali basi scientifiche pretende che tale lemma asteriscato sia esistito? Io mi attengo a quanto confermato dalla toponomastica attuale, senza azzardare ipotesi non verificabili, e propongo per Dolái la relazione con l’akk. dulû ‘secchiello’ (in relazione a quanto già detto dei presétthos, ossia delle “tasche” dolomitiche entro cui i pastori conservano l’acqua piovana).

EBF insiste, senza alcuna prova e sino alla provocazione, a pretendere che i lemmi sardi in dol– siano relitti di un basco odol– col significato di ‘sangue’. Avrebbe dovuto avere almeno la sensibilità d’indicare i siti precisi cui corrispondono i toponimi sardi in dol– da lui elencati, perché non è detto che insistano su “terre rosse”, come sostiene. La sua pretesa giunge all’assurdo di presentare pure il toponimo Nurdòle (Oráni). Non cita gli altri due Nurdòle di Illorái e Nùoro, dove mancano le terre rosse. Quanto al nuraghe Nurdòle (Oráni), sorge su complessi metamorfici ercinici che non dànno terre rosse nè “rocce rosse”. Peraltro, il nuraghe Nurdòle di Oráni è un noto elemento sacro. Dolores Turchi (GESMFRP 66) informa che al suo interno c’è una grande vasca, secondo lei con funzioni lustrali. Collegandosi al fatto che in agro di Dorgáli esiste un nuraghe detto Prugatóriu ‘Purgatorio’, e legando questo toponimo a tanti altri esistenti in Sardegna con pari nome, ipotizza logicamente che in Sardegna in età pre-cristiana ci fossero parecchi siti destinati alla purificazione, più che altro legata, secondo lei, al culto di Dioniso ed ai Misteri Eleusini. Per Nurdòle è da supporre un composto sardiano con base nell’akk. nūru ‘luce, splendore (del Sole, ossia di Dio)’ + dulû ‘secchiello’ (nel senso di contenitore d’acqua), sum. dula ‘vaso’. Il composto in stato costrutto nūr-dulû indicò in origine il ‘nuraghe della purificazione’.

È inutile (anzi dannoso) che EBF insista a dire, tanto per accreditare tesi indimostrabili, che in Sardegna l’aggettivo rùbiu, arrùbiu, rùviu ‘rosso’ è ripetuto in parecchi toponimi a dimostrazione della trasformazione latineggiante di un più antico basco odol. Ma come si permette? A parte l’assurdità dell’illazione, gli ricordo che persino l’unico nuraghe sardo richiamante il “rosso”, il nuraghe Arrùbiu di Orròli, col “rosso” non ha alcuna parentela, derivando dall’akk. rubû ‘principe, re, regnante’, ‘nobile’. La forma originaria del nome fu lo stato costrutto accadico nuḫar-rubû ‘nuraghe del re, del principe, del capo’, oppure ‘nuraghe nobile’ (per il portamento).

32) Ertz (P 104). EBF sostiene che la radice basca ertz ‘riva, bordo, margine’ si ritrovi in una serie di composti sardi con basi idronimiche. Propone Talerthe come ‘riva del torrente di montagna’, Usurthe ‘ai margini della foce del fiume’, Unerthe ‘a fianco della collina’, e pure il cognome Erdas. A dimostrare l’inconsistenza dell’intero assunto, comincio proprio dall’ultimo lemma.

Erdas equivale a gèrda ‘cicciolo’, che è il residuo della cottura delle parti grasse del maiale, quella che si fa per procurarsi lo strutto; la gerda è utilizzata per confezionare la covazza cun belda o gerda. L’operazione avviene d’inverno, quando si macella il maiale allevato in casa. La base etimologica è accadica: gerdu, qerdu ‘(lana) cardata, a fiocchi’.

Il toponimo Usurthe nella forma Usurte, Usurtana, Usurtala, Usartana etc. è presente in parecchi luoghi, e solo qualcuno riguarda dei rivi, altri riguardano costoni montani, e così via. Poi abbiamo gli allomorfi, quale Sùrtana, che è una chilometrica valle sopraelevata del Supramonte di Dorgáli. Essa è molto lineare e ben sagomata (quasi come una valle glaciale). Come Sùrtana è citata pure la “scala” rocciosa che s’inerpica sino al principio della valle stessa (Scala ‘e Sùrtana). Il toponimo ha la base nell’ass.-bab. ṣurtu, uṣurtu e significa ‘disegno, piano, disegno lineare’ (esattamente com’è questa valle). Il toponimo Usùrtala indica un territorio agricolo di Oràni, privo di corsi d’acqua. Come spesso accade in Sardegna, i termini semitici sono resi come aggettivali, ed è per questo che uṣurtu riceve il suffisso sardiano in –na, –la.

Talerthe, toponimo sardo, lo ritroviamo, oltreché in Talerzi di Sòrgono, in Nodu Talertzo di Gavòi e Lodìne (indica una rupe, non una ‘riva del torrente di montagna’). La base del primo membro (Tal-) potrebbe pure accedere al significato di umidità (cfr. basco talatu ‘calarse de agua’); avrebbe in tal caso le stesse basi di Talàna che ha le basi nell’ebr. tall, tāl ‘elemento umido che feconda; rugiada’, aram. talah ‘rugiada’, bab. dālu ‘irrigazione’. Ma come la mettiamo col secondo membro –erthe? Non può addentellarsi al toponimo bittese Eltili, da elu ‘luogo alto’ + tīlu ‘mucchio di rovine’, col significato di ‘altura in rovina’; potrebbe essere un allomorfo di Erìttili in Baccu Erìttili, canalone molto aspro, pietrosissimo, profondo e selvaggio del Supramonte di Baunéi. Il toponimo sembra a tutta prima derivare da sardo eríttu ‘porcospino’ < lat. ericius > it. ‘riccio’ > cgn Riccio, ma le banalità non sono consentite e dobbiamo ammettere l’akk. ārittum ‘declivio’, anzi, considerato il luogo integralmente selvaggio, è più congruo leggervi il composto sardiano su base akk. erû(m) ‘aquila’ + tīlu ‘mucchio di rovine’, col significato di ‘le rovine delle aquile’. Tutto ciò detto, con un po’ di buona volontà possiamo pure concedere in (Baccu) Erìttili la possibilità di confronto (paritetico!) col basco ertz ‘riva, bordo, margine’.

Unerthe, Unerte (Ollolái), tradotto da EBF come ‘a fianco della collina’, non merita neppure attenzione, poiché non viene raffrontato a nessun altro lemma, se non per –erthe di cui abbiamo già trattato, onde ritengo arbitraria e fantastica la traduzione di Blasco. Se proprio un significato debbo attribuirgli, lo assimilo alla base sumerica una ‘selvaggio’ + il già visto ārittum ‘declivio’, col significato di ‘gola selvaggia’.

33) *Goni (P 104). EBF lo confronta col basco gain, goi ‘cima, vertice’; goi sarebbe da un *goni ‘alto, altura’. Debbo deludere EBF, poiché il nome del villaggio sardo Goni, da lui citato a esempio, prese un nome sacro dal bellissimo nuraghe: sum. gune ‘centro di culto’. Con questa etimologia diamo un colpo di spugna alle ipotesi che tendono ad affratellare i toponimi del genere all’akk. gennu, ginnu, kinnû ‘montagna’, anche perché tutt’attorno al villaggio non si riscontrano altro che poggi. Rimando alle etimologie dei vari nomi di villaggio Gonnos-fanádiga, Gonnos-nò, Gonnos-codìna, Gonnos-tramatza, Gonn-èsa: nel Dizionario Etimologico spiego la questione. Rimando parimenti al Dizionario per tutti i toponimi (quale Gon-òne) aventi certi radicali.

34) Gorri (P 105). EBF vorrebbe assimilare al basco gorri ‘rosso’ tutti i toponimi sardi in gorr-. Ma sbaglia, poiché abbina le radici (o supposte tali) omologando il complesso fonetico sardo al fono-semantema basco senza nemmeno una previa analisi ambientale. Io non azzarderò mai un confronto senza prima avere fatto il confronto ambientale tra i luoghi sardi e quelli baschi. E poiché non conosco i siti baschi dove occorrono certi toponimi (peraltro ignoti pure a EBF), mi limito a verificare che il lemma sardo e la sua situazione ambientale trovino in altra collocazione (spesso semitica, vista l’accertata temperie culturale comune) un ferreo incastro. Nei fatti mi comporto all’opposto di EBF ma con più criterio, poiché parto dal lemma sardo e dalla sua situazione ambientale, e vedo se il significato del corrispondente semitico collimi con quello sardo e con la sua situazione ambientale (“triangolazione”). Bastano pochi esempi.

Il ripetuto radicale sardo –gòro o –goro indica un’altura, un altipiano, ed ha la base nel sum. gur ‘sollevare’, e anche ‘orlo’, pure ‘scudo’; ma vedi anche il sum. guru ‘ammonticchiare, accumulare’, con medesima semantica. Vedi Orgosègoro, nome di una fonte in agro di Urzuléi; divido il nome in Orgòsa ‘e Goro e traduco come ‘sorgente dell’altopiano’. Questa nasce immediatamente sotto la cima di un’area cacuminale molto piatta ed omogenea, alta 1000-1010 m e larga oltre 1 km, situata dirimpetto a Punta is Gruttas. L’orgosa, la ‘sorgente’, sta sotto il –goro ‘l’altura’. Cfr. anche il nome della città italica Gorizia. Per quanto il secondo membro di Orgosè-goro sia identico a quello di Donianì-goro (Donianì-koro), non credo alla loro unità semantica.

Gorònna è nome d’un sito e d’un nuraghe in territorio di Paulilátino. Può avere base nel bab. qurūnnum ‘cumulo, mucchio; pila’. Il termine si presta bene al nuraghe, un tempo piuttosto interrato. Ma è possibile che il nome derivi dal cercine sommitale del nuraghe, che ha la forma di ‘corona’. Vista la funzione dei nuraghi, che dovettero essere altari al Dio Sommo, è pure lecito suggerire il lemma akk. kuru(n)nu(m) ‘un genere di birra bevuta durante le cerimonie sacre’, principalmente offerta alla divinità.

Gorrópu. La Gola di Gorrópu sembra, a una prima considerazione, prender nome da una delle parole omofone con cui si designa un ‘gobbo’ (Nuorese), o il ‘gorgo’ (Campidano). Il tutto è fatto derivare dall’aggettivo sp. joroba ‘concava’. Ma non è così. L’etimologia poggia sull’akk. ḫurru = ‘foro (in parete); scavo, tana, cunicolo; cavità della bocca’. Nel nuovo accadico abbiamo addirittura la forma ḫarrupu (intesa come ‘bacino pelvico’): il che si adatta perfettamente a questa gola profondissima, e pure agli altri termini sardi che con gorrópu, garrópu indicano gli scavi naturali in un corso d’acqua.

Respingo la pretesa di EBF di omologare al basco gorri ‘rosso’ i toponimi o idronimi sardi del tipo Funtana gorru ch’egli vorrebbe tradurre proprio come ‘sorgente rossa’, o Nodu gurrái ‘cima rossa’, o Gurrithókinu ‘depressione paludosa’ (ovviamente rossa). Non conoscendo l’ambiente che esprime i tre toponimi, e tenendomi disponibile a rivedere la mia proposta dopo averlo osservato, azzarderei di tradurre Funtana gorru come ‘sorgente dal foro’, da akk. ḫurru ‘foro in parete’; Nodu gurrái come ‘Rupe bucata’ (ossia Perda pertunta), ricorrenza fisica di parecchie pareti rocciose della Sardegna, da akk. ḫurru ‘foro in parete’; Gurrithókinu (Olièna) come ‘Buco da cui sgorga acqua’, da akk. ḫurru ‘foro in parete’ + sardo tóchinu, tónchinu ‘fiotto d’acqua che scaturisce momentaneamente dalla roccia durante i temporali’ < sum. tuk ‘rompere, spezzare, staccare’ + suffisso aggettivale sardiano –inu.

Dopo le suddette spiegazioni, lascio a EBF la faticosa responsabilità di avere elaborato fantastici significati per Gorroispa ‘concavità, grotta’, Talaekore ‘torrente rosso’, Turrikore, Istekorí (Aùstis), Istinigorí (Tonara) ‘acque rosse di una pozza incanalate da una sorgente’, Isirikoro ‘ruscello rosso’, Irikore ‘insediamento su terreno rosso’, Nurkoro ‘ammasso di lastre di pietra rossiccia’, Littokoro ‘boscaglia dalle foglie rossicce’, Filikore ‘terreno con felce dalle foglie rosse’.

Dipendesse da me, ammessa (e non concessa) la corretta grafia dei toponimi, le traduzioni preferibili sarebbero le seguenti: Gorroìspa (Orgòsolo) ‘Foro in parete con serbatoio’ (ossia parete che contiene all’interno un laghetto da cui fuoriesce lo zampillo, da akk. ḫurru ‘foro in parete’ + ispu ‘contenitore’); Talaekore (Talacori, Ottana) ‘albero dell’umido, ossia ontàno’, da ebr. tall, tāl ‘elemento umido che feconda; rugiada’, aram. talah ‘rugiada’, bab. dālu ‘irrigazione’ + akk. ekūrum ‘un oggetto di legno’; ma potrebbe significare anche ‘torrente degli ontàni’; Turrikore ‘stalla sociale’, da sum. tur ‘stalla’ + kur ‘land, country’ (gr. χῶρος): cfr. il significato di medáu e furriadròxu; Istekorí (Teti, Aùstis) ‘Rupe bucata’ da sum. ‘montagna’ + te ‘bucare’ + akk. ḫurru ‘foro in parete’; Istinigorí ‘montagna forata imponente’, da sum. ‘montagna’ + te ‘forata’ + ni gur ‘imponente’ (di tali esempi spettacolari è pieno il Supramonte di Baunéi); Isirikoro (Iseriocoro, Aùstis) ‘la Montagna (più) alta del territorio’, da sum. ‘montagna’ + iri ‘alta’ + kur ‘land, country’; Irikore, da sum. iri-kur ‘territorio alto, altopiano’; Nurcoro (Bono, Anela) ‘nuraghe corto’, da akk. nuḫar ‘nuraghe’ (sum. nu-ra-gu ‘nuraghe’) + kurû ‘corto’; Littokoro (Riu L., Illorai) ‘(rio della) boscaglia bassa, maquis’, da littu ‘grande estensione di macchia, di boscaglia’ < bab. letû ‘suddividersi, moltiplicarsi, lussureggiare (riferito al legno, alle canne, alla boscaglia)’ + kurû ‘corto’; Filikore (Filecchere, Filicchere, Olièna) ‘landa bruciata, incendiata’, da sum. bil ‘bruciare’ + kur ‘terra, territorio’.

 

35) (H)Iri (P 105). Come ho scritto nella Prefazione, la lingua basca condivide col sumero e l’accadico parecchi vocaboli, residuo dell’arcaica Cenosi Linguistica Euro-Mediterraneo-Vicino Orientale (o Prima Grande Cenosi). Uno di questi è il basco iri ‘città’ (iberico ili), sumerico iri ‘città’. Il fatto non è riconosciuto da Eduardo Blasco Ferrer, che nega parentele con l’Oriente. Ciò lo induce ad “arrangiarsi” in altro modo per trovare i giusti addentellati basco-sardi a riguardo di questo vocabolo.

In tal guisa, inventa relazioni inverosimili tra il basco iri e il toponimo sardo Iriái, Biriái, il quale indica una selvaggia gola basaltica dalle pareti verticali e sub-verticali in territorio di Dorgáli, oggi scavalcata da un ponte. La gola è per parecchi metri immersa nel lago del Cedrino, e prima della diga accoglieva lo scorrere del fiume. Ha un allotropo in Biriái. La sua base è la stessa di giròve, ghiròve, Ghirovái etc. ed indica il tipo di gola, stretta e con le pareti precipiti. La base etimologica è il sum. bir ‘strappare, trinciare’ (riferito proprio alla verticalità di questa gola basaltica).

Quando EBF scorge il suo radicale “basco-sardo” iri in combinazione, ecco che ci vede, come abbiamo notato più su, dei composti che possono denotare il colore ‘rossiccio’ delle terre (es. Irikore ‘insediamento su terreno rosso’, e Iridolari). In realtà, Irikore significa ‘territorio alto, altopiano’ (vedi più su). Quanto al non tradotto Iridolari, può avere la base nel sum. iri ‘villaggio’ + dul ‘coprire, mettere un tetto’ , col significato di ‘villaggio con tetti’ (forse in contrapposizione ai villaggi con capanne coniche di frasche).

Altrimenti, EBF nei composti in iri vede la presenza di acque (Ghiritzo: Sarùle, Giritzolái: Urzuléi, con basco *itz e il secondo col basco ola ‘capanna primitiva’). E francamente ci vede bene, per quanto a metà; infatti la radice basca itz– da lui proposta significa tutt’altro, ma la forma sarda significa proprio acqua: vedi la Funtana Izze-Izze in agro di Aritzo, al confine dell’agro di Désulo, dal fenicio iṣ’ (izza) ‘fuoriuscire’, aramaico ittsa ‘scaturire’; vedi mitza ‘sorgente’ e il lago Simbirizzi presso Càgliari. Quindi potremmo tradurre il sardo Ghiritzo come ‘sorgente-giara’ (da sum. gir ‘giara’). Invece Ghiritzolái è una cima montana. Prima di esprimermi sull’oronimo dovrei conoscere il posto, per sapere se sta su scisti o su calcari. Propenderei per gli scisti, che distribuiscono all’istante le acque ricevute anziché assorbirle. Quindi Ghiritzolái significherebbe ‘Dono di sorgenti che irrigano i campi’, da sum. gir ‘dono’ + aram. ittsa ‘scaturigine’ + la ‘irrigare i campi’.

In Otzigiri (Olzái) EBF vede un riferimento al ‘paesaggio freddo’ di un terreno esposto a nord (basco otz ‘freddo’ + iri ‘città’). Una interpretazione del genere è fortemente indiziata, perché in luogo freddo è molto difficile impiantare un agglomerato di case. Sembra più congruo vederlo come composto sumerico uzud ‘capra’ + giri ‘luogo, insediamento’: stato costrutto uzi-giri, col significato di ‘luogo di capre’. Peraltro, non credo che in Otzigiri sia mai stato documentato un villaggio.

 

36) Isti(l) (P 106). In basco istil e istinga significano ‘pozza, acqua stagnante, palude’ e per estensione ‘sorgente’, ‘ruscello’, ‘corso d’acqua che s’immette in una laguna o che crea uno stagno’. EBF individua i microtoponimi sardi con tale base: Riu Isti, Funtana Istini, Funtana Istinéi, Riu Talarístini, Riu Istilái, Funtana Istekorí. Stando a EBF, il significato è trasparente anche in Bidistili ‘cammino colmo di pozzanghere’, in Isterce ‘margine dello stagno’, e certamente in Istiunele ‘palude scura, torbida’, che si oppone a Istiarvu (con albus, album) ‘palude o stagno dalle acque limpide, chiare’, cui si può aggiungere Istinogorí ‘stagno dalle acque rossicce’.

Nonostante che questi idronimi sardi richiamino corsi d’acqua e fontane, sono quegli appellativi in sé (Istinei, Istilai, ecc.) a non essere in “onda” col campo semantico dell’acqua. Infatti il corrispettivo semantico del basco istil e istinga è il sardo idìle, ghidìle, bidìle ‘piccolo stagno creatosi per impermeabilizzazione naturale delle doline o degli inghiottitoi’ situati nel Supramonte di Baunéi, in luoghi piuttosto pianeggianti. Il lemma sardo deriva da akk. edu ‘corso d’acqua’, lat. unda, dalla base akk. id ‘fiume’, meglio ‘(dio del) fiume’ + illu ‘inondazione, acqua alta’; cfr. sum. gidim ‘irrigazione’, ‘uno strumento d’irrigazione’, idim ‘sorgente’, ‘acqua sotterranea’. Va da sé che i due termini baschi non hanno addentellati col vocabolario sardo. Onde gli appellativi dei nostri idronimi qua citati hanno altra origine etimologica.

 

37) Itz, *iz (P 106). In apertura del paragrafo corre l’obbligo di fare un’osservazione ambientale sul toponimo Bitti (pronuncia Vithi, Vitzi). Il villaggio sta a un’altezza di 549 metri in una conca protetta dai venti, specie da nord, e da ogni assalto nevoso. Essendo posto, come si conviene alla maggior parte dei villaggi, a quota media tra la montagna e il fondovalle, ha il vantaggio di lasciar transitare senza danno sia le brezze diurne (in ascesa) sia quelle notturne (in discesa), tenendosi costantemente a una temperatura media e consentendo che le brinate si depositino nell’inospitale fondovalle. Ecco il motivo per cui il villaggio nacque proprio in quel sito, nonostante i fondatori avessero a disposizione un territorio tra i più vasti della Sardegna. Semplicemente, essi seguivano i sacrosanti principî della meteorologia. Va da sé che questo toponimo non attiene, come invece vorrebbe EBF, a un ‘luogo freddo, dai campi coperti da una coltre notturna di ghiaccio, di brina’.

EBF tralascia sempre di mettere in conto una ferrea cultura ambientale nell’esaminare i toponimi, avendo cieca fede esclusivamente nell’omologazione tra fonetiche (e forzando, a comodo, persino quelle). Tanto per rimanere al toponimo Bitzi, Vitzi, Bithi, vorrei esortare EBF a non considerare prostetica ma originaria la B-, V– di Bitzi, Bithi, Vitzi, poiché il toponimo ricorda delle assonanze tutte comincianti con b-: il fen. bt ‘casa, abitazione’, l’ebr. beit ‘casa’, e il genitivo possessivo akk. biti ‘della casa’, akk. bītu(m) ‘casa’, anche ‘tenda del nomade’. Ma in sardo locale bitthi/bizzi è il ‘piccolo del daino’, nel log. sett. chiamato bitti ‘daino’, in Gallura bittu ‘muflone’,nuorese bitta, betta ‘cerva’. Questi nomi di animale non derivano dal lat. bestia ‘animale’ ma hanno l’antecedente nel sumerico biza ‘bambola’ e per estensione ‘cucciolo’. Di fronte a tanta ricchezza di referenti, penso che il toponimo Bitti, Bithi, col riferimento indiretto alla bellezza e alla ricchezza faunistica delle antiche foreste sarde, può anche avere la base fonosemantica nel bab. bittu, bintu, ‘figlia’, bīnu ‘figlio’ < binûtu ‘creazione, creatura’. (Cfr. in ogni modo i toponimi Bitte, Bittaléo, Bittaló, Bitaló, Bittalói, Bittelotte, Bittita, Bittitá, Bittitái, con circospezione vedi Cala Bitta in Gallura e Bitticolái presso Dorgáli).

Ciò che amareggia è che EBF sia giunto a omologare Bitti, Vitzi col basco itz, izotz ‘gelo, acqua fredda’, manifestamente lontanissimo dal nostro. E ci è arrivato perché suppone che izotz abbia una base *iz > *is > itz ‘brina, ghiaccio notturno’. Non è chi non scorga una dissipazione di fantasia nel confrontare i lemmi. La quale è dissipata pure nei restanti confronti, allorchè EBF pretende che da un inesistente basco *iz > *is siano sortiti i toponimi sardi Isalle, Isini, Iseri, Isiri, Isàra. In tale …dimostrazione, egli diviene persino esilarante, allorchè per Taccu Isàra immagina lo slittamento semantico dal monte alla valle dove scorre il fiume. Ma non sa che la valle sotto Taccu Isàra è carsica, non ci scorre alcun fiume né ruscello: ci passa soltanto la ferrovia, e un tempo conteneva la più bella foresta della Sardegna (ricordata dal Della Marmora).

Le contorsioni e i funambolismi sono uno spettacolo impagabile, quindi invito a leggere il suo § 5.4.1.15. Qui presento soltanto le vere etimologie di Isalle, Isini, Iseri, Isiri, Isàra.

Isalle. Paulis lo presenta come idronimo, con tema preromano *is– ricostruibile attraverso il basco iz– ‘acqua’ e Isis fiume del Ponto. Ma c’è pure Isallái (Dorgáli) che non è un idronimo, e Isàra oronimo. Sembra più congruo vederci un composto Is-alle = Isis + ug. aḥl ‘tenda’: stato costrutto Is-aḥl, che farebbe ‘tenda di Iside, tempio di Iside’. Meglio, Is– può essere troncamento di Iš-tar ‘Astarte’ (da akk. iṣu ‘asta’, nel senso di albero sacro, phallos + tarû ‘innalzare’: stato costrutto indicante il ‘phallos sacro eretto, eccitato’). In questo caso, possiamo ipotizzare per questa bella valle strategica, collegante la Baronìa col Nuorese e con le pianure oristanesi, un sito di prostituzione sacra.

Isini. Nome di sorgente (Villagrande) e di rio (Arzana). Sembra faccia riferimento alla flora dei luoghi umidi, ai giunchi e altre piante che davano materiale da intreccio, per fare corde e fili, da sum. isin ‘gambo, stelo’.

Iséri. Il Cuìle Iséri (Orgòsolo) e Iséri Mannu (Sòrgono) sono toponimi indicanti l’antico detentore del sito, che ha lasciato l’attuale cognome Iscéri, con base nell’akk. išḫu ‘sposo, marito’ + erû(m) ‘aquila’ (stato costrutto išḫ-erû), col significato di ‘aquila maschio’, ‘maschio dell’aquila’: arcaico nome virile. Peraltro può avere la base akk. išeriš ‘correttamente, normalmente’, sottintendendo un verbo.

Isiri, toponimo di cui ignoro località e giacitura ambientale, può essere semplice variante del già visto Iséri.

Taccu Isàra è una vetta presso l’omonima borgata appartenente a Gáiro. Sembra significhi ‘vetta della salsapariglia’. Isàra parebbe infatti una variante di insara, aussara, tsara, azara, atzara (Smilax aspera). Ma quello è il luogo meno indicato alla salsapariglia. Sembra più appropriato vederci un’origine assira, con isārum ‘costruzione annessa’, con riferimento al bel nurághe presso la vetta, che ha una grotta-tunnel naturale “annessa”. Tuttavia il vero significato sembra stare nel bab. išaru(m) ‘penis’: sempre riferito al nurághe che svetta sopra l’alto crinale montuoso, linea divisoria tra il territorio di Gáiro e quello di Osìni. Non c’è bisogno di giustificare l’etimo, essendo una costante dell’antico popolo Shardana il costruire e vedere nel nurághe la forma primitiva del membro fecondatore del Dio supremo reggitore dell’universo.

38) Lats (P 107). In basco indica un ‘ruscello, piccolo corso d’acqua’. Seguendo l’opera del Wolf sui toponimi barbaricini, EBF sostiene che tale radicale sopravviva in parecchi toponimi sardi del centro-est e del Logudoro, ed esemplifica adducendo l’idronimo di Sòrgono Funtana de Latzakké. A mio parere, il radicale sardo non indica affatto il ruscello in quanto tale, e l’idronimo di Sòrgono lo dimostra, visto che Latzakké è un aggettivale. Infatti Latzakké ha la base nell’akk. latāku ‘to try out, test’ food, drink, latku ‘provata, esaminata, dimostrata’. Si riferisce, evidentemente, all’acqua, che è buona, benefica, di qualità dimostrata.

 

39) Logi (P 107). Secondo EBF il termine basco logi, loi ‘fango’ e derivativo lohitz (locativo) avrebbero dato in sardo Lokoniai, Lokomake, Lokorioé, Lokurié, Lokotzai. E giù con varie contorsioni per tentare una impossibile dimostrazione della “evidente” colonizzazione basca. Invito a leggere il gustoso passo. Io mi limito a obiettare le seguenti cose.

Lòi è termine notissimo che ha pure dato il cognome Lòi, Lòy. Ha la vera base nella forma Lo dei condághes, la quale si basa sul sum. lu ‘essere abbondante’ + –i suffisso ebraico di qualità. Infatti sappiamo bene che il sardo lòi è la base e il prototipo di una serie di altri lemmi – raggruppati nel preciso campo semantico della ‘produzione alimentare’ – derivati da lòi per eufonia o adattamento, quando non sono accatto di forme nuove (laòre), o sono mera paronomasia (ossia adattamento a un lemma recente, più familiare). Fatto sta che abbiamo (in un solo campo semantico) le seguenti forme: labòre, laòre, laòri, lavòre, leòri, liòri, lòi, lòri. Su lòi (o laòre…) sunu erbas chi si sèmenan pro su ranu bellu chi faghen, de grande valore alimentare e de resa manna: si li podet narrer de canḍo est a erba a canḍo est lόmpidu de collìre o finta incunzadu in magasinu; sas terras semenada a laòre; triballu, pelea. Nosu hamus loris cumunus (totu sos laores, foras su trigu), loris a seminadura o a messadura (avena, linu, orzu, trigu), loris a ghetadura o a tiradura (basoludunḍu, fae, piseḍḍu, prisucci), loris de brovenḍa (o de musungiu, pro su bestiàmine), loris de biranda o coxiti (a còghere pro sa zente: basoludunḍu, fae, prisucci e gai) (Puddu). Il lemma Lòi, o direttamente , è presente anche in vari toponimi della Sardegna, tutti indicanti il fenomeno dell’abbondanza, come ad es. Su Lòi (presso Capoterra), che indica un sito coltivato da antica data (Su Lòi = ‘la terra dell’abbondanza’); e anche Arelò (Ara ‘e lo = ‘il sito dell’abbondanza’) in agro di Aùstis è un luogo coltivato da epoca antica.

Quanto al basco logi, loi, indicante sempre il ‘fango’, ebbene, ha un perfetto corrispondente, ma non nel sardo, sibbene nel sum. luḫum ‘fango’. Il corrispettivo sardo indica invece il ‘luogo di pascoli’ (da sum. lug) e per estensione ‘territorio’ e persino ‘territorio governato, regno’. Come dire, due pesi e due misure; infatti in sardo non è rimasta traccia della radice sum. luḫ– indicante il ‘fango’.

Quanto ai toponimi sardi Lokoniai, Lokomake, Lokorioé, Lokurié, Lokotzái, eserciterei molta prudenza prima di legarli a una radice basca indicante il fango. Se prima non ho scrutato accuratamente il posto da un punto di vista ambientale, facendo se possibile la “stratigrafia” dell’uso del territorio, non me la sento affatto di addossargli una nomea di ‘luogo fangoso’ solo in omaggio alla lingua basca. Preferisco di gran lunga vederci dei composti con a capo l’akk. lūku (un albero). Ad esempio, Lokomake potrebbe avere la base etimologica nell’akk. lūku (un albero) + makkû (un tipo di palo, ma anche il phallos, l’albero scolpito a forma di phallos). Quindi il composto potrebbe indicare un ‘(sito per) alberi da palificazione’ ovvero ‘albero-phallos’ (indicante così un luogo di venerazione della dea Ishtar, cui il palo-phallos era sacro).

40) Lur (P 108). Il vocabolo basco lur indica ogni tipo di ‘terra, terreno’. Invito a leggere le contorsioni logiche di Blasco Ferrer al § 5.4.1.18, con la speranza che il lettore trovi un filo in ciò che a me la ragione ha inibito. Quindi rinuncio a commentarlo.

In Sardegna non mancano toponimi con radice lur– (purtroppo da EBF ignorati), ma essi hanno base nel bab. lurû(m), che significa ‘uomo dalla voce muliebre’ e per estensione ‘lira’ (gr. lyra). Se EBF venisse con me, lo porterei in un sito selvaggio così chiamato (Su Luru), dove troverà una gigantesca “lira” di purissimo quarzo ch’emerge da roccie parimenti quarzose.

 

41) Mando (P 108). Anche qui EBF mostra che la cornucopia delle fantasie è inesauribile; egli trova identità persino tra il basco mando ‘mulo’, ‘asino, asinello’ e il toponimo sardo Mandas, nel cognome Manno e nei toponimi Mannurri, Mannurrie. Gli obietto che quel termine basco non ha addentellati nemmeno nel sumerico, dove si ha mandum ‘soldato’.

Quanto a Mandas, la base non è il sumerico ma l’akk. ma’dû, madû ‘grande quantità, ricchezza, abbondanza’ (con seriore inserzione della –n– eufonica). A Mandas passava una delle vie di transumanza.

Il cognome Manno corrisp. all’agg. sardo mannu ‘grande’. Non c’è linguista che non l’abbini per derivazione al lat. magnus ‘grande, potente’. Ha invece la base nel sum. maḫ ‘grande, potente’ + nu ‘uomo’ (maḫ-nu, lat. mag-nus): letteralmente ‘uomo grande, potente’, da cui originò anche l’aggettivo denominale latino.

Quanto a Mannurri, il toponimo indica la fiancata del Monte Armario, a 1200 m d’altezza, quella che s’origina dal Passo di Correbói verso nord. Il toponimo va scomposto in due membri. Il primo significa ‘ciascuna singola persona’ (akk. mannu, da cui inglese man). Ma è molto probabile che il raddoppio della nasale sia avvenuto per antica incomprensione del termine originario, che doveva essere manû ‘contare, calcolare, enumerare, consegnare, cambiare’. Il secondo termine è l’akk. urû ‘stalla, posto di sosta (di cavalli)’. Quindi Mannurri significherebbe ‘luogo di posta e di cambio dei cavalli’. Il toponimo è interessante. Anche perchè nel sito, al passo di Correbòi o sulle pendici del Monte Armário ci doveva essere annesso non solo l’alberghetto montano ma anche un tempio di prostituzione sacra.

 

42) *Nur (P 108). Mi compiaccio che EBF riconosca che la radice sarda nur è fra le più produttive e peculiari. Egli riconosce pure che nur compare nella struttura del lemma nuraghe. Comincia a sbagliare quando informa gli accademici del mondo (cui dedica ininterrottamente il proprio eloquio) che i nuraghes sono strutture difensive. C’è da immaginare che dentro i 7-10000 nuraghi ci si difendesse dalle mosche, poiché una mente nobile non riesce a concepire che i Sardi abbiano eretto tutte quelle torri poderose per… difendersi dagli uomini. Ciò significherebbe che nessuno degli abitatori dei nuraghi attaccava! Essi si difendevano: basta! Anche perché era un rischio lasciare incustodito quel bene prezioso solo per tentare un attacco. Dovevano difendersi. Da chi?: dai cugini che a loro volta difendevano il proprio nuraghe 500 metri più in là, senza mai abbandonarlo, poffarbacco! Seguendo la logica Blaschiana, i Sardi oggi non esisterebbero più, poiché sarebbero tutti morti asfissiati dalle fascine incendiate all’esterno ad opera di qualche cugino di pascolo (bastava un cugino furtivo e poche fascine per uccidere nottetempo gli occupanti di quelle torri!). A parte questa pausa esilarante, vediamo il resto dell’assurdo di EBF.

EBF è arrivato a capire che nurra significa ‘ammasso di pietre’. Buono. Egli abbina tale semantica alla sagoma del nuraghe. Buono. Ma ignora che il seriore concetto di nurra in quanto ‘mucchio di sassi’ non fu altro che un nuovo modo indotto dal clero bizantino nel considerare il nurághe, additato spregiativamente come “mucchio di sassi” affinchè ci si dimenticasse che era l’altare del Dio Sole. Del nura-ghe oggi conserviamo una retroformazione nurra irrimediabilmente banalizzata, perfino rafforzata (-rr-) affinchè risulti icasticamente ridanciana.

Ora, che risposta diamo a EBF che abbina ai nostri lemmi il basco nóiru, nóriu ‘mucchio di pietre’, norai ‘bitta, roccia solida per l’ormeggio’? La risposta è semplice e disarmante: la ricerca dell’etimo di quei tre lemmi va respinta dal campo sardo e va ricondotta al campo puramente celtico, non a quello sardo-semitico. Anche perché alla base di ogni lemma sardo in nur– sta sempre e comunque il fondamentale concetto di ‘luce’ (akk. nūru ‘luce del sole’): infatti il nuraghe prese il nome da lì, essendo l’altare del Dio Sole. Ha la base in tale lemma accadico, il quale a sua volta deriva dal sum. nu ‘creatore, sperma (divino)’ + ra ‘fulgido, puro, splendente’ (vedi egizio Ra ‘Sole che splende’), col significato originario di ‘Bagliore di Dio Creatore’. A questo termine, già in sumerico, si agglutinò anche un terzo lemma, gu, e il composto nu-ra-gu (‘nuraghe’) significò ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’. Il nuraghe era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare il Sommo Dio Creatore dell’Universo. E non è un caso che la ricostruzione grafica della grande ziqqurat di Ur presenti sulla piattaforma sommitale il tempio sacro, che è l’esatto modello del nuraghe sardo.

Mi fa piacere che il Coromines sostenga che su tutta la costa catalana s’addensino nomi di luogo formati con la stessa radice *nūr, e persino con suffisso analogo a quello sardo: Noraix ecc. Ma è ovvio: anche lì adorarono il Dio Sole, non importa con quale tipo di monumento! Ma da qui ad accettare che la radice basca indicante il ‘mucchio di pietre’ sia dilagata verso sud e in Sardegna dal focolaio protobasco, ce ne passa. Anche perché, prima di attirarci su tale discussione, EBF avrebbe dovuto farci il piacere di dipanare la tenebrosa proposta di identificare la radice nur col basco uri, (h)uri, urri (sic!).

43) Ola (P 110). In basco significa ‘capanna’. Anche su tale lemma EBF vorrebbe indurci a entrare nell’agone da lui prescelto al fine di farci credere non solo che quello abbia contagiato la lingua sarda, ma che sia ravvisabile in parecchi toponimi sardi.

È Strano che EBF citi certi toponimi composti sardi anziché indicare i più semplici, tra i quali metto Ula (Tirso), nome di villaggio situato nell’Alto Barigádu. Esso è sempre stato nominato in tal modo, ed i filologi romanzi lo riferiscono ad una supposta ‘gola montana’, che evidentemente si getterebbe nel vicino Tirso, importante fiume dominato da questa regione d’alta collina. Ma questa zona vulcanica non presenta gole, le quali presupporrebbero magari delle rocce di basalto. Qua il basamento geologico è composto di riodacite ed i suoli che ne derivano sono molto fertili e coltivabili. Noi attribuiamo il significato di Ula all’akk. ulû ‘abbondanza, fertilità’, espresso in babilonese col sintagma ulu šammi ‘l’olio migliore’. Oppure lo attribuiamo al sum. ul ‘brillante, splendente’, ul ‘firmamento’ (riferito al Dio Sole).

Altra citazione di EBF riguarda Ollollái (v. pure P 65), una iterazione rafforzativa, sacrale di un termine sardiano con base accadica ullu ‘toro’ (Ull-ulla-i, con suffisso territoriale di forma ebraica e significato antonomastico di ‘Toro Sacro’, uno degli epiteti del Dio Sommo).

Con Ollollái è corretto apparentare Olièna, dai residenti pronunciato Ulìana, Olìana, nome nientaffatto riferibile agli ulivi ed in realtà sardiano, con base nel sum. ul ‘brillante, splendente’, ul ‘firmamento’ + Anu ‘Dio sommo del Cielo’ ‘(città dedicata al) Dio sommo del Cielo’, con significato di ‘Anu splendente’. Il vezzo di dedicare una cittadina a dèi o santi è sempre stato vivo nella storia del mondo: vedi Gerusalemme (‘Fondazione del dio Šalem’), Babilonia (akk. bāb īli ‘porta di Dio’), Atene ‘(città di) Athena’, San Francisco, Sacramento, Los Angeles in California, San Tiago di Compostela, Sant’Antonio, Santa Teresa, Trinità d’Agùltu in Gallura, San Vito nel Sàrrabus, Sant’Anna Arrési nel Sulcis, Madonna di Campiglio, Santa Maria Capua Vetere, e così via.

Mi perito di affrontare, se non altro in questa sede (non voglio infatti tediare), tutte le contorte e assurde proposte di EBF a riguardo del suo lemma; in ogni modo dichiaro di averle analizzate e considerate irricevibili.

44) On (P 110). In basco significa ‘buono’. EBF sostiene che in Sardegna esso è presente nei composti con bide. Se ne assuma la responsabilità, ma mi rifiuto di stargli dietro, visto che queste affermazioni non portano da nessuna parte.

45) Ona (P 110). In basco significherebbe ‘collina’ (da oin). Pregherei EBF di segnalarmi da quale Dizionario ha preso i due vocaboli, poiché in quello ottimo di Placido Mugica Berrondo non riscontro affatto tali significati; tantomeno in quello di Jose Luis Arriaga. Il nome di villaggio Onanì, da lui esemplificato a suo favore, a mio avviso ha la base etimologica dall’antico fondatore, che dovette essere un ebreo, col nome Onan, o Ananìa.

Quanto all’altra proposta, quella del nome di villaggio Onifái, ricordo che in RDSard. a. 1341 il nome era Uniféri (vedi Oniféri, nome di un altro villaggio), poi modificato in Unifa. Nella dizione locale attuale è Oniái. La differenza fonetica tra i toponimi Onifái/Oniái e Oniféri sembra incolmabile: è l’esempio di quanto possa divaricare nei secoli una pronuncia. Forse tra i due toponimi ha giocato pure la necessità di evitare la confusione. Se diamo a Uniái-Oniái-Unifái la stessa base etimologica che diamo a Uniféri-Oniféri, allora lo leggiamo come composto sumero-accadico, da sum. unu ‘insediamento’ + akk. erû ‘aquila’ (stato costrutto unierû), col significato di ‘paese delle aquile’. Il nome non ha nulla di fantasioso, poiché il villaggio è sovrastato da una montagna dolomitica ancora oggi selvaggia, il Monte Tuttavista, nonché dalla vicina catena montuosa culminante nel Monte Gurtùrgios ‘Monte degli avvoltoi’, e dal vicino sistema dolomitico dell’Arbu (Lula-Siniscola), dove un tempo gli avvoltoi e le aquile erano i signori incontrastati.

Lascerei perdere la terza proposta, il toponimo Oroniái (Olzái) in quanto non conosco il sito: a tavolino potrei proporre la base etimologica nel bab. ūru ‘stalla, ovile’, (sum. ur ‘radunare’, ur ‘insediamento’) + niā’um ‘nostro’ (enfatico), col significato di ‘ovile nostro’, ossia ‘insediamento collettivo’.

 

46) Orri, Osto (P 111). In basco indicano la ‘foglia’, il ‘fogliame’, le ‘frasche’. Sempre con la pretesa di farci credere che anche in Sardegna il basco ola significhi ‘capanna’ (ma ho già dimostrato di no), EBF propone il nome di villaggio Orròli da Orroolo col significato di ‘(villaggio di) capanne in frasche’. Il luogo un tempo era un’immensa foresta di roverella (Quercus pubescens), in zona chiamata orròli ‘rovere’ per il fatto che le sue foglie sono simili a quelle della Quercus robur, che però in Sardegna non alligna. Proprio l’ignoranza della quercia rovere da parte dei Sardi è spia del fatto che il fitonimo, col significato attuale, fu suggerito dai Pisani dopo l’anno Mille. Mentre la base etimologica di Orròli a mio avviso sta nell’akk. ūru ‘albero’ + suffisso sardiano –li connotante la territorialità. Con ciò veniamo a sapere che Orròli indicava per antonomasia, nel sardo antichissimo, una foresta d’alberi d’alto fusto.

Con la forma Urru in Sardegna abbiamo anche un cognome. In akk. urrû significa ‘ben curato; potato (con riferimento alla palma)’. Ma ricordo pure il cognome ebr. libico e castigl. Ḥuru, onde è possibile anche l’origine ebraica di Urru, con base nell’akk. ḫūru ‘figlio’.

Non intendo essere risucchiato nelle altre dimostrazioni di EBF, che hanno il potere di incatenare il lettore a una galera unidirezionale, senza possibilità di scambio, di discussione scientifica. Però è uopo sostare un momento sulla radice basca osto, che appare fungibile col basco orri. In Sardegna osto attiene al nome del celebre Osto, Josto, condottiero sardo figlio di Amsicora. Come accade per tutti i nomi della gente sarda altolocata, anche questo attinge a significati aulici. La base etimologica è un composto accadico ušû(m) ‘pietra dura’ forse diorite o dolerite + , , di’u(m) ‘base del trono’; unite per stato costrutto le due parole fanno , onde Osto e (J)osto.

 

47) (H)Otz (P 111). Non conosco il criterio idealistico usato da EBF nel mettere a confronto il basco (h)otz ‘freddo’ col sardo óspile ‘recinto per vitelli’, essendoci un forte divario fonetico. Secondo lui óspile deriva (sic!: deriva) dal basco hotz-bil ‘luogo fresco’. Non accetto questa forzatura. Óspile, forma allotropa di cungiáu ‘pascolo chiuso da muri’, significa anche grutta, sélcia ‘grotta, spaccatura nella roccia’. Ad Urzuléi indica anche il ‘burrone’ di ridotte dimensioni, che in effetti talora viene prescelto perché l’addossarvi un recinto per pecore lo rende più sbrigativo e più solido. Deriva dal sum. us ‘pecora’ + pi ‘unità’ + li ‘ramo’: agglutinato in us-pi-li col significato di ‘unità (ridotto) per pecore fatto di rami’.

Rinvio il lettore alla degustazione del § 5.4.1.25, dove EBF pretende che tutti i siti sardi aventi a che fare con óspile siano freschi, anzi freddi, senza che tale incredibile affermazione abbia fatto ridere sotto i baffi lo stesso proponente. Vorrei sapere dove stanno in Sardegna le obbligatorie giaciture degli ovili presso “corsi d’acqua”, in “terreni bagnati da vene”, mentre accetto, in quanto lapalissiano, che i ripari per il bestiame siano talora coperti, quindi ombrosi e più freschi rispetto al restante spazio dell’ovile.

Fossi Blasco Ferrer, espungerei col dovuto pudore quella favolosa frase relativa al sito olzaese di Mela Kuka, che traduce come *kuk ‘altura’ + mele ‘scura, ombrosa’, mentre a me consta un significato rovesciato (Mela < akk. mēlû ‘altura’, ‘altezza, altitudine’ + Kuka < kukkûm ‘oscurità’, sum. kuku ‘scuro, tenebroso’ = ‘altura ombrosa’).

Quanto ad Ogotzi, Otzigiri, Otziddai, Otzitzo, penso che il basco otz ‘freddo’ sfoci in una delle tante confluenze che la lingua basca conserva con la lingua semitica, considerato che tali siti ‘freddi’ (così li indica EBF) sembrano avere il corrispettivo nell’ebr.-aram. Zìu, Zio ‘secondo mese dell’anno (mese piovoso, corrisp. ad aprile-maggio) incrociato con zuv (בוּז) ‘flusso, getto, zampillo’ (akk. zinnu, zīnu ‘pioggia’). In tal senso, oltre ai quattro idronimi citati, posso citare – quale prototipo cui riferire con certezza il basco otzPranu Otzío nel Supramonte di Baunéi, dove nasce una copiosa sorgente che rende fertile il grandissimo pianoro; e cito sa Funtana Zíu in Sìnnai, oggi interrata e urbanizzata ma un tempo apportatrice d’acqua agli orti circostanti.

48) (H)Obi (P 68, 112). Nella toponomastica basca e pirenaica indica le ‘concavità naturali, gole, forre’. Da EBF viene supposta la condivisione sarda nell’idronimo Obistis, Ubisti “fontana di Nùoro, dietro il palazzo del Genio Civile” (Pittau), oltrechè in Ovorge, Lollòve. Meglio non allargarsi a esaminare altri “indizi” di EBF per non entrare in terreno troppo …libertario.

Comincio da Lollòve, minuscolo villaggio di Nùoro che non sta su un corso d’acqua ma sulla fiancata di una montagna. Da akk. lullû ‘arricchire, dotare d’abbondanza’ + sum. ubur ‘petto, mammella’ col significato di ‘mammella dell’abbondanza’ (tutto un programma); oppure da sum. lu ‘abbondanza’ (replicato come superlativo lu-lu ‘tanta abbondanza’) + ubur: significato simile al precedente. Non è un caso che i Nuoresi abbiano sempre prediletto questo luogo.

Ubisti ha la base nel sum. ub ‘cavità’ (giusto il lemma basco) + akk. ištu ‘da, from, out of’, col significato di ‘(fonte) dal buco’. Per capirne bene la semantica, occorre sapere che la maggior parte delle fonti sono “a scorrimento superficiale” o pullulano dalla fanghiglia, mentre sono rare quelle che fuoriescono dai buchi di roccia.

Quanto a Ovorge, Ovorghe (Orgòsolo), potrebbe avere la base nel sum. ub ‘cavità’ (giusto il lemma basco) + uru ‘corrente d’acqua, inondazione, diluvio’, col significato di ‘buco del profluvio’. Ma per esserne certi occorre visitare il posto e capirne le caratteristiche ambientali presenti e passate.

49) Soro (P 79, 113). In basco soro è un ‘campo libero o dissodato’, anche ‘prato’. Secondo EBF traspare in parecchi toponimi sardi tipo Sorunele ‘campo dalla terra scura’, Sorokori ‘campo dalla terra rossiccia’, Soromaku ‘insediamento sul campo’, Soroeni (basco Sorogain) ‘terra alta, rilievo’. Rispondo con ponderatezza alle lasche “traduzioni” di EBF, cominciando dal cognome Soro, Soru, Assóru.

Pittau CDS lo confronta con sardo sóru ‘siero’. Così operando preclude la cognizione dei processi cognominali in quanto storie diacroniche. Occorre distinguere sóru ‘siero’ (del formaggio, della ricotta) da Soru cognome. Il primo lemma ha la base nel sum. sur ‘premere, pressare’ e pure ‘gocciolare, piovere’ (metonimia dove s’indica l’effetto al posto del processo). Invece il cognome, già documentato nel condághe di Silki 215 e in quello di Bonàrcado 203, è un aggettivale di origine geografica: dall’assiro aššurû ‘Assiro’. Vedi il cgn Assóru, di cui è contrazione. La forma sarda *Assùru, Assóru fu presto vista come corruzione di sóru ‘siero’. In origine tale cognome dovette appartenere a uno dei tanti mercanti assiri che giravano per il Mediterraneo (sono notissimi quelli insediatisi in Cappadocia in epoca pre-ittita). Fatta giustizia dell’errata interpretazione del Pittau, tantomeno accetto l’ipotesi della Turchi (Lo sciamanesimo in Sardegna 206-7) di un’origine bizantina del cognome, collegata al fatto che, secondo lei, molti nuraghi dovevano essere delle cattedrali che tenevano in perenne esposizione la salma del re-ecista, elemento collante dell’identità tribale. Ma lasciamo il campo a lei: «È probabile che in tempi assai lontani siano approdate nell’isola popolazioni orientali alle quali si aggiunsero successivamente genti micenee, molto prima che i Fenici vi stabilissero le loro colonie. Quando dai nuraghi scomparvero le salme con i loro trofei, forse interrate in altri luoghi per tema di profanazione, la frequentazione della tomba-tempio dovette continuare ancora per secoli, se la nuova religione sentì l’esigenza di cristianizzare i nuraghi dando loro nomi di santi, benchè molti abbiano conservato il nome originario: Nuraghe Soro. Nel mondo greco-miceneo il termine sorós (σωρός) significa urna sepolcrale e molti nuraghi sono così denominati indicando chiaramente che quella costruzione era il luogo sacro dove si trovava la salma dell’antenato. Ne citiamo alcuni: Nuraghe Pedra ‘e Soru (Ottana); Nuraghe Soro (Sorso); Nuraghe Soru (Gonnosnò); Nuraghe Soru (Curcuris); Nuraghe Soru (Figu); Nuraghe de Sorosi (Ollastra Simaxis); Nuraghe Soroene (Lodine); Nuraghe Sorolo (Bortigali); Nuraghe Soroeni (Lodè); Nuraghe Sorene (Silanus); Nuraghe Sorolo (Birori); Nuraghe Sorogana (Abbasanta); Nuraghe Sorolo (Aidomaggiore); Nuraghe Busoro (Sedilo); Nuraghe Asoro (San Vito)». A me non sembra affatto che i nomi di tali nuraghi indichino un’urna (per questo genere di problemi rimando più appropriatamente al toponimo Sorres). Essi hanno semplicemente i nomi (cognomi) degli antichi proprietari del luogo (Sóru, Sóro è un cognome pansardo); noto poi che alcuni nomi proposti dalla Turchi sono sbagliati: quale Sorolo di Bortigali e Birori (vedi al toponimo Orolo); Asoru di S.Vito (vedi toponimo Asoru); Sorogana di Abbasanta (composto dai cognomi Soro + Gana); Soroene di Lodine, che indica chiaramente sa ena ‘e Soru ‘la sorgente di (proprietà di) Soru’; nuraghe de Sorosi di Ollastra Simaxis, che denuncia una perdita del significato originario (il de introduce un nome personale al genitivo ed il significato è ‘nuraghe di Sorosi’ mentre a sua volta Sorosi doveva avere la base nell’akk. šu rūšum ‘il [nuraghe] rosso’ a causa dei caratteristici licheni chiamati Auricellum).

Affronto ora i tre toponimi sardi citati da EBF nei quali, con buona volontà, trovo dei punti d’incontro con le sue proposte, nel senso che il basco soro ‘campo libero o dissodato’, ‘prato’ ha il corrispettivo nel sum. šurum ‘rifiuti del pasto, feci, lettiera di bestie’, dove, con l’occhio mirato alle arcaiche pratiche agrarie, possiamo convergere in un solo campo semantico nel quale il dissodare la terra vergine fa tutt’uno col concimarla a tempo debito (due facce della stessa medaglia).

Sorunéle quindi può avere la base comune individuata, ma il secondo membro –néle ha la base etimologica nell’akk. nīlu(m) ‘inondazione’; in tal guisa Sorunéle (Fonni, Ollolái, Sarùle) indicò in origine un ‘campo dissodato irrigabile o irrigato’.

Sorokòri (Orani) può avere tale base basca, semprechè al secondo membro s’individui la base sum. kur ‘terra, territorio’, anche ‘territorio (montano)’, gr. χῶρος ‘terra, spazio, territorio’: il significato sarebbe ‘terra dissodata’.

Soromáku (ignoro il sito) potrebbe avere la solita base basca, ma il secondo membro è da ricondurre al sumerico, dove abbiamo maḫ ‘cow’ o ‘great’ o ‘tree’, col che abbiamo tre possibili soluzioni: ‘pascolo per vacche’, o ‘grande pascolo’, o ‘pascolo arborato’.

 

50) *Susune (P 113). Questo lemma in basco è rappresentato da susun, sesun, zuzun ‘pioppo’, ‘Populus tremula’. Con senso storicistico e occhio attento alle situazioni ambientali, il lemma non si può adattare alle singole vocazioni territoriali, poichè in Sardegna il pioppo non è mai appartenuto alla flora primitiva; al suo posto abbiamo il salice e specialmente l’ontàno, ma pure il tamarisco, ad uno dei quali, con un po’ di buona volontà, potremmo tentare di adattare il nome basco. Non dobbiamo titubare più di tanto a tentare il confronto col fitonimo basco, anche se i tre alberi sardi citati hanno già il loro nome (e la loro etimologia); álinu in sardo è l’ontàno (< bab. elinu); thòa, thòba è il ‘salice’ < akk. ṭubbû ‘inzuppato’, con riferimento alla sua vita acquatica, o ṭubû (genere di canna: anch’essa amante dell’acqua). Con tzarpa, sarpa s’indica il ‘salice’, ma anche l‘olivastro di fiume; Paulis NPPS lo deriva dal cat. sarga ‘salice’ o sp. zarpa ‘zampa’, ma invece è dall’assiro ṭarpa’u (a tamarisk).

Ora, col lemma basco, cosa potremmo identificare in Sardegna, visto che con tre nomi originari s’indicano già quattro piante? A quanto pare, susun, sesun, zuzun può adattarsi al sum. susu ‘canna’ + nam ‘lord’: susu-nam, col significato di ‘canna dominante’, nel senso che fu la migliore per certi tipi di manufatti. Con ciò sanciremmo una parentela basco-sumerica, senza creare un “triangolo” coi fitonimi sardi.

51) (I)Turri (P 114). La voce basca indica ogni tipo di ‘sorgente naturale’ ed è assai produttiva per la toponomastica ispanica. Per quanto attiene alla Sardegna, EBF lo trasla nei toponimi Turrinele, Turrunele, cui dà il significato di ‘sorgente dalle acque scure, torbide’.

Ma in Sardegna la situazione non corrisponde a quella delineata. Ad esempio, è vero che il cognome Turnu, Turno corrisponde al barb. e log. tùrru(nu) ‘zampillo, cascata d’acqua’, ‘scavo prodotto dall’acqua: scavo naturale attraverso cui l’acqua zampilla’, ‘scaturigine improvvisa d’acqua per effetto d’un acquazzone’. Il termine ha il corrispettivo nello sp. chorro ‘grosso zampillo d’acqua’, ma la base sembra l’akk. sūru, surru ‘canale, scavo prodotto dall’acqua’. Vedi anche il toponimo Turnu ‘e accu, Àrzana.

Ma già le cose cambiano con Turrunèle, monte in agro di Sarùle e di Orgòsolo (Durunèle). Per il secondo membro (-néle) vedi Friscunéle. Significa ‘altura delle sorgenti’. Infatti, andando a Turusèle, notiamo che pure questo è un monte, come il precedente di Sarùle. La Punta Turusèle, estremo lembo del territorio carsico di Baunéi, emerge poche decine di metri sulla piana pastorale di Murgulavò ma tanto le basta per essere la cima più alta del territorio comunale (m 1024). Dal rialto si controllava il transito delle greggi nonchè l’uso della preziosa acqua emessa dalla sorgente di Lovettecannas e dai poggi granitici che si snodano a sud fino a Genna Sarbéne (‘il passo delle sorgenti’).

Turusèle, altro toponimo in tur-, domina principalmente la vicina valle che dà inizio allo strategico fiume che penetra nella Codula di Luna. Turusèle richiama l’aram. tur ‘monte’ + akk. ṣēlu ‘bordo, fianco, margine’, col significato sintetico di ‘rocca che delimita’ (infatti delimita rigorosamente due territori del Supramonte di Baunéi: da una parte la foresta dell’altopiano, dall’altra lo sprofondamento che mena verso Codula Ilùne.

Turri, nome di un villaggio della Marmilla (suffisso –i < lat. –is), sembra avere la stessa radice di Tyrris (Libysonis) ‘Porto Torres’ e di Tyros (l’antica madrepatria dei Sardo-Cartaginesi). In ogni modo, Turris, Tyrris è una paronomasia latina, poiché i ri-fondatori romani la interpretarono erroneamente come ‘torre’. In realtà la radice Tyr, Tur– s’addice al sum. tur ‘stalla’. Semanticamente, ha lo stesso significato del celebre toponimo anatolico Troia (e del sulcitano furriadròxiu o medáu), indicante appunto un chiuso comunitario dove al tramonto convergevano le greggi e i pastori del territorio.

Può darsi che l’idronimo Turre (Scano Montiferru), indicante una polla d’acqua immersa in un complesso roccioso, abbia parentela col termine basco su indicato; ma osserva pure il sum. tir ‘vasca, scodella’.

 

52) Ur (P 114). La base basca ur corrisponde al sum. uru ‘diluvio, inondazione’. Giusto quanto afferma EBF, la Sardegna è disseminata geograficamente da questa forma in modo indifferenziato. Tanti toponimi lo attestano. Ricordiamo a caso il paese di Uri, (flumini) Uri, abitati col nome Uras, (funtana) Uras, Urzuléi, (pischina) Urthàddala, Uranno, (nuraghe) Òrolo, Urri, Uralosso, Urradili, Urradoli, (taccu) Úrrulu, (rio) Úrulu, l’antroponimo antico Urrus, (domus) Urbis, Uruthó, Úrgua, (funtana) Uralla, (canale) Uréi, (roja) Uróssolo, (sorgente) Urozzo, (riu) Urbarutta, (sorgente) Urbeda, (funtana) Urcéi, (funtana) Urzéi, (funtana) Urcéni, (funtana) Urdagrua, (funtana) Ursa, (sorgente) Urzuniu, (pischina d’) Urea, (saltu d’) Uréi nella Sardegna medievale.

Paulis riporta il termine come parola basca per ‘acqua’ e cita Plinio per urium ‘acqua fangosa’. In realtà i singoli lemmi sottoposti ad analisi hanno dimostrato ognuno una propria personalità, e vanno visti ognuno nel proprio contesto perché hanno talora basi diverse. Tuttavia la gran parte di quelli citati ha la stessa origine, che però non è basca (o meglio, la lingua basca, che contiene tale lemma, fruisce del medesimo contesto pan-europeo da cui attinge la Sardegna e non ha influssi diretti sull’isola). Il fatto che alcuni di questi termini abbiano attinenza con l’acqua è presto chiarito: le palme da datteri avevano bisogno di acqua, ed in Sardegna, occorre affermarlo con tutta serietà, 3000 anni fa si coltivavano moltissime palme da datteri. Ur-, Urru e radici simili derivano dal babilonese urrû ‘curato, potato, snellito (riferito alle palme da datteri). Per estensione, a quanto pare, l’aggettivo semitico fu esteso alla miriade di palme sarde (Chamaerops humilis) delle quali c’erano immense foreste. Forse queste palme nostrane, esilissime ma non troppo basse (in natura raggiungono anche i 6 metri), furono innestate per la produzione di datteri: in ciò i semiti erano maestri. Per capire l’entità del fenomeno in Sardegna, leggi ai lemmi come Urrulu, Taccurrulu, Orolo, Uras, Portoscuso, Parma, Prammas, Palmas Arborèa, S.Giovanni Suergiu etc. Ciò detto, vedo di trattare una manciata di lemmi in ur-.

Ùras, comune dell’Oristanese, riproduce il sum. uraš, ‘terra, territorio’.

Baḍḍe Ùrbara sta accanto alla vetta del Monte Ferru di Cùglieri. La base etimologica più evidente è quella sumerica urbara (ur.bar.ra) ‘wolf, lupo’, ma è incongrua perchè in Sardegna mancano notizie storiche sui lupi. Sembra congruo vedere in Ùrbara un composto sardiano con base nell’akk. urû(m) ‘stallone’ + bāru (sinonimo di territorio libero, aperto), col significato complessivo di ‘valle degli stalloni’. La feracità di questo territorio vulcanico e piovoso dovette essere molto apprezzata.

Ùrbidu, ùbridu è un ‘viottolo stretto e ingombro di selva’; anche un ‘luogo molto difficile da percorrere, con rocce alte’. Ha la base nell’ant. bab. urbītum (che però è una pietra). Vedi Orbìsi.

Il toponimo Domus Urbis in territorio di Osìni deriva probabilmente dal lat. Urbius, il nome di un antico proprietario.

Urcéi, Urcéni, toponimo di Osìni, nella montagna carsica. Pittau (OPSE 222) fa un lungo elenco di toponimi del genere (es. nuraghe Urcéni), tutti oriundi, a suo parere, dalla forma etrusco/latina Orcus ‘il regno dei morti’. La proposta ha il merito di affrontare dei lemmi altrimenti incomprensibili. A questo punto resterebbe il dubbio se anche Burcéi possa avere la stessa origine, anziché quella da me proposta. Ma probabilmente i due toponimi non sono confrontabili, in quanto Burcéi insiste su rocce paleozoiche che fanno scorrere l’acqua in superficie. Mentre è tipico di Osìni e dei paesi contermini avere abbondanza di rocce calcaree, le quali, nei momenti di grande pioggia, emettono dei grossi fontanili che agli antichi abitanti davano l’idea di scaturire dall’oltretomba. Semerano (PSM 85) propone l’etrusco urχ, da cui lat. urceus, orca, col significato di ‘acqua, ruscello’. Anche qui il caso Urcéni trova la sua collocazione.

Bruncu d’Urèle, nel selvaggio Supramonte di Baunéi, sta elevato sull’abisso che sprofonda nella Costa del Bue Marino, ed è spesso investito dalle nubi striscianti che salgono dal mare. Significa ‘la cima della nebbia’. Uréle, uriéle, buriéle, sardo ‘nuvoloso, oscuro’, ha la stessa radice di it. buriana ‘grosso ma breve temporale’, del log. buriáre ‘turbare: l’acqua, ma anche una persona’. Si può confrontare col greco Βορέας ‘vento del nord’ e col cat. boyra ‘nebbia’.

Urgálu a Talàna è un ‘rigagnolo’, forma con lo stesso significato di thurgálu, túrgalu.

Urgu, cognome che Pittau (OPSE 222) propone dal lat. Orcus, Urgus (dio dei morti, già indiziato di origine etrusca). Ma la base immediata è l’akk. urḫu, arḫu ‘strada, sentiero’ ed anche ‘oggetto di bronzo’, nonchè ‘luna, mese’. A meno che la base più antica non sia il sum. urgu ‘ferocia’ (da ur ‘cane’ + gu ‘abbaiare’).

Úrgua ha la base nell’akk. urḫu ‘sentiero, passo montano’. V. Urgu.

Uri, comune del Logudòro nord-occidentale. Cfr. la città biblica Ur, detta Uri in sumerico, senza dimenticare l’akk. uru ‘villaggio’ ma anche ‘(originario) di Ur’, e l’ebr. ‛yr ‘torre cittadina, altura fortificata’; il composto akk. (belu)-uru significa ‘villaggio (dominante)’. (Belu riaffiora pure nell’etr. vel– di Velathri). Uri in basco significa ‘città’. Questa voce appare pure in ebraico (Uri, Huri: 1Cr 2,20; Esd 10,24; Es 31,2). EBD ricorda il toponimo ebraico Huri (Es XXXI 2 etc.); cgn ebr. Houri, Hori, Huri (1Cr V 14). Uri è anche una radice accadica indicante ‘le palme potate’. Da confrontare con tutti i toponimi che contengono questa radice. Ma per il paese in questione la traduzione è proprio ‘paese, villaggio’. Il cognome sardo Urígu significa ‘di Uri’.

Urígu, cognome sardo. Significa ‘originario di Uri’. Zara (CSOE 82) lo ritiene d’origine ebraica: Uri, Huri (Esdra 10,24; Esodo 31,2). In tal caso il nome ebraico risale almeno al 19 e.v.

Urìzi sassar. ‘orlo, orlatura, bordo’ (di gonna e altro); urìzi di una trèmma ‘bordo di un precipizio’. Qualcuno lo crede derivato direttamente dall’it. orlo, ma poi non sa spiegare il motivo di una così grande differenza fonetica. In realtà, urìzi partecipa dello stesso destino fono-semantico di it. orizzonte, ma è molto più antico. Questo nome è spiegato dal DELI, per l’italiano, come la ‘linea formata dall’insieme dei punti dove, rispetto all’osservatore, il cielo e la terra sembrano congiungersi’. La prima registrazione nel volgare avviene avanti il 1321 in Dante. È considerata una voce dotta, dal lat. horizŏnte(m), e questa dal gr. horízon ‘che limita, che confina’, dal v. horízein, denominale di hóros ‘limite’, di etimologia incerta. DELI osserva che il nome italiano fu usato col significato attuale da Galileo Galilei ed accolto in seguito da tutti i matematici e astronomi. Nell’antichità il significato fu all’incirca quello dato dai Greci, nient’altro. Nessuno è andato a scoprire la vera base del nome greco, che è l’akk. urīzu (a stone). Giusto l’uso degli antichi, a cominciare proprio dai Sumeri, le proprietà terriere ed i territori in generale, ivi compresi i confini dei regni, venivano sempre segnati da pietre. In Sardegna l’uso è ancora vivo. Da qui il significato prevalso in tutto il Mediterraneo antico. In Sardegna ancora oggi è usato l’antico termine accadico.

Il Monte Urpínu, massa calcarea impervia oramai inglobata nella conurbazione della città-territorio cagliaritana, un tempo era isolato e di difficile accesso, e fu utilizzato appena possibile per cavarne le pietre necessarie ad edificare la città. L’oronimo è stato reso come ‘monte delle volpi’ e non come ‘monte arabile’ come vorrebbe Pittau (OPSE 232), che lo collega ad úrbidu ‘solco profondo fatto in un campo arato per lo scolo dell’acqua’ (c’è da chiedersi come si possa arare una pendice dalle erte proibitive!). Pittau non sa che in quest’altura non si sono mai notati dei “solchi”. L’Angius lo chiamava Monvolpino, dimenticando che in Sardegna non c’è neppure un sito che abbia il nome diretto della volpe, a causa del tabù esistente ancora oggi sull’animale, che lo fa considerare nientemeno che il Diavolo in persona. Dietro all’Angius hanno marciato stuoli di dotti. In realtà Monti Urpínu ha origini sumeriche, da ur ‘abbondante’ + pi ‘unità di capacità’ + nu ‘sorgente’, col significato di ‘sorgenti dalle copiose misure’. Va ricordato che ogni monte calcareo alle sue basi ha delle risorgive. Se oggi esse sono sparite, ciò è dovuto esclusivamente alla fortissima antropizzazione del sito.

Ùrpis. Anche questo cognome, come il Monte Urpínu, è stato considerato direttamente collegato al nome volpe. Certo, dobbiamo ammettere che in Sardegna oggidì esiste anche il cognome Volpe (in virtù delle leggi fasciste che incoraggiarono a “italianizzare” i cognomi), e ciò è avvenuto perché da chiunque Urpis era già inteso come Volpe (chissà quanti scongiuri il popolo ha sempre fatto al passaggio della gente portatrice d’un sì funesto cognome!). La memoria storica gioca spesso brutti scherzi, ed i tabù esistiti sulla volpe, considerata il Diavolo in persona, hanno portato ad isolare i vari Urpis dal contesto civile. Urpis in realtà fu un illustre nome proprio, ed ha la base nel sum. ur ‘odorare, profumare’ + peš ‘fico’, col significato di ‘fico profumato’. Certamente fu un arcaico nome muliebre.

Urrái, cognome sardo d’origine ebraica, Ḥurai (1Cr 11,32).

Urru cognome sardo d’origine mesopotamica. In akk. urrû significa ‘ben curato; potato (con riferimento alla palma)’. Ma EBD ricorda il cgn. ebr. libico e castigl. Ḥuru, onde è possibile anche l’origine ebraica, con base nell’akk. ḫūru ‘figlio’.

Il Taccu Ùrrulu si trova al centro della immensa piattaforma pinnacolata chiamata Mont’Arbu (altezza media 700 metri, appartenente meta per metà ai comuni di Jérzu e Tertenìa). Si tratta di una guglia solitaria, con pennacchio di piante in vetta, ed ha la base nel bab. urrû ‘curato, potato, snellito’: riferito alla palma.

Urtígu, ortícu, ortígu, ortíhe, ustríke, cortícu, cortícru, fortícru etc. Paulis NPPS non tratta il lemma. Wagner (DES,I,389) lo tratta, ma lo presenta come ‘corteccia di sughero’ = lat. CORTICULUS. Ma sbaglia. Ortígu e varianti è l’antichissimo nome di una delle quattro querce presenti in Sardegna, precisamente la Quercus suber L. Riconosco che col tempo il fitonimo ed il sughero che da essa viene estratto ebbero lo stesso nome, com’è ovvio, considerato il valore economico del sughero. Ma ciò non avvenne mai a discapito della sopravvivenza del fitonimo, che infatti è vivo e vegeto. Ha persino lasciato traccia di sé nel Monte Urtígu (la vetta del Monte Ferru di Santulussurgiu), che non può giammai prendere il nome dal sughero ma dalle foreste di sughere che lo ammantano e che lo ammantarono nel passato. Urtígu è fitonimo sardiano con base nell’akk. uruti (a plant), urṭû, uriṭû (a plant) + suff. sardiano –ícu.

Uru. È l’equivalente di óru, orivétu, orízu, urìzi ‘orlo, lembo, margine’ (di vestito, burrone etc.), cfr. lat. parl. *ōrulu(m), dim. –ŭlu di ōra ‘orlo della veste’. Nel sardo mediev. abbiamo in s’oru dessa valle; su oru dessu fossatu, etc. Wagner lo fa derivare da un lat. orum. Non è vero. Il termine sardo ha la base direttamente nel sum. ur ‘bordatura di una stoffa, di un vestito’; anche ‘confinare, imprigionare’. Wagner pensa che il logud., sassar. e gallur. urìzi sia una variante della base óru. Neppure ciò è vero. È vero invece che óru e urìzi ebbero già in origine un significato molto simile, tanto da avere infine lo stesso significato, perché la base originaria fu in qualche modo la stessa. Infatti dal sum. ur ‘bordatura’ si ebbe presto il sum. ur-i-zi (i ‘abbigliamento, vestiario’ + zi ‘tagliare di netto’) che passò all’akk. urīzu (a stone: ossia ‘pietra confinaria’).

Il Baccu Urutzó sta nel Supramonte di Baunéi. Vedi anche Orotélli e Buruttò (Léi). A tutta prima può sembrare la forma compatta di Uru-Atzò ‘il ciglio del salice’, oppure il ‘rio del salice’. Ma ambo le traduzioni, considerato il posto, non sono valide. La base etimologica è l’akk uruttu(m) e urīzu (una pietra). Già in antico ci deve essere stata la fusione fonetica tra i due lemmi, peraltro pressoché identici, che portarono al sardiano Uruthò. Prima di trarre le somme, occorre soffermarsi sul termine del nord Sardegna urìzi ‘orlo, orlatura, bordo’ (di gonna e altro); urìzi di una trèmma ‘bordo di un precipizio’. Esso partecipa dello stesso destino fono-semantico di it. orizzonte, già discusso più su. Il toponimo Baccu Uruthò significa ‘la forra dei precipizi’, letteralm. ‘la forra dei bordi’.

Urvùsa è il ‘sedano selvatico’. Vedi turbùsa.

La Pischìna Urthàddala nel Supramonte di Urzuléi è molto strana, essendo uno sprofondamento, un vecchio inghiottitoio a imbuto otturato dall’argilla, che ha formato un profondo laghetto entro una grande ombrosa caverna. L’acqua cade durante le piogge da una parete, con provenienza dalla Codula Orbìsi. Urthàddala è lemma tri-composto, la cui forma doveva essere a un dipresso *Ur-tat-dali. In tal caso dobbiamo cercare le basi nel termine akk. urû ‘scodella’ + ug. tḥt ‘dabbasso’ + ebr. dalu ‘tirar su l’acqua col secchio, tazza’ (akk. dalû ‘tazza per attingere acqua’). Possiamo quindi tradurre come ‘grande vascone dabbasso per l’abbeverata’. Infatti è uno dei due laghetti naturali dell’area, dove le greggi vanno ad abbeverarsi.

Ùrgias cognome di famiglia espresso al plurale, che fu un antico nome muliebre avente la base nell’akk.-sum. ūru ‘città, villaggio’ + ḫi’um (un genere di vestito), col significato di ‘Vestito della città’ (nel senso di ornamento della città): arcaico nome muliebre.

Uròni cognome che DCS fa corrisp. al camp. uròni, guròni ‘foruncolo, tumore, bernoccolo’. In tal caso l’etimo si basa sull’assiro-bab. būrum ‘cisterna, buca; buttero’. In tale lingua è chiamato così anche un fosso colmo di nafta, di bitume (come dire: ‘buco sozzo’). A pari titolo, questo cognome potrebbe essere un patronimico, con base nel cgn Urru (vedi) + sum. unu ‘fanciulla, ragazza’, col significato di ‘figlia di Urru’ o ‘donna della famiglia Urru’, oppure ‘moglie di Urru’.

Urrácci cognome avente la base nell’akk. urrāku ‘scultore’. A pari merito, il cognome può essere un patronimico dal cgn Urru (vedi) + akk. aḫu ‘fratello’, ebr. aḥ (אָח) ‘fratello’, che nel Medioevo portò alla pronuncia Urr-ácci. Il significato è ‘dei fratelli Urru’, ‘della famiglia Urru’, ‘del clan degli Urru’.

Urràzza variante del cgn Urracci.

Ursíno cognome di area italica ma di origine mediterranea. Esso ha la stessa base etimologica del sardo Urtzu, indicante una maschera zoomorfa di Samughéo usata in Carnevale. Oggi la maschera si presenta con la testa di caprone nero, e per attuare la pantomima carnascialesca indossa una pelle di capro (nero), correndo per le vie del paese in cerca di donne con le quali, afferratele, imita (un tempo almeno imitava) il coito. É tenuto da una fune e il furore è regolato da s’Omadòre (‘il domatore’). Urtzu deriva dal bab. urṣu ‘tormentare’ (perchè tormentato dal desiderio… e pure dal domatore), o uršu ‘macchia nera’ (infatti è integralmente nero), o uršu ‘desiderio’ (per il furore sessuale impersonato). In sumerico Ur-zu è un antroponimo. In ogni modo è proprio l’agglutinazione sumerica a far capire meglio, se necessario, questo personaggio. Infatti la radice ur indica una serie di funzioni legate proprio al Carnevale (un tempo legate al furore dionisiaco delle feste di Capodanno): indica principalmente l’essere convulso, e il girovagare tutt’attorno (ambo le funzioni sono svolte dal nostro Urtzu). La particella zu indica il ‘conoscere’, in ogni senso, quindi anche nel senso del coito. Possiamo quindi tradurre il sum. Ur-zu come ‘convulsione del coito’. Il cognome Ursìno, Ursìni è un chiaro patronimico, avente a base il cgn italiano Urso + –íno suffisso vezzeggiativo originato dal sum. innin ‘signora, donna sposata’, col significato di ‘moglie di Urso’.

Urtes, Urtis, cognome che corrisponde a un termine dolciario sardiano, appunto urte, basato sull’akk. urītu (un tipo di anello). Va da sé che questo tipo di anello non era altro che la più nota tiricca, pasta a forma di anello farcita di sapa.

Urzáki cognome medievale (CSMB 2, 208) che secondo DCS deriva dal cognomen latino Ursacius. È possibile. Ma è più congruo considerarlo un patronimico, da un antico cognome Urtzu, Urzu (per l’etimo, vedi Ursino) + akk. aḫu ‘fratello’, ebr. aḥ (אָח) ‘fratello’, che nel Medioevo portò alla pronuncia Urz-áchi. Il significato è ‘dei fratelli Urzu’, ‘della famiglia Urzu’, ‘del clan degli Urzu’.

Urzuléi, nome di un villaggio dell’Ogliastra. Sembra il fitonimo sardo urthullé ‘salsapariglia’, ossia Smilax aspera L. Sul toponimo si possono azzardare varie opzioni legate soltanto all’omofonia, più che alla logica. L’opzione che ha un criterio accettabile è il composto akk. ūru ‘city’ + ṣullû ‘implorare, pregare a’ + sum.-akk. lē’u ‘tavola’ (nel senso di altare): stato costrutto ūr-ṣul-lē’u col significato di ‘abitato dove s’implora Dio sull’altare’. Insomma, Urzuléi nell’antichità potrebbe essere stato un borgo-santuario, un sito sacro. In questo caso starebbe in buona compagnia con tanti nomi di villaggio sardi. EBF non sarebbe d’accordo con tale etimologia; e allora ricordo che pure lui dichiara di avere tra le mani soltanto delle opzioni orali, con le quali tenta il confronto, senza azzardare però la traduzione: Ortilo, Ortilai, Ortuene, Ortui, Ortule, Ortulu (P 11).

53) Zuri (P 115). Il basco zur-i indica il ‘bianco’. Onde EBF ne estrae pure il significato di ‘limpido’ (riferito alle acque). Stranamente, in sumerico zur significa ‘intorbidare, rendere fangoso’.

In Sardegna abbiamo poi Zuri quale nome di un micro-villaggio sul lago Omodèo che fu ricostruito più in alto assieme alla chiesa romanica, dopo la costruzione della grande diga nel 1929. Nel medioevo dovette avere una popolazione ragguardevole, considerato che i regnanti d’Arborèa degnarono il sito di una bella e costosa chiesa. La pronuncia del toponimo è dura (tz). Pittau OPSE 236 lo confronta col toponimo etrusco-toscano Suri. Ma semmai sarebbe più confrontabile con l’antroponimo latino Turius, che in tal caso avrebbe dato nell’alto medioevo un (praedium) Turi = ‘(territorio) di Turio’. Questo raffronto trova conferme nel cognome sardo-etrusco Turi (infatti in quella lingua c’è l’identico nome: Morandi, 72). Quindi c’è da immaginare che l’antroponimo lat. Turius avesse origini sardo-etrusche. Ma non è detto, poiché in sumerico abbiamo anche zur nel senso di ‘take care of’, forse nome antonomastico (non a caso i giudici d’Arborea in quel villaggio vollero costruirvi la bellissima chiesa).

54) Siddi (P 79). EBF, dandogli la base *Sil, lo colloca tra i ‘villaggi abbandonati’. In realtà non è così. Il lemma potrebbe derivare da Sid (fenicio Ṣd) dio di Sidone. Sono stati chiariti alcuni aspetti di questa divinità, pur senza riallacciare il suo nome ad una radice semitica che significherebbe ‘cacciare’ (cfr. sum. šid ‘cavalcare’). Sid viene inteso come dio cacciatore, nel qual caso si spiegano il copricapo con piume e la lancia che appaiono nelle monete ed il gran numero di frecce e giavellotti rinvenuti come oggetti votivi nel tempio. Inoltre è stato detto un dio guaritore, poiché a lui furono dedicate le statuine degli déi Shadrapha e Ḥoron, venerati come guaritori. Più realisticamente, l’attributo Sid della divinità di Antas è uno dei tanti attestati semitici di Baal nel culto dei luoghi elevati, poiché Sid corrisponde ad akk. šadû ‘monte’, šiddu nel senso di ‘costa montana’.
I suffissi –ake, -ai, -ei, -oi, -tz

55) –ake. Eduardo Blasco Ferrer (P 115) ricorda che in basco il morfema flessivo di plurale è –ak, applicabile ad ogni categoria morfologica. Io gli rammento che in sumero –ak è il morfema flessivo del genitivo. Com’è piccolo il mondo! Ora vediamo di capirci a vicenda poiché, comunque sia, le nostre strade si separano all’istante.

Egli entra in medias res proponendo come primo esempio il lemma sardo nur-ak, inciso sull’architrave del nuraghe Áidu Entos, nei pressi dell’antica stazione romana di Molaria, e fa una lunga precisazione sul fatto che in nurak-e, nurax-i c’è una paragogica che tende a mascherare gli antichi esiti. Ho sempre invitato EBF alla cautela, e quindi lo inviterei ad andare molto cauto, poiché l’esito medievale ed attuale di nuragh-e, nurax-i (con quelle che lui chiama paragogiche) non è altro che la confluenza di due espressioni fonetiche un tempo distinte: da una parte abbiamo il fondamentale trisillabo sumerico nu-ra-gu (in cui ogni sillaba agglutinata è semanticamente significativa), dall’altra abbiamo la forma babilonese nuḫar, poi soggetta a metatesi > nuraḫ. I due vocaboli indicano la stessa cosa: l’altare del Dio Sole (il nuraghe è appunto questo). In nur-ak scorgo proprio il confluire delle due parlate, da cui si consolidò la nota espressione nura-ghe. Allora, il vedere nuraghe come esito sumerico fa concludere che in esso manca la paragogica. Questa c’è, se vediamo nuragh-e come esito dal babilonese. Comunque, né l’uno né l’altro vocabolo arcaico inducono a pensare che esprimessero un plurale in –ak. Invece EBF – bontà sua – lo scorge nitidamente. Col bagaglio di simili certezze, EBF avanzerebbe come una ruspa, se non gli opponiamo i parametri della ragione. Benchè, partendo da queste opposte constatazioni, non sia facile trovare punti di mediazione.

Egli esordisce col toponimo Aranake, Aranaké interpretandolo come ‘corsi d’acqua in una valle’. Ma sbaglia poiché, ad esempio, a Torralba abbiamo il Monte Arana (dove mancano valli ed acque), che ha il mero significato sumerico di ‘Monte delle invocazioni al Dio Sole’ (da ar ‘preghiera’ + An ‘Dio del Cielo’). Ciononostante EBF insiste (P 100): «Ho già detto che aran suole designare, per mera contiguità semantico-referenziale (o metonimica), non tanto le ‘valli’, quanto piuttosto i ‘ruscelli’ e le ‘fontane’, e anche le ‘alture’ che coi rispettivi costoni generano le depressioni orografiche». Insomma, per non sbagliare, EBF ci ammucchia proprio tutto: monti e valli… e dobbiamo fermarlo prima che c’infili la suocera.

Ora, EBF mi deve concedere che alcuni toponimi sardi omofoni lasciano perplessi circa la denominazione, specialmente quando uno è specificato da monti, l’altro da ríu. Ma vivaddio, ciò serve ad accendere la nostra acribia ed a respingere ogni schema precostituito, propugnato per vie ideologiche e metalinguistiche. Ho abbondantemente smantellato più su quell’adamantino aran, il quale, osservandolo bene, può essere scomposto a sua volta in elementi primitivi (lingua sumera docet!), tenendo per metro la segmentazione strutturale variabile di un lemma sardo (abc-de-f, a-bc-def, abc-def, ab-cdef, a-b-cdef…). Alla luce di questa necessità, non è facile stabilire a priori una etimologia valida per tutti i lemmi omofoni, ma occorre, purtroppo, faticosamente, ricercare quella appropriata ad ogni singolo lemma.

Nella Prefazione ho già affermato che le basi granitiche di una teoria si creano a posteriori. Quindi il procedimento di segmentazione che EBF sbandiera (p. 64 e passim) non è scontato di fronte a una lingua agglutinante qual era l’antico sardo, nel senso che spesso, invece di una segmentazione ab-cd-ef, adatta a un certo lemma, altri lemmi sardi richiedano, singolarmente, un taglio abc-de-f, o a-bc-def, o abc-def, o ab-cdef, o a-b-cdef. Tutto ciò è maggiormente vero, a misura che uno assuma come certo che un tale lemma sardo abbia radici basche, mentre un altro studioso ci scorga prioritariamente una radice sumerica, dalla quale poi può decorrere eventualmente (ma non è detto), il lemma basco, o basco-sardo. Quindi, detto con tutta modestia, EBF mi dovrebbe anzitutto accompagnare ai singoli luoghi dove occorrono i toponimi che prende ad esempio, poiché soltanto una previa analisi ambientale fornisce le coordinate su cui edificare (con l’aiuto indispensabile dei Dizionari) l’etimologia. E poiché dal suo libro traspare nitidamente che EBF non ha le competenze ambientali, e che ha scrutato di persona nient’altro che una manciata di luoghi (e di dizionari), io per certi casi specifici oso elevarmi – sia pure per un attimo insufficiente – al suo medesimo livello, e affermo che per me è pericoloso giudicare (idealisticamente) a tavolino un toponimo di cui ignoro il sito.

Pertanto chiedo umilmente a EBF com’è giunto a tradurre il toponimo Busake, Busachi come ‘corsi d’acqua sorgenti attorno alla foce di un fiume’. Credo che EBF sia andato all’attacco di corsa come un guerriero greco (alalá), e l’esaltante urlo di guerra non gli abbia fatto percepire la madornale contraddictio in terminis insita in quel ‘corsi d’acqua sorgenti attorno alla foce di un fiume’. Forse EBF non capisce che la foce di un fiume è l’esito di un decursus, escludente per ciò stesso ulteriori apporti d’acqua. Peraltro il fenomeno del “sorgere, scaturire, to spring up, to flow from, to derive from” non può riguardare i sedimenti limacciosi di un estuario (peggio se è un delta!), poiché quei depositi sono, per definizione, delle masse amorfe, incapaci di generare o filtrare delle sorgenti. La questione è lapalissiana, e sembra ridicolo insistervi.

Conosco il sito di Busachi, Busake (detto Usache) che sta assai lontano, e molto più alto, dal fiume Tirso (l’unico della zona); peraltro Busachi non sta presso alcun ruscello, anzi è stato eretto nel sito più asciutto. Pare congruo basare il primo membro di (B)Usa-chi nell’akk. uššu(m) pl. ‘fondazioni’ (nel senso di agglomerato urbano). Il suff. –chi, –ki, è dal sumerico ki ‘luogo, sito, territorio’. Quindi Usa-ki significò ‘sito edificato’ (nel senso che il villaggio non era fatto né di grotte né di capanne, ma proprio di case in pietra).

Ora elenco alcuni termini sardi in –áke, –ághe, che forse convinceranno EBF a rivedere le proprie certezze, maturate “a tavolino”.

Bòe Muliáche, Muiláche. «Un’antica credenza, comune a molti paesi, narra di alcuni uomini che, durante la notte, si trasformavano in buoi e, muggendo, si accostavano alla casa delle persone che in quella notte dovevano morire. Secondo alcuni narratori l’uomo bue vagava solo nelle tenebre, secondo altri era accompagnato da una torma di diavoli che facevano grande strepito battendo strumenti vari. Ma tutti erano d’accordo nell’affermare che prima dell’alba questo essere demoniaco riprendeva le sembianze umane e durante il giorno si comportava come qualunque essere normale… Questo bue, presagio di morte durante la notte, lo ritroviamo ad Escalaplano ad annunciare col suo prolungato muggito il carnevale» (Dolores Turchi, GESMFRP 181 sgg). Dal Puddu: Muliàche, chi istat a mùilos, nâdu de unu mostre (bòi naturau a faci de cristianu), un’omine cundennadu a si furriare a boe, chi a denote andat peri sas carrelas a mùilos chi batin dannos e morte. La Turchi pensa che la leggenda del Bòe Muliache sia il lontano ricordo, trasfigurato dal tempo, ma sempre fedele, delle feste dionisiache. Può darsi. Anche se i riti dionisiaci furono greci, mentre alla Sardegna furono più congeniali gli arcaici riti fertilistici mediterranei, che dai nostri studi risultano assai simili a quelli dionisiaci.

In tal senso, Bòe Muliáche può essere benissimo una paronomasia molto ben mascherata, derivata da un sintagma sardiano originario, con base in una agglutinazione sumerica bu ‘girovagare’ + mu ‘to make a sound’ + li ‘premere, schiacciare’ + akkil ‘rumore, fracasso’: bu-mu-li-akil, col significato sintetico di ‘(colui che) girovaga mugghiando e schiacciando (i morituri) con gran fracassso’.

Pisináche ‘vescia di lupo’ (Lycoperdon bovista L.). Paulis NPPS lo crede originato da un latino *VISSINARE, che però è una invenzione. Il fitonimo è composto sardiano con base nell’akk. peṣû(m) ‘essere bianco’ + naqû(m) ‘liberarsi di’: stato costrutto peṣinaqû, col significato complessivo riferito al fatto che il Lycoperdon è un fungo bianco a palla, che nella maturità libera con un soffio milioni di spore al minimo urto esterno (non a caso il nome greco significa ‘scorreggia di lupo’).

Pistinàga camp. ‘carota’ (Daucus carota L.). Paulis NPPS fa osservare la diretta ascendenza latina del termine, che è pastinaca. Ma va osservata la comune discendenza sarda e latina dalla base accadica pištu(m) ‘abuso, scandalo’ + nâqu(m) ‘gridare’, col significato complessivo di ‘grido di scandalo’ (con riferimento al fatto che la carota ha forma allusivamente fallica).

Noràce. Per quanto si giri attorno a questo nome di ecista, la base etimologica resta sempre quella di nuráke, che ora vediamo.

Nurághe, nuráke. Abbiamo già visto che è l’altare del Dio Sole. Infatti deriva dal sum. nu ‘creatore, sperma (divino)’ + ra ‘fulgido, puro, splendente’ (vedi egizio Ra ‘Sole che splende’), col significato originario di ‘Bagliore di Dio Creatore’. A questo termine, già in sumerico, si agglutinò anche un terzo lemma, gu, e il composto nu-ra-gu (‘nuraghe’) significò ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’.

Ho apparecchiato a EBF soltanto alcuni esempi, ma potrei continuare a dimostrare l’inconsistenza del raffronto e dell’omologazione ch’egli pretende di farci accettare tra il suffisso plurale basco –ak e una messe di (supposti) suffissi dei toponimi sardi. Quando egli – quasi a cospargersi il capo di cenere – ammette (P 116) che «la genesi di –ak ‘marca di plurale’ e di ‘ergativo’ rappresenta una crux desperationis dei Bascologi», ha già fatto un passo avanti per accettare che il suo –ak ebbe una genesi assai diversa dalle forme similari sarde, e a maggior ragione diversa rispetto al sumero –ak ‘marca del genitivo’. Dalla sua crux desperationis grondano vari lemmi baschi che contraddicono quel suo plurale (quale arteaga ‘querceto’; harriaga ‘pedregal, ghiareto, luogo con pietre minute’: che mostrano, con tutta evidenza, dei suffissi locativi).

 

56) ai, –ei, –oi, -toi (P 117). EBF nota che tali suffissi «sono usati massicciamente nella toponomastica basca per indicare significati di ‘appartenenza’ e di ‘ricchezza di piante e alberi’ (Garai, Aldai, Belai; aritz ‘rovere’: aritztoi ‘rovereto’). Non è possibile, certamente, generalizzare questa corrispondenza tra la derivazione paleobasca e quella paleosarda, soprattutto tenendo conto del fatto che numerosi nomi di luogo sardi terminavano in vocale accentata, e solo successivamente hanno ricevuto una vocale di appoggio. Tuttavia sono copiosi i toponimi già medievali e poi moderni con uscite in dittonghi decrescenti che sembrerebbero poter rientrare in questa casistica e appartenere perciò al patrimonio paleobasco».

Poiché EBF non adduce neppure un esempio di toponimi sardi, sarei propenso a soprassedere. E invece vado a tacitarlo dandogli ragione sul fatto che molti toponimi sardi terminanti in –ái, –éi, –ói indicano l’appartenenza, la vocazione: sono quelli che io chiamo “suffissi territoriali”. Es. Nurái (Lula) ‘sito pieno di buchi’ (vedi Dizionario Etimologico al lemma nurághe); Gavossái ‘territorio pastorale, da sum. gabus ‘pastore’; Gergéi < akk. ḫerḫû(m) ‘terra coltivata’; Tuvióis ‘sito degli alberi cavi’, da bab. ṭubû ‘un genere di canna’ (cfr. osco *tufus, latino tubus).

Ciò detto, occorre però che metta in evidenza l’origine di questi suffissi, visto che EBF tace, inducendo così subliminalmente a farli considerare come un travaso basco in Sardegna, avvenuto fin dall’origine del mondo, o almeno in concomitanza delle glaciazioni.

In realtà, il fenomeno di tali suffissi è generalizzato, ritrovandosi non solo tra i Baschi e in Sardegna, ma pure tra i popoli alpini dell’est (Lagorái, Lagatzuói, etc.), e copiosamente si ritrova nelle lingue semitiche, a cominciare dall’ebraico e dall’assiro. Sembra lapalissiano che in origine tale suffissazione appartenesse a una popolazione paneuropea-tirrenica-

57) tz (P 117). EBF scrive: «Il suffisso –tz, –tza si applica in basco ai nomi di piante ed alberi per indicare il ‘luogo di crescita’, similmente al lat. –ētum: ihi ‘giunco’: ihitz ‘luogo dove crescono i giunchi’; arto ‘grano : artotza ‘campo di grano’. In diversi nomi di luogo paleosardi ritroviamo il segmento –tzai, –thai, che a mio avviso può essere scomposto in –tz + –ai, dando un significato complessivo di ‘locativo collettivo’: Vithithai, Usturuthai, Lukurithai».

Già M.L. Wagner era convinto che la forma centrale /tz/ fosse preromana; onde diffidava dall’accostare il lemma túrgalu, dhurgálu all’italiano ‘trògolo’, perché «già le forme centr. con θ– consigliano di considerare le voci come probm. preromane».

Ovviamente non sono d’accordo col Wagner, ma neppure con EBF. La mia esperienza mi rende cauto (e paradossalmente libero) nel trattare i nomi e toponimi in θ-, –θ-, –θ, che non vanno considerati in blocco come preromani o protosardi. Infatti questo fonema è uno dei più indefinibili nel sistema fonetico sardo, essendo ancorato non solo alle radici preromane ma anche a modi fonetici sciatti, indecisi od appiattenti, dove spesso la θ-, –θ– prevale rispetto alla t-, –t-, –tt– per vezzo paesano o addirittura per vezzo individuale (quando non per ignoranza della forma canonica da parte del pronunciante). Il fenomeno s’estende dalla Barbagia al Nuorese, dal Montiferru al Logudoro. La prova sta proprio nello stesso toponimo Durgáli (da parecchi affiancato al sardo dhurgálu ‘trògolo’), che non presenta affricate. Debbo peraltro lamentare che EBF, nel pretendere che il basco –tz abbia prodotto identiche o simili forme in Sardegna, poi non ne abbia portato neppure una come esempio. Infatti le forme sarde in –thái da lui prodotte hanno altra base etimologica.

Prendiamo ad esempio Vithithái, del quale EBF non dà la traduzione: tecnica raffinata, questa, che attira gli altri nell’agone da lui predisposto al fine di risolvergli i problemi. Vitzitzái è cognome barbaricino, termine arcaico indicante s’attittu. Affinchè si capisca bene, rifaccio la storia di attittu e di Vitzizái.

Attittu. Qualcuno lo traduce come ‘singhiozzo’. E sia. Ma questo è un modo libero di adattare i semantemi. S’attìttu è, prevalentemente, il gesto carezzevole e primitivo d’una madre che stringe al petto il bimbo piangente, al quale porge il capezzolo e canta la ninna-nanna. Da questo gesto è sortito il secondo significato di attittu, collegato al gesto della madre che stringe al petto il figlio morto, specialmente il figlio assassinato, (anticamente) il figlio morto in battaglia, al quale canta la nenia funebre. Da ciò nacque il grande significato di s’attittu, ancora vivo nei villaggi della Sardegna, che è la riunione funebre della parentela che piange e narra le gesta del morto. S’attittu è per antonomasia il canto funebre delle attittadòras, donne scelte per la funzione del lamento funebre, espresso in lunghi lamenti cantati e ritmati in forma di strofe (almeno un tempo). Il significato dell’attittu è così profondo, che a Bosa attorno ad esso è stato imbastito tutto il Carnevale, caratterizzato da uomini travestiti da donne che stringono al petto un (finto) bimbo e girano per la città pronunciando frasi oscene (accompagnate da gesti osceni) che burlescamente mimano il bisogno di calmare le pene del bimbo sofferente. Attittu deriva da titta ‘capezzolo’, e come questo ha la base etimologica nel bab. tîtum ‘nutrimento, cibo’, ti’ûtu ‘nutrimento, sostentamento’, termine fuso con tiwītum (a song) < tawum. Quanto al cognome Vitzizái, esso è un antico termine sardiano con base nel sum. ua ‘oh’ (espressione calmante, rassicurante) + zi ‘vita’ + za ‘uomo’. Il composto sumerico zi-za (‘vita dell’uomo’) è ripreso dall’akk. zīzu ‘capezzolo’; il composto sum. ua-zi-zu > stato costrutto ui-zi-zu (da cui Vitzitzai) è poi semplificato in a-zi-zu (da cui attittu). Come si vede, questa seconda forma è la stessa del sardo attittu, che noi abbiamo tradotto più su con l’ausilio del vocabolario accadico.

Se ora volessimo ricercare qualche fitonimo che abbia il suffisso del tipo proposto da EBF, ci troveremmo in difficoltà. Ci sovviene, alla lontana, soltanto arbùtzu, arbùθθu. Questo termine non è da confondere col lat. arbutus, arbŭtum, forma secondaria di arbustus ‘arboreo, con forma d’albero’ che dà il termine Arbutus unedo ‘corbezzolo’. Arbuθθu, arbutzu nelle aree centrali della Sardegna significa ‘asfodelo’ (Asphodelus ramosus vel phistulosus L.). Paulis NPPS lo fa derivare dal lat. albucium ‘bianchetto’, considerando che è così tramandato dallo Ps.-Apul., dallo Ps.-Diosc. e da Isidoro il quale scrive “asphodelus quam Latini a colore albucium vocant”. Quella di Isidoro è una paretimologia attratta dalla somiglianza fonetica con albus ‘bianco’. L’origine del fitonimo è più remota, sta nel bab. arbūtu e ḫarbūtu ‘desolazione’: vedi arbūtiš ‘in una landa desolata’. Ciò che l’etimo babilonese impone alla riflessione è l’effetto dell’asfodelo, e ciò che quest’effetto rappresenta per i pastori. S’arbutzu è la “pianticella della morte”, perchè s’insedia nelle praterie dove l’humus, per incendi o eccessi di pascolamento, ha terminato il ciclo vitale creando il deserto.

Come EBF può constatare, io non procedo mai per mere giustapposizioni fonetiche ma opero sempre una previa indagine ambientale a tutto campo, al fine di mettere il lemma nel giusto contesto, entro il quale posso analizzarlo. Così opero coi lemmi seguenti.

Bàratz, Bàrazza. Indica l’unico lago naturale – e d’acqua dolce – della Sardegna. Da confrontare probabilmente con Bàrate antico paese scomparso della curatoria della Nurra. Presso l’antica Biora (Serri) abbiamo il toponimo Baracci, e presso l’antica Valentia (Nurágus) abbiamo Barex (Meloni, 309). Ma questi sono da cfr. principalmente con Bara. A primo acchitto Baratz sembrerebbe derivare dall’akk. barātu ‘territorio circondato dall’acqua’. Ma più propriamente Bàratz, Bàrazza significa ‘lago pescoso’ e deriva dall’akk. bâru ‘catturare, pescare con reti’, sum. bara ‘pesce’ + akk. (w)aṣû(m) ‘che ha un’uscita, una scaturigine’. Per (w)aṣû(m) dobbiamo propriamente intendere un ‘lago che si autoalimenta’. Poiché questo è l’unico vero lago della Sardegna, le cui sorgenti sommerse sono peraltro ignote, sembra ovvio ricordare la credenza degli antichi che il lago si autoalimentasse per virtù divina o simili.

Può sembrare una curiosità, ma esiste anche il cognome ebraico Baratz. Appartenne a Joseph Baratz, uno dei fondatori del kibbutz di Degania (Tiberiade) nel 1910, il quale sposò Miriam la quale partorì Gideon, il primo nato in un kibbutz. Gideon nacque due mesi prima di Moshe Dayan – generale e statista – il quale dunque risulta essere il secondo nato in un kibbutz. La famiglia Baratz era aškenazita e proveniva dall’Est europeo.

Il secondo lago naturale (in realtà poco più che uno stagno) fu il Simbirìtzi, in agro di Quartùcciu, oggi trasformato per ricevere acque reflue per l’irrigazione. L’etimo si basa sul neo-bab. ṣimru ‘ricchezza, abbondanza’, simru ‘in piena (fiume, stagno)’ + aram. ittsa, fenicio iṣ’ ‘sorgente’.Vedi la sorgente Izze Izze sulle montagne di Aritzo.

Aritzo è il nome di un comune della Barbagia di Belvì, composto da Ara ‘e Itzo. Ara è vocabolo sardiano che ha il parallelo nell’aram. ārāʽ ‘terra, territorio’ (אֲרַע) > neo-babil. ārā ‘terra, territorio’; Itzo è parimenti sardiano, con base nel fen. iṣ’ (izza) ‘fuoriuscire’, e aramaica: ittsa ‘scaturire’. Aritzo quindi significò ‘sito delle sorgenti’ (ara ‘e itze). Sono celebri le due sorgenti lungo lo stradone paesano.

Bitzi, Bitti, Vitzi, nome di un comune del Nuorese settentrionale. Ricorda per assonanza il fen. bt ‘casa, abitazione’, l’ebr. beit ‘casa’, e il genitivo possessivo akk. biti ‘della casa’, akk. bītu(m) ‘casa’. Ma in sardo locale bitthi/bizzi è il ‘piccolo del daino’. Nel log. sett. è chiamato bitti il ‘daino’. In Gallura è chiamato bittu il ‘muflone’. Nel Nuorese è chiamata bitta, betta la ‘cerva’. Questi nomi di animale non derivano dal lat. bestia ‘animale’ ma hanno l’antecedente nel sumerico biza ‘bambola’ e per estensione ‘cucciolo’. Quindi è ovvio che nel prototipo Bitzi ci sia la /z/ sumerica.

Cambátzu cognome con base nell’akk. ḫambaṣūṣu (a garden herb), oppure nell’akk. ḫambāšu, ḫabbāšu ‘frantumatore, sminuzzatore’ (di pietre, di erba, di rami…), come dire ‘spaccapietre’, ‘taglialegna’. Parimenti, può essere un cognome patronimico, con base nel cgn Camba (vedi) + akk. aḫu ‘fratello’, ebr. aḥ (אָח) ‘fratello’, che nel Medioevo portò alla pronuncia Camb-ázzu, Cambácciu. Il significato è ‘dei fratelli Camba’, ‘della famiglia Camba’, ‘del clan dei Camba’.

Cocòtzi cognome di Ghilarza che corrisp. a Cocòtis, una maschera carnevalesca. Dolores Turchi (GESMFRP 97) ricorda che sino a poco tempo fa le maschere altrove dette Maimònes, Mamuthònes e simili, ad Olièna furono dette Cocòtis. Ella rapporta il nome alle corna generalmente indossate dalla maschera, onde pure i mariti cornuti sono detti cocòtis. Cocòti in quanto ‘cornuto’, ‘marito tradito’, viene ignorato dal Wagner. Questo semantema sembra un seriore adeguamento all’originario Cocòti, nome proprio della maschera carnevalesca che viene condotta alla morte. Occorre chiedersi quindi il perché del nome della maschera. Wagner riporta altre accezioni del termine cocòti, ma è pronunciato cocotthu, cocottsu/a e riferito al ‘mallo della noce’, al ‘cupolino della ghianda’. Neppure per questi vocaboli dà l’etimo. Egli però lo dà per cuguḍḍu, logud. e sass. ‘cappuccio’, centr. crucuḍḍu; a Fonni ‘mantello di orbace con cappuccio’; e pure una caratteristica cuffia muliebre. Lo fa derivare dal lat. cucullus ‘cappuccio’ e anche ‘veste con cappuccio’. Certamente è così. Ma sia il termine latino sia quello sardo hanno a loro volta la base nell’akk. kukkûm ‘ombra, buio, tenebra’. Cuguḍḍu ha quindi lo stesso significato dello sp. sombrero. L’akk. kukkûm deriva a sua volta dal sumerico kukku ‘to be dark’, ‘dark places’ (con riferimento al mondo infero). Cocòti in quanto maschera carnascialesca, vestita allo stesso modo di tutte le maschere barbaricine (ossia integralmente di nero, col viso tenebroso di fuliggine) ha quindi la base nel sum. kukku ‘to be dark’ + utte ‘lower land’ (stato costrutto kukk-utte), col significato sintetico di ‘(uomo) tenebroso degli Inferi’; oppure ha la base nell’akk. kukkum ‘mondo infero’ + uṭṭû ‘sacerdote’, col significato sintetico di ‘sacerdote degli Inferi’.

Coìzza cognome; è termine sardiano basato sull’akk. ḫū’a ‘civetta, gufo’ + iṣṣu, iṣu(m) ‘bosco’ ,’boschetto’ (stato costrutto ḫū’-iṣu), col significato di ‘gufo dei boschi’.

Colìzzi, cognome mediterraneo, con base nell’akk. (m) ‘lino’ + liṭṭu, liṭu (un vestito), col significato di ‘vestito di lino’.

Colluzzu cognome; antico termine sardiano con base nell’akk. ḫullu(m) ‘collana’ + uttû ‘sacerdote’ (dal sumerico), col significato di ‘collana sacerdotale’ (come dire, collana per usi rituali).

Peddìtzi cognome; termine agricolo sardiano, con base nell’akk. pelû(m) ‘uovo’ + iṣṣū ‘albero’, col significato di ‘albero delle uova’ (riferito alla palma da datteri).

Putzu, Puttu cognome corrisp. al centr.-settentr. ‘pozzo’. Il confronto viene fatto con l’aggettivale latino pŭtĕus, ma la forma è più antica, essendo attestata nell’akk. puttû ‘spalancato’, pītu ‘apertura’. Cfr. pure sum. puzur cavità, scavo’, da cui proviene anche l’it. pozzo.

Radici di origine incerta o ignota

58) *Kar(r)a (P 124). Per EBF questa è l’antica radice che stava a base dell’attuale toponimo Cágliari. Non sono d’accordo, almeno nei termini ch’egli vorrebbe accreditare. Anticamente il toponimo era Káralis/Karales. Anche nell’antica Panfilia esisteva la cittadina chiamata Κάραλις, Κάραλλις. Il toponimo è ripetuto almeno altre tre volte nel centro-Sardegna (Aùstis, Sorradìle e altrove). La stessa forma, Karále, si trova ad esempio ad Aùstis, nel sito più alto del territorio, in area à maquis. Ma c’è forte differenza nell’etimologia dei due toponimi.

Al lemma Karalis s’addice un etimo affascinante che riporta alla semantica di Ólbia (greco ’Όλβια: ‘felice, fortunata’). Esso proviene dal neo-bab. karallu ‘gioiello’, ma anzitutto ‘felicità’. Questo stesso toponimo è riportato pure nella carta tolemaica (Kαραλλι), col suffisso –i alla greca. Ciò toglie dall’imbarazzo generazioni di storici e linguisti, incapaci di spiegare perché il notissimo aggettivale greco Ólbia si sia radicato in un’isola dove i Greci non operarono né si stabilirono ma subirono soltanto batoste. Quel toponimo non fu grecizzato dopo il tentativo dei Greci di stabilirsi in Gallura, tantomeno fu grecizzato dopo la battaglia di Aleria, ma fu imposto dai Romani per il rispetto verso la civiltà greca, e recepito da Tolomeo. Comunque Ólbia, toponimo greco esistente anche sul Mar Nero, è una classica traduzione che i Greci operarono a proprio uso, assumendo questo semantema dall’equivalente base babilonese karallu, della quale erano informati (altrimenti non sapremmo spiegare la perfetta corrispondenza semantica ’Όλβια-Karallu). La corrispondenza tra i semantemi di Ólbia e Karalli/Karáli/Karallu fu voluta per ragioni geografico-ambientali; anzi inferisco che pure il sito di Ólbia dovette avere un previo nome Karallu, perché le due città a quei tempi ebbero i porti naturali più belli e sicuri della Sardegna.

Karallu è la stessa etimologia del termine corallo, che i linguisti sinora avevano lasciato nel vago. E ciò fa riflettere. È nota l’enorme importanza delle barriere di corallo rosso che cingevano pressoché tutta la Sardegna e che attirarono in ogni epoca flotte di urinatores.

Il fatto che il toponimo apparso alla storia (prima del Kαραλλι tolemaico) sia stato Karalis, con una sola –l– e il suffisso –is, è spia di un’antichissima tendenza dei Sardi meridionali al raddoppio delle consonanti, opportunamente rilevata dai Romani che credettero pure Karallu un vezzo fonetico locale, da loro semplificato per ipercorrettismo.

Un’annosa suggestione coinvolge Blasco Ferrer (v. Paleosardo 14,70,124), inducendolo a ipotizzare per Cagliari che le «imponenti masse di rocce calcaree del Castello e del Monte di Sant’Elia, evidenti da qualsiasi parte del Golfo, convogliano unanimemente al riconoscimento della base *KAR(R)A ‘roccia’, che ritroviamo anche in Nuraghe Carale ad Austis e Carallai presso Sorradile, nonché in un vasto campionario di toponimi dispersi per tutto il bacino mediterraneo, sempre con riferimento esplicito all’aspetto roccioso dei luoghi (da Carrara a Caraglio in Corsica a Caralis in Panfilia)». Non so s’egli abbia verificato i siti rocciosi che evoca, poiché, almeno in Sardegna, essi non esistono (tranne che a Cagliari). Esempio, ad Austis il sito di Carále (non l’inesistente Nuraghe Carale) sta in luogo pianeggiante, pastorale, non-roccioso, che segna il confine tra il territorio di Austis e quello di Teti. Vedi nel mio Dizionario Etimologico alla voce Carále, il cui etimo è diverso da quello di Cágliari.

Peraltro il solito patetico asterisco (*), come ho dimostrato qua e là in questo volume, è una prova della sconfitta degli etimologisti che si riducono esclusivamente a supporre radici indoeuropee (nel caso di EBF, pure radici paleobasche), dalle quali il più delle volte non riescono a distillare altro che fantasie. Lascio al lettore il piacere di gustare le pagine 124-125 di Paleosardo, dove s’include *KAR(R)A tra le radici di «origine incerta o ignota», procedendo in modo ambiguo, mentre per via subliminale si capovolge l’assunto e s’induce a credere che la radice sia storicamente accertata e significhi ‘sasso, roccia, massicciata’. Spetterebbe all’inventore della forma asteriscata *KAR(R)A dirci per quale ragione egli ha preferito tramandare una radice “supposta” anziché quella sumero-accadica, che è accertata. A mio avviso, l’esempio qui addotto è la prova provata che i filologi romanzi preferiscono falsare le carte anziché ammettere a pieno titolo la lingua sumero-accadica tra quelle che concorsero a creare le civiltà mediterranee prima, durante e dopo l’Impero romano.

 

59) *Kuk (P 125). Adesso è utile la regola della segmentazione variabile (ab-cd-ef, abc-de-f, a-bc-def, abc-def, ab-cdef, a-b-cdef…). Infatti un radicale ipotetico, quale ad esempio *KUK (Paleosardo 125), al quale EBF dà arbitrariamente il “valore univoco” di ‘altura, cima’, non può essere assunto a totem di pretese radici sparse in Sardegna, in Francia, tra le lingue dravidiche. Ognuno dei lemmi citati (kukku, kúkkuru, kúkkuru nieddu, Cuga, Cugui, Riu Cugada, Mela Kugada, Mela Kuka, Monquq, Cuq, Le Cuq, Cumont, Juxue, Jokoberro), esclusi gli evidenti derivati, ha un radicale peculiare, non condiviso dagli altri lemmi citati. Per quelli sardi rimando al mio Dizionario Etimologico, dove per kukku si ha la base sumerica kukku ‘nero’, ‘dark places’ (raddoppiamento superlativo di ku ‘buco, cavità’): cfr. dravidico kaka ‘cornacchia, corvo’; per kúkkuru c’è l’akk. qaqqadu, ug. qdqd, ebr. qōdqōd ‘capo, vertice’ (cfr. sanscrito kāhra ‘duro’) < sum. kur ‘monte’, con termine raddoppiato; da questa radice sumerica si capisce nitidamente come in Sardegna, molto spesso, abbiamo la filiazione diretta (in questo caso il sum. kur che raddoppia in ku-kur-u), senza passaggi intermedi tra le lingue semitiche che invece hanno dentalizzato la /r/ (processo inverso). Quanto al riu Cuga, il termine ha la base etimologica nel sum. kug ‘puro’ (riferito evidentemente alla bontà dell’acqua). E così via.

60) *Deu (P 125). Non riesco a capire a qual fine EBF voglia indurci ad accettare che i toponimi sardi in –déu indichino il ‘bianco’. Egli non dà alcuna traccia. Peraltro in sardo il ‘bianco’ è espresso altrimenti, e in basco quel deu non esiste nemmeno. Dunque? Dove vuole parare EBF? Il ragionamento col quale vuole indurre a condividere la sua intuizione è la quintessenza dell’assurdo (sto moderando le parole). Mi rifiuto di trascrivere il suo pezzo, ma invito il lettore a leggerlo attentamente, affinchè si renda conto di quali siano gli argomenti “scientifici” addotti. Sia pure malvolentieri, attratto nell’agone scelto da EBF, mi è forza portare alcuni toponimi sardi contenenti la radice déu, –déu.

Il Monte Oddéu è la vetta più alta del Supramonte di Dorgáli, da cui si domina gran parte del territorio. Altre forme sarde sono goddéu, boddéu, uddé. È vocabolo tipico della Sardegna centrale, per quanto sia presente anche nel Basso Sulcis (probabilmente mercè la colonizzazione da parte dei Barbaricini). Corrisponde al campidanese (b)oddéu = ‘luogo di raduno del bestiame’, ‘crocchio di persone’, ‘gruppo di case di pastori’. Sia il monte Uddé sia il vicino monte Oddéu sembrano delle sentinelle, dei posti di guardia che dominano i vicini territori pianeggianti, i pianori dove veniva fatto convergere il bestiame per tributare la decima al feudatario. Guddetórgiu, bodditórgiu e budditólzu hanno la stessa radice (gli ultimi due sono del centro-nord: Lautverschiebung).

Secondo Paulis, boddéu, oddéu deriva dal latino collegium. Ma è più congruo ipotizzare l’origine di Oddéu, boddéu dal sum. u ‘land’, ‘a type of land’ + de ‘portare, trasportare’, ‘versare’, col significato, quindi, di ‘luogo del raduno’. Stessa origine pare abbia il Monti di Déu (italianismo), un picco molto alto nell’acrocoro del Limbara (Calangiánus).

 

61) *Donn (P 126). EBF considera enigmatica questa base, e non spiega se appartenga al basco o al sardo. In ogni modo, quella che in basco appare in certi lemmi quali dona, donado, ha un significato assai distinto da quello assunto in sardo da don, don-. Tralascio il banale don, che è replicato dall’italiano con lo stesso significato. Andiamo direttamente a:

Donnu, titolo sardo che in tutti i regni giudicali si dava al sovrano e alle persone più anziane e di grado più elevato della famiglia regnante. Spettava anche agli esponenti delle più alte gerarchie ecclesiastiche. Da qui l’attuale sardo don e l’it. don.

Wagner pensa che la forma logud. domnu sia puramente grafica, come dire che gli scribi di corte, la nuova classe dirigente togata di formazione latina subentrata in Sardegna dopo il 1016, preferivano scrivere domnu a ricordo dell’origine (da loro supposta latina) del termine (da dŏmĭnus), il quale prima di essere il titolo massimo degli imperatori romani aveva il significato originario di ‘padrone, padrone di casa’, dal lat. domus ‘casa’. Donnu sarebbe la forma più radicata e sentita nel sardo medievale per ‘signore’, al posto di domnu ch’era un vezzo scrittorio dei nuovi prelati provenienti dai monasteri italiani.

Ma donnu non deriva dal lat. dŏmĭnus (per quanto col passare dei secoli la forma sarda vi abbia adeguato la /o/ della prima sillaba) ma dall’akk. dannum ‘potente’ (detto di re o divinità). Ma a questo punto lascio momentaneamente la parola al Semerano (OCE II 387), poichè già gli antichi ritenevano dominus «della stessa base di domus ma, sebbene abbia subìto la suggestione di tale modulo, per dominus dobbiamo tenere serio conto di quanto riferisce P.Festo “dubenus apud antiquos dicebatur qui nunc dominus”. Base è quindi akk. dābinu, dappinu, dapnu (potente, dominatore), che indica propriamente il dominatore per titoli di valore specialmente bellico. Ma occorre aggiungere che dŏmĭnus ha subìto la contaminazione della base corrispondente ad akk. dannum (‘potente’, detto di re, di divinità)».

Dopo la dotta disquisizione del Semerano, riprendo la mia dimostrazione, riaffermando l’equivalenza del sardo donnu con l’akk. dannum. Ma poi per il termine donnicalìa occorre fare intervenire pure un terzo dato, che è l’akk. dunnu ‘compendio agrario fortificato’, il che s’attaglia perfettamente alla curtis di cui parlava il Tola. Per la nascita e la funzione dell’antico dunnu sardo possiamo citare l’esempio, rimasto vivo sino all’Ottocento, dei compendi fortificati del Salento (Puglia).

Il termine donnicalìa risulta essere, in tal guisa, un composto, un vero e proprio stato-costrutto accadico con la –i– finale del primo membro, il quale originariamente era dunnu. Il secondo membro del composto, –calìa, non è quindi (come si supponeva) un doppio suffisso (-ca– finale di dònnicu + suff. –lìa). –Calìa (vedi anche il cognome identico) ha la base nell’akk. kalû(m) ‘detenere, aver possesso’. Onde Donnicalìa significa, sinteticamente, ‘proprietà fortificata del Signore’.

Ma a questo punto, tanto per essere esaustivi, bisogna aggiungere un quarto lemma accadico. Infatti donnicalìa può essere uno stato-costrutto leggermente diverso e parimenti ineccepibile, da smembrare in dunnikû(m), dove ikû è un ‘campo’, ‘a measure of area’, ‘a cultivated field’. Ed in tal guisa abbiamo un significato, non molto diverso, di ‘campi coltivati appartenenti al Signore’. Sembra proprio spiegarsi così il significato autentico di sardo dònnicu < dannikû.

Donádu è cognome di Sassari, già registrato nel condághe di Trullas 286 come Donatu, che Pittau DCS crede corrisp. al personale Donato, il quale deriva dal lat. eccl. Donatus. Sappiamo del significato originario del nome personale, ossia ‘(figlio) donato (da Dio)’, applicato alla prole particolarmente attesa. Ma Pittau dovrebbe sapere che questo cognome, legato al più noto Donato, nome di un santo venerato a Sassari, non è di origine latina. Infatti il sanctus Donatus, per quanto trasferitosi a Roma prima di farsi prete (fu amico dell’imperatore Giuliano l’Apostata), era originario di Nicomedia in Asia Minore (Spada 292), dove si parlava il greco e dove qualsiasi figlio aveva, di norma, nomi greci oppure micrasiatici. Donátu, Donádu a mio avviso è un termine mediterraneo con base nell’akk. dunnâtu f. pl. ‘(merce) di qualità inferiore’.

Donaèra è cognome variante di Tonaèra; è un termine professionale sardiano, indicante l’architetto che erigeva i nurághes. La base etimologica è sumerica: du ‘costruire, erigere’ + na ‘uomo’ + e ‘casa’ + ra ‘puro, fulgido’ (du-na-e-ra), col significato di ‘uomo costruttore di case pure (ritualmente pure, ossia sacre)’: si tratta proprio dei nurághes, che erano altari del Dio Sole.

Donapái, cognome, è un termine professionale sardiano indicante l’operaio che erigeva le capanne col tetto di frasche (su pinnettu). La base etimologica è il sumerico du ‘costruire, erigere’ + na ‘uomo’ + pa ‘rami, foglie’ + e ‘casa’ (du-na-pa-e), col significato di ‘uomo che costruisce le case di frasche’.

Donàra cognome, è un termine professionale sardiano con base nel sumerico du ‘costruire, erigere’ + na ‘uomo’ + ra ‘(ritualmente) puro’ (du-na-ra), col significato di ‘uomo che costruisce edifici sacri’ (ossia nurághes, pozzi sacri, tombe collettive, ecc.).

Dondi, Dondòni, cognome che fu termine professionale mediterraneo, basato sul sumerico dun ‘scavare pozzi’ + du ‘costruire’, col significato di ‘costruttore di pozzi’. Dondòni in questo caso perfeziona l’appellativo professionale, poiché ci aggiunge il sum. unu ‘the most sacred part of a temple’ (dun-du-unu), col significato preciso di ‘costruttore di pozzi sacri’.

Donèda cognome corrispondente a un termine aviario sardiano, con base nel sumerico dun ‘scavare’ + eden ‘uccello’, col significato di ‘uccello scavatore’ ossia ‘picchio’.

Doneddu, cognome, è uno degli epiteti più santi che la lingua sardiana abbia tramandato sino a noi, avente la base nell’akk. dunnu ‘potere, forza’ + (w)ēdu(m) ‘(Dio) unico’ (stato costrutto dunn-ēdu), col significato di ‘Potenza del Dio Unico’.

Dóngu, cognome, è termine sardiano con base nell’akk. dunqu, dumqu ‘benessere, bellezza’.

Donnalòja, cognome. Alòia esiste già come cognome: la sua base etimologica è nell’akk. ālû(m) ‘cittadino’. Ma Donn-Alòja è un composto diverso, basato sull’akk. dunnu ‘potente’ + alû ‘Toro del cielo’ ossia Dio, col significato di ‘Toro Potente’ (epiteto di Dio fecondatore del Mondo).

Donianícoro, Doinanícoro. Il territorio indicato è l’ombelico del Supramonte, confine tra Orgòsolo e Dorgáli, un tempo aspramente conteso perché è l’unica pianura – circa tre chilometri quadrati – in mezzo alla marea di sassi, anfratti, gole, forre, creste, picchi, pareti dell’asperrimo territorio supramontano. Lo scenario di Campu Donianícoro è quello di uno sprofondamento immenso con accanto la fonte. L’etimo è dal sum. tun ‘sprofondamento, depressione’. Il secondo membro ha la base nel sem. Anu ‘Dio Sommo del Cielo’, mentre il membro –coro ha la base nel sum. kur ‘land, country’ (cfr. gr. χῶρος). Quindi traduciamo lo stato costrutto Doni-anícoro come ‘Territorio pianeggiante dedicato ad Anu’. Non sto ad elencare altri toponimi con radicale don-.

62) Gava (P 126). EBF ricorda che il lemma pirenaico gava e i suoi derivati hanno un chiaro significato idronimico. In Sardegna ciò non è tangibile, ad iniziare dai cognomi, che hanno basi differenti.

Gaviáno, è cognome che Pittau DCS dà di origine iberica, corrispondente allo sp. gabián ‘gabbiano’; in realtà è antichissimo, dall’akk. gayyānu (termine architettonico di significato sconosciuto).

Gavìni è cognome che può essere dal pers. Gavino < gentilizio lat. Gabinus = ‘originario di Gabii’.

Gavossái, Govossái è nome di un fiume barbaricino che ha la base etimologica nel sum. gabus ‘pastore (di pecore)’ + suff. territoriale sardiano –ái: gabus-ái, col significato di ‘territorio pastorale’.

Gavòi a sua volta è il nome di un comune della Barbagia di Ollolái. Documentato in RDSard. a. 1341 come Gavi, e negli aa. 1346-50 Gauoy. Il Bertoldi lo riconduce alla base idronimica prelatina *gava/gaba, e può esser giusto, perché sotto il paese scorre il più potente sistema fluviale del centro-Sardegna. È possibile quindi che Gavòi abbia fornito la base fonosemantica del vicino idronimo Gavossái/Govossái, sul cui sito ora c’è una diga. Tuttavia sembra più certo che l’etimo sia dall’akk. gab’u ‘collina, picco di montagna’, o ḫabû ‘essere dolce (di stagione)’. Sembra probabile la prima ipotesi (gab’u ‘collina, picco di montagna’), forse chiamata in tal modo dai pastori che riguadagnavano il paese risalendo dalle profonde valli che circondano l’abitato. Ma probabilmente è più congruo il sum. gaba (designazione relativa alle pecore). In questo caso avremmo in Gavòi un ex aggettivale denotante un villaggio ad economia esclusivamente pastorale (fatto ancora sussistente).

 

63) Nava (P 126). Il termine ispanico nava (basco naba ‘pianura prossima al monte’) rappresenta, secondo EBF, un termine ben studiato da più prospettive ricostruttive. Significa ‘pianura fra picchi di montagna’, ‘vallata’ (cfr. Navarra). Ciò induce EBF a pensare che la località marina di Santa Maria Navarrese ai piedi del Supramonte di Baunéi celi la radice suindicata. La chiesetta fu costruita tra il 1050 e il 1065 e una leggenda attribuisce la costruzione a una figlia del re di Navarra. Leggenda per leggenda, non si capisce perché in questo toponimo si debba vedere una paretimologia riferita al lemma pirenaico Navarra.

È più congruo vederci la stessa radice di Nábui. Neápolis, chiamata localmente S.Maria de Nábui, località marina in agro di Arbus. Il Meloni (283) suppone, assieme a molti altri studiosi, che il nome greco ‘Città Nuova’ non sia altro che il calco semantico di Cartàgine (Qart Hadasht) = ‘Città Nuova’. Lo evince da due iscrizioni puniche, una di Tharros (III-II sec. a.C.), una di Olbia (III sec. a.C.) in cui il dedicante era “[nel] popolo di Qart Hadasht”. Ma Meloni non spiega, ahimè, e sì che sarebbe importante, se il dedicante provenisse dalla sarda Neápolis.

È curioso il fatto che tutt’attorno a Neápolis Raimondo Zucca (Neapolis e il suo territorio, Oristano, 1987) abbia trovato una pletora di ceramica greca, la cui quantità mal si concilierebbe con una semplice “visitazione” dell’area da parte greca o con semplici importazioni di merce. Al riguardo si potrebbe forse immaginare (v. Pittau UNS 112-113) che Neápolis sia stata fondata dai greci di Focea e solo in seguito spodestata e rioccupata dai Punici? Dubito molto. Anche Tharros presenta molto materiale greco, e nessuno si è mai sognato di supporne l’origine greca. Occorre quindi cautela e rigore, cominciando col dire che la Qart-Hadasht citata dal Meloni indica soltanto che il dedicante proveniva direttamente da Cartagine.

Quanto alla nostra Neápolis, l’opzione più congrua, ai fini etimologici, appare quella del Carta-Raspi 160-1, il quale ricorda che la passione per la paronomasia non fu soltanto dei Greci ma anche dei Romani, i quali, nel citare la Neápolis sarda soltanto in tardo periodo imperiale, non intendevano tradurre “alla greca” e neppure parlare falsamente di una “città nuova”, ma andavano per semplici omofonie, nel senso che, avendo questa cittadina, di per sè, il nome sardo Nábui, essi lo riformularono col più perspicuo Neápolis. Tutto qui. Anch’io sono convinto della tesi del Carta-Raspi. Onde occorrerebbe cercare l’etimologia tenendo primamente conto del fatto che il sito di Nábui era sacro, né più né meno come fu sacro il sito di Olimpia o di Delfi in Grecia. In tal guisa, l’etimo scaturisce da solo, basandosi sull’akk. nabû(m) ‘invocare la divinità’, ‘chiamare (nei nomi personali)’ + suff. territoriale –i di stampo ebraico. Il significato fu proprio quello di ‘Luogo dell’invocazione’ (dove il popolo si recava per invocare il Dio Supremo). Vedi i simili toponimi moderni quali Asunçion ‘Assunzione (di Maria)’, Sacramento, Bonaria (Buenos Aires), ecc. Nábui ha il corrispettivo sulla costa sarda orientale, nel sito con chiesetta chiamato Santa Maria Navarrese, dove navarrese sembra nascondere l’originario sumerico nab ‘musico’ + ar ‘preghiera, invocazione’: nab-ar, col significato di ‘musica d’invocazione’ (ovviamente, a Dio). Forse questo toponimo sacro derivò dal fatto che il sito marino (con relativo approdo sabbioso) si trovava dirimpetto alle alture dolomitiche del Supramonte di Baunéi, con delle forme tali (ad iniziare dal Monte Scoìne) da persuadere alla sacralità del territorio.

Un toponimo similare potrebbe celarsi in Nébida, che denota un borgo minerario appartenente al comune di Iglésias, abbarbicato sui perigliosi costoni occidentali dell’isola. Il nome nébida in Sardegna designa due cose: la ‘nebbia’ e la ‘nepitella’ (Satureja calamintha). Il borgo sembra prendere il primo nome, perché nelle giornate caldo-umide è costante l’ingressione di nubi striscianti che dal mare s’inerpicano sui costoni ricoprendoli e inumidendoli. Ma l’etimologia può adattarsi bene sia al fenomeno climatico che a quello geologico. Non dimentichiamo che questo territorio del periodo Cambriano, dalla più tarda antichità e sino a pochi decenni or sono, fu l’epicentro di estesi affioramenti minerari che attirarono moltissimi minatori e tutti i mercanti levantini, i più noti dei quali furono i Fenici. Nébida può avere l’etimologia nell’akk. nēpītu(m) ‘forno a foro basso’, tipica forma degli altiforni di quattromila-tremila anni fa, quando la ganga del minerale veniva messa al forno per ricavarne il minerale puro, al fine di rendere economico il trasporto via mare.

 

64) *Ore (P 126). EBF vede questo supposto radicale basco (di cui non dà l’etimo) molto diffuso in Sardegna, abbinato a orga, *ortu, *donn, ola, obi. Abbinamenti visti da lui, ovviamente, non da me. È sempre EBF a scomporre Logudòro in Logu de Ore (senza peraltro attribuirgli un etimo). E allora cominciamo le controdeduzioni da questo coronimo.

Gli storici hanno dato al nome della sub-regione Logudòro un significato che nessun linguista ha mai confutato. Tralasciamo i pochi che ancora traducono con Logu de oro ‘territorio aureo’ a causa della fertilità dei suoli (i cui connotati pedologici hanno origine da rocce trachitiche o dal calcari recenti o dalla loro commistione, il tutto su una morfologia collinare dolce, con numerose pianure piccole e grandi). Altri, più numerosi, traducono Logu ‘e Torra ‘regno di Torres’. In realtà, abbiamo per Logu Doro il sum. lug ‘luogo di pascoli’ + duru ‘essere umido, soffice, irrigato, fresco’; Logudòro è quindi da tradurre come ‘luogo (regno) di pascoli e di terreni irrigati’. Osservare la sintesi dei nomi presso i Sumeri, mentre oggi noi al loro posto dobbiamo usare delle circonlocuzioni. Ma va osservato principalmente che il nome di quel regno fu azzeccato, per il fatto che non c’è parte del Logudoro che non abbia dei suoli feraci (sono fra i migliori dell’isola), solcati qua e là da vari fiumi, torrenti, ruscelli, e resi umidi ed irrigabili da una miriade di sorgenti perenni, scaturenti dagli innumerevoli siti di calcare recente. Sassari, da questo punto di vista, nacque in un sito esemplare: lo testimoniano i suoi celebri orti, che resero famosa la città quale capitale agricola della Sardegna.

Un’ultima osservazione. Qualsiasi obiezione a questa etimologia osterebbe, tra l’altro, col fatto che il sardo lógu ‘luogo, sito, (e regno)’ non ha affatto origine dal latino locus, come si dice coralmente, ma dal sumerico lug ‘posizione, abitazione, sito di insediamento’.

Óru ‘orlo, lembo, margine’; in s’oru dessa valle; su oru dessu fossatu. Wagner lo fa derivare da un lat. orum. Non è vero. Il termine sardo ha la base direttamente nel sum. ur ‘bordatura di una stoffa, di un vestito’; anche ‘confinare, imprigionare’. Wagner pensa che il logud., sassar. e gallur. urìzi sia una variante della base óru. Ciò non è vero. Invece è vero che óru e urìzi ebbero già in origine un significato molto simile, tanto da avere infine lo stesso significato, perché la base originaria fu in qualche modo la stessa. Infatti dal sum. ur ‘bordatura’ si ebbe presto il sum. ur-i-zi (i ‘abbigliamento, vestiario’ + zi ‘tagliare di netto’) che passò all’akk. urīzu (a stone: ossia ‘pietra confinaria’).

Oráni è nome di un comune del Nuorese cognome e corrisponde pure a un cognome. Il toponimo è da confrontare anzitutto col gr. Ουρανός ‘cielo’. Per gli antichi il cielo richiamava la figura di un tetto o d’un baldacchino, ed i Sumeri dissero úr-an la ‘volta del cielo’; gli Accadici dissero ūru il ‘tetto’ e Anu il ‘dio del Cielo’ (in composto Ūr-Anu ‘il tetto di Anu’). Orani però richiede un confronto decisivo anche col dio astrale ebraico Ḥoram (o Koranu). Sia il lat. Uranus sia l’ebr. Ḥoranu sono divinità astrali. E va pure detto che Oráni è indissolubilmente legato al suo monte sacro, Gonáre, non solo religiosamente ma pure nel nome. È nota la somma importanza che i Nuoresi, i Sassaresi, i Sardi in generale hanno attribuito a questo monte nel passato. La festa di Gonáre era la più importante della Sardegna. Nell’oronimo Gonáre c’è la corruzione del nome Ḥoranu/Koranu, con relativa metatesi Orani/(G)onare, probabilmente creata apposta dal clero bizantino allo scopo di far dimenticare (siamo ai tempi del re barbaricino Ospitone e della dura repressione del paganesimo) l’origine solare del culto. In questo caso abbiamo il binomio paese-montagna.

Orùne è il nome di un comune presso Nùoro. L’etimologia non può che basarsi sull’akk. ūru(m) ‘albero’ (nel senso di foresta), oppure sul pl. tant. urû ‘piante aromatiche’ (riferito al pascolo) + sum. unu ‘insediamento abitativo’.

Urru cognome sardo d’origine mesopotamica. In akk. urrû significa ‘ben curato; potato (con riferimento alla palma)’. Ma EBD ricorda il cgn. ebr. libico e castigl. Ḥuru, onde è possibile anche l’origine ebraica, con base nell’akk. ḫūru ‘figlio’.

Urrái cognome che Pittau DCS presenta come originario dal nome del paese, ora scomparso, Urray, Orray (vedi Burrái). Va bene. EBD lo presenta come cgn d’origine ebraica, Ḥurai (1Cr 11,32; 2Salmi XXIII 30). Quindi dobbiamo immaginare che tale villaggio fosse probabilmente un originario insediamento ebraico.

Orbái cognome corrisp. all’oronimo Monte Orbái, che non prende il nome dalla forma di vomere (orbàda, arbàda) di una delle sue pendici, ma da uno dei canaloni impervi e profondi, in sardo ùrbidu (akk. urbu ‘afflusso’), che sbucano alle celebri fonti di san Giorgio (Siliqua). Il trasferimento di significato dal vomere al ‘solco profondo fatto nel campo arato’ (ùrbidu) è normale. Anche in agro di Sìnnai c’è un toponimo di questo genere: Baccu Perda Orbái, dal significato un po’ più complesso: perda orbái ha relazione con la ‘zolla rivoltata dal vomere’. Nota che l’akk. urbu indica l’afflusso, l’affluenza, che rientra nel campo semantico che stiamo discutendo.

Orbàna cognome con base nel toponimo Villa Urbàna, comune vicino Oristáno. Non credo si possa ricavare l’etimo neppure dal neo-babilonese urbānu ‘papiro’, perchè in Sardegna i papiri per la carta scrittoria non sono mai esistiti. Occorre un’altra via per l’etimo. Il villaggio è incastonato al centro di una lunga valle che discende da Mogorella, su buoni suoli derivati da arenarie, conglomerati, marne. Significa quindi ‘villaggio aratorio’ (nel senso che ha la vocazione agricola, al contrario dei villaggi delle colline circostanti). Infatti la base etimologica è l’akk. ūru ‘città’ + banû ‘che produce bene’ (stato costrutto ūr-banû).

 

65) Orga (P 127). Su questo radicale, già trattato, EBF rinuncia a ripetere il già detto. Io invece voglio dire la mia tramite le etimologie seguenti.

Orgiàna, cognome. Per l’etimo parto da Orgìa, considerata una démone delle fonti, spesso chiamata Orgìa Rabiòsa, a sottolinearne le intenzioni non benevole. Per quanto poi Rabiòsa sembri una patente contraddictio in terminis, se è proprio lei il démone (o la dèa) che sedeva nelle antichissime fonti sacre allo scopo di curare i malanni dell’umanità. Oggi Orgìa, ed Orgiàna suo derivato, è noto in Sardegna anzitutto come cognome (specialmente Orgiàna). Dagli studi del Semerano (OCE 178) potrebbe proporsi l’accostamento di Orgìa ad uno degli attributi che Artémide aveva in Arcadia e a Sparta: ’ορθία (Boρθέα, Bωρθεία) che trova l’antecedente remoto nell’akk. burtu ‘cisterna, fonte, specchio d’acqua’: come dire ‘(Artemide) delle fonti’. È quanto s’ipotizza per le fonti sacre della Sardegna. Orgía è il nome sardo d’un essere mitico legato alle costruzioni megalitiche (quelle, per intenderci, che racchiudevano le sorgenti prenuragiche e nuragiche): è il nome della “strega” che abitava quel tempio. In greco abbiamo un raffronto soddisfacente, οργή ‘eccitazione interiore’ ed ’oργάς ‘terra umida, grassa e fertile’. Ma οργή significa pure ‘ira, collera, passione’, ‘impeto’; ’οργάω ‘sono pieno d’impeto’ ma anche ‘sono fecondo’; ’οργασμός ‘orgasmo’. La radice di Orgìa sembra stare a suo agio in tutte queste forme greche, per quanto ci sia stata commistione tra la forma οργή e la forma Βωρθεία proposta dal Semerano. É lo stesso Semerano (OCE II 210) che indica le basi accadiche per completare la ricerca etimologica: è irḫu ‘insolenza’, arāḫu, erēḫu ‘essere pieno d’impeto, aggressivo’, erḫu ‘aggressivo’: quindi akk. arāḫu ‘divorare, distruggere, consumare (col fuoco)’. Quanto alle ὄργια, ossia ‘i riti, le orge’ in onore della divinità, Semerano (OCE II 96) richiama gr. ’έργον ‘lavoro’ e Fέρδω il cui significato originario è ‘compio il servizio divino, servo il dio; sacrifico al dio’, cfr. akk. wardu, ardu ‘chi è addetto al culto del dio, schiavo addetto al lavoro (del tempio)’. Ma questa è altra storia. Concludo quindi notando in Orgìa i complessi caratteri di un démone femminile dell’antichità, che si esprimeva con irruenza e talora con rabbia, ma che era anzitutto una benevola ninfa delle fonti.

Orgòsa. Vedi Orgòsolo.

Orgoségoro. Per quanto la seconda parte del lemma di Orgosè-goro sia identica a quella di Donianì-goro (Donianì-koro), non credo alla loro unità semantica. Orgosègoro è il nome di una fontana in territorio di Urzuléi; divido il nome in Orgòsa ‘e Goro e traduco come ‘sorgente dell’altopiano’. Questa nasce immediatamente sotto la cima di un’area cacuminale molto piatta ed omogenea, alta 1000-1010 m e larga oltre 1 km, situata dirimpetto a Punta is Gruttas. L’orgosa, la ‘sorgente’, sta sotto il –goro ‘l’altura’. Quest’ultimo lemma si trova come finale in parecchi toponimi od oronimi. Indica un’altura, un altipiano, ed ha la base nel sum. gur ‘sollevare’, e anche ‘orlo’, e pure ‘scudo’; ma vedi anche il sum. guru ‘ammonticchiare, accumulare’, avente la medesima semantica.

Orgòsolo, nome di comune vicino a Nùoro. Deriva dal sardo orgòsa ‘sito sorgentifero’ e tale forma a sua volta deriva da orga ‘polla d’acqua, zampillo, sorgente’. Pittau (LSP 167) dà un apparato completo delle forme e dei significati derivanti da orga, che considera un relitto sardiano da confrontare coi greci ’oργά, ’oργή ‘eccitazione interiore’, ’oργάς ‘terra umida, grassa e fertile’. Egli dà anche delle belle locuzioni del dialetto nuorese: s’árvore est in sa orga ‘e bohare ‘l’albero sta per fiorire’, bestia in sa orga ‘e rendere ‘bestia che sta per giungere all’orgasmo’, orga de zente ‘moltitudine, folla’, orgόsu ‘fronzuto, fiorente’.

L’antichissimo villaggio di Orgòsolo sorse proprio in una conca granitica, dalle cui pendici scaturivano delle sorgenti. Abbiamo sempre verificato, ovunque in Sardegna appaia una forma in org-, che il lemma non è toponimo ma idronimo: infatti proprio lì c’è acqua scaturente dalla profondità della terra o dall’anfratto d’una grotta o decorrente. Come etimo posso proporre la seguente agglutinazione sumerica: ur ‘essere abbondante’ + gu2 ‘impulso’ + su ‘immergere, sommergere’ + lu ‘essere abbondante’: ur-gu-su-lu, col significato sintetico di ‘(fonti) che sommergono per l’abbondanza’: e così torniamo un po’ al campo semantico che si evince dai vocaboli e dalle aggettivazioni nuoresi citate dal Pittau.

Orgugliòso. Il castello di Orgugliòso sta in agro di Silìus. La forma deriva da Castel Argullot (curatoria di Gallil, 1320). Era anche noto come castello di Sassái.

66) *Orve (P 127). Anche per tale proposta EBF sorvola sui confronti, mostrando di esserne a corto. E per vie subliminali ci costringe ad apparecchiargliene un po’. E allora eccoli qua.

Órviu, cognome medievale (CSMB 88,167,205) che per Pittau deriva dal gentilizio lat. Orvius. È possibile. Ma è parimenti congruo che abbia la base nel sum. ur ‘servo’ (nel senso di sacerdote) + akk. bī’u ‘scaturigine, apertura’, col significato di ‘sacerdote della fonte (sacra)’.

Orbàda, abràda. Significa ‘vomere’. Nel DES c’è una bella discussione sull’etimologia, ed alla fine Wagner lascia prevalere la tesi del Terracini che propone l’origine dal latino urvum ‘bure dell’aratro’. Da questo significato nel sardo si è passati a indicare il ‘vomere’ tout court e addirittura la sua punta. Dal significato di ‘vomere’ il sardo ha considerato per sineddoche pure il ‘solco’ fatto dal vomere.

Orbái. Il Monte Orbái non prende questo nome dalla forma di vomere (orbàda, arbàda) di una delle sue pendici, ma da uno dei canaloni impervi e profondi, in sardo ùrbidu (akk. urbu ‘afflusso’), che sbucano alle celebri fonti di san Giorgio (Siliqua). Il trasferimento di significato dal vomere al ‘solco profondo fatto nel campo arato’ (ùrbidu) è normale. Anche in agro di Sìnnai c’è un toponimo di questo genere: Baccu Perda Orbái, dal significato un po’ più complesso: perda orbái ha relazione con la ‘zolla rivoltata dal vomere’. Nota che l’akk. urbu indica l’afflusso, l’affluenza, ciò che rientra nel campo semantico che stiamo discutendo.

Orbèzzari, Orbètthari. Il nuraghe Orbèzzari in agro di Sédilo sta sul ciglio della falesia basaltica del paese, a guardia d’una antica via che risale dalle valle verso lo stesso nuraghe: è una tipica via sacra che convogliava al nuraghe le popolazioni viventi attorno al fiume Tirso, che sta proprio lì ἔsotto. Potremmo attribuire al toponimo la base úrbidu, úbridu ‘viottolino stretto sommerso dalla macchia’, ‘luogo assai brutto con rocce alte’, ‘luogo impervio che s’infossa in modo caotico tra sassi e macchia’. Ma, oltre alla sua antica funzione di via sacra, dobbiamo badare al fatto che in sardo abbiamo anche il termine orvettadòre, obretadòre ‘chi sta in guardia, chi sta alla posta’: e torniamo così al nuraghe, poiché il semantema si riferisce a colui che si apposta di guardia su una rupe. Sotto questo punto di vista, il toponimo Orbèzzari forse indicò in origine semplicemente il ‘sito di guardia’, dal sum. urbitum ‘pietra’ e per estensione ‘specola’. Ma è più congrua l’agglutinazione sumerica uru ‘sede, insediamento’ + be ‘tagliar fuori’ + za ‘proprietà’ + rig ‘ovile’: ur-be-za-rig, col significato di ‘insediamento isolato degli ovili di proprietà’.

Orbìne. Riu Orbìne è un idronimo in terra di Ovodda: indica un rio decorrente tra le foreste verso il Talòro. Il nome è metatetico. La base sembra la stessa di úbridu, úrbidu ‘via stretta tra burroni’. In tal caso, vedi la discussione e l’etimo qua appresso per Orbìsi.

Orbìsi. La Códula Orbìsi nel territorio di Urzuléi è una gola dall’andamento iniziale insignificante, mera golena fortemente sassosa, che poi sprofonda sempre più nei calcari giurassici, tra pareti molto alte, sino a bloccarsi in un salto vertiginoso passando per un buco, impossibile scrutarne l’ingresso. In ogliastrino la còdula è una ‘gola profondamente intagliata nel calcare, con fondo pieno di pietre rotondeggianti’, dall’accadico (vedi lemma). In Orbìsi è semplice vedere una base ùbridu, ùrbidu ‘viottolo molto impervio, talora zeppo di fitta selva, che sprofonda tra pareti rocciose’. Ha la stessa base etimologica di gr. ἔρεβος ‘mondo dei morti’ quindi ‘impenetrabile, buio’, da akk. urbu ‘ingresso’, erbu ‘ingresso, tramonto’, erēbu ‘entrare’. Orbìsi, come ùrbidu, è quindi un antico aggetivale da urbu.

Orùi è cognome con base nell’akk. ūru(m) ‘ramo, albero’ + suff. ebr. –i.

Órulu. Il nuraghe Òrolo in agro di Bortigáli è allofono di órulu = úrulu e cogn. Úrrulu da akk. urrû con riferimento alla palma potata e ripulita. Tale aggettivo (suffisso –ulu) a prima vista inusuale, è dato proprio a questo nuraghe e all’ononimo nuraghe Orolío, non ad altri, per la loro lunghezza e massimamente per la loro squisita eleganza.

Orùne, nome di un comune presso Nùoro. L’etimologia non può che basarsi sull’akk. ūru(m) ‘albero’ (nel senso di foresta), oppure sul pl.tant. urû ‘piante aromatiche’ (riferito al pascolo) + sum. unu ‘insediamento abitativo’. Il significato è chiaro.

Orùu, variante del cgn Orrù. Quest’ultimo si ritiene derivi dal fitonimo sardo orrù ‘rovo’ (Rubus fruticosus). In realtà non è altro che la paronomasia del cgn Ru. Questo a sua volta non corrisponde al fitonimo ‘rovo’, ma ha la base nell’akk. , erû ‘aquila’.

È giunta l’ora di fare chiarezza su un grande pasticcio fono-semantico riguardante le lingue sarda-italiana-latina. Si tratta di un coacervo di vocaboli creduti fino ad oggi con la stessa origine: sardo Orrù, Ru, Orùu (cognome); orrù, arrù, ru ‘rovo’; rùbiu, rùviu, arrùbiu ‘rosso’; it. rosso ‘colore del sangue vivo, della porpora’; lat. rŭbus fruticōsus ‘rovo selvatico’; rubeō ‘essere rosso’, rŭber ‘rosso’, rūbidus, rōbidus ‘scuro’. Sgombro subito il campo dall’it. rosso, il quale deriva dal lat. rŭssus ‘rosso’ < akk. ruššû ‘rosso’.

Sgombro ulteriormente il campo dal cognome sardo Orrù, Ru, Orùu che ha la base etimologica nell’akk. , erû ‘aquila’.

Terzo sgombero è sul lat. rŭbus (fruticōsus), la cui base etimologica è il sum. ur ‘imprigionare’ + bur ‘strappar via’: ur-bur > met. seriore ru-bur, col significato di ‘imprigiona e strappa’ (terribile è la natura di questa pianta: ho visto pecore imprigionate senza scampo, destinate a morire di fame o uccise dalla volpe: tutto ciò per un semplice contatto-aggancio laterale con la pianta).

Dopo queste precisazioni, va da sé che tutti i restanti lemmi hanno subito degli influssi reciproci: il sardo rùbiu, arrùbiu ‘rosso’ prende dal lat. rubeus ‘rossiccio’; e quel lat. rŭbus (fruticōsus), quasi identico a rubeus ‘rossiccio’ e rŭber ‘rosso’, portò inesorabilmente al sardo ru, arrù, orrù nel senso di ‘rovo selvatico’. A questo punto, è stata la lingua latina a generare in se stessa una stretta parentela fonetica di rubeus ‘rossiccio’ e rŭber ‘rosso’ con rūbidus, rōbidus ‘scuro’, rōbigō ‘ruggine’, (pānis) rūbidus ‘(pane) scuro’, in considerazione del fatto che il sangue da rosso diviene, col passare delle ore e dei giorni, sempre più scuro; l’esatto fenomeno della ruggine.

67) *Osa (P 127). Anche su questa “radice incerta o ignota” EBF non ha niente da dire, nonostante che scriva d’aver detto tutto e di doverne riferire ancora (sic!). Egli, con la raffinata tecnica di accennare nebbiosamente al tema, al fine di costringere altri, subliminalmente, a dargli un corposo soccorso, riesce veramente ad ottenerlo, il soccorso. In tal guisa, il suo libro appare come un artistico vaso aureo colmo di niente, che spetta agli altri riempire. E allora, andiamo a riempirlo.

Óschiri è il nome di un comune del Montacuto, la cui base etimologica sta nel sum. ‘fondazione, abitato’ + kiri ‘orto, giardino’, col significato di ‘paese dei giardini, degli orti’. In tal caso sembra di capire che nel sito originario si preferì esercitare l’agricoltura a discapito della pastorizia.

Oséli, Usélli, Uséli, cognome che riproduce il nome di un comune dell’Alta Marmilla. È l’antica Uselis. Il toponimo riproduce pari pari quello preesistente ai Romani, perché è identico all’etrusco Usil ‘Sole’, ed indica un sito dedicato al culto uranio.

Osìdda nome di un comune dell’altopiano di Buddusò con magnifica vista panoramica sull’alta valle del Tirso. Anche qui vediamo l’impronta etrusca Usilla, forma al femminile di Usil ‘Sole’. E con ciò torniamo all’antica santità del luogo, che doveva essere uno dei più belli della Sardegna, sicuramente un sito di devozione nuragica.

Ósilo è nome di un comune ad est di Sassari. Si erge su spuntoni basaltici, e grazie alla posizione strategica vi fu costruito pure il castello. Il toponimo appare in RDSard. a. 1341 come Osolo e non è stato ancora tradotto. Anche qui, come per Osidda, troviamo una pura forma etrusca Usil, ‘Sole’,e dobbiamo ammettere, come per Usilla/Osidda, un antichissimo culto solare.

Osìni nome di un comune dell’Ogliastra. Vedi Ùsini, che ha lo stesso toponimo originario. La base etimologica è il sum. u ‘terra, territorio’ + akk. Sîn ‘Dio Luna’, col significato di ‘territorio del Dio Luna’. Questo, evidentemente, in origine fu un “sito aperto” ossia dedicato al Dio Unico e alla frequentazione dei pellegrini.

Osoddéo. Su cuzu ‘e Osoddèo (Abbasanta) è forma alterata di Sos Oddéos. Il lemma è presente pure in Ogliastra: v. più su Oddéu.

Óspile (lemma già trattato) è forma allotropa di cungiáu ‘pascolo chiuso da muri’. Ma significa anche grutta, sélcia ‘grotta, spaccatura nella roccia’. Ad Urzuléi indica anche il ‘burrone’ di ridotte dimensioni. Sembra derivare dal sum. us ‘pecora’ + pi ‘unità’ + li ‘ramo’, col significato di ‘unità (ridotto) per pecore fatto di rami’.

Osporrái. Su séttile Osporrái si trova nel Supramonte di Olièna, al confine col territorio di Orgòsolo, alla base d’una falesia calcarea alta più di 200 m. Per il significato di séttile = praza, rimando al lemma Sédilo. Qui però succede quanto già rilevato nel Monte Albo di Lula, dove il lemma praza sta a indicare non un sito pianeggiante ma un anfiteatro roccioso. Qui il terreno non è molto roccioso, comunque non è certo pianeggiante, e rimane addossato alle alte falesie. Circa Osporrái, il lemma ha due basi cui riferirsi: gospo ‘pane d’orzo’ (Dorgáli), e óspile ‘ricovero per bestiame, caverna, dolina, piccolo burrone, luogo appartato e solitario’ (vedi più su). Prima di trarre la conclusione più adatta, va detto che il sito è strategico, nel senso che è confinario ed è marcato da un sentiero che in qualche modo fa da tramite tra i due territori, che un tempo non erano certo affratellati e neppure “consanguinei”. È un classico limes tra tribù o gruppi diversi e ostili. Probabilmente qui séttile aveva il significato estremo di “punto di guardia” o “stanziamento di pastori”. Osporrái non può riferirsi alla coltivazione dell’orzo proprio a causa del sito confinario (che era pericoloso). In linea col contenuto di óspile, significa invece ‘ricovero addossato alla falesia’. Quindi traduciamo Su Séttile Osporrái come ‘lo stanziamento (ovile) addossato alla falesia’. Il sardiano –rrai è un doppio suffisso territoriale (-rra + –i).

Osposidda. L’alto Monte Osposidda (m 919) in agro di Orgòsolo si trova quasi alla base delle falesie del Supramonte. Un tempo era boscosissimo (oggi lo è per interventi forestali), ma la sua bellezza deriva principalmente dalla forma perfettamente conica. Abbiamo già notato la vocazione sacra in altri monti di forma similare: erano adibiti come altissimo altare del dio Sole. Doveva succedere anche qui. Per Osporrái abbiamo indicato la base in gospo, (g)ospo ‘stanziamento’; per questo monte ribadiamo il significato di ‘stanziamento’, cui s’aggiunge il significato già indicato per Osìdda, che è forma femminile Usilla per Usìl ‘Sole’. Quindi Osposìdda significa ‘tempio del Sole’, ‘stanziamento, luogo dedicato al Sole’.

Ossi è il nome di un comune vicino a Sàssari, ripetuto dal cognome Ussi, che ha la base nell’akk. uššu(m), usualmente plurale, col significato di ‘fondazioni’ di un paese; indica dunque il paese medesimo.

Ostis. Il toponimo Sos Ostis, nel Supramonte di Orgòsolo, significa ‘(il bosco de)gli agrifogli’. Badu Osti nel Supramonte di Urzuléi ha lo stesso significato. C’è corrispondenza esatta tra costi/golosti/colostri (‘agrifoglio’; ma è anche l’acero sardo) e il basco korosti, gorosti. Ma in ciò dobbiamo vedere un mero fenomeno di conservazione parallela (remota è la Guascogna, remota la Sardegna: entrambi i territori vocati a conservare dei vocaboli che un tempo dovevano essere pan-europei). La base comune dei lemmi basco e sardo è il sum. kur ‘legno, albero’ + ‘morte’, ‘veleno’ + ti ‘uccello’, col significato di ‘albero che uccide gli uccelli’. È noto che la bacca del Taxus baccata è letale se masticata. Il fatto che in Sardegna sopravviva anche la forma ridotta òsti anziché cor-òsti significa che qualche tribù locale preferì chiamarlo sbrigativamente ‘veleno degli uccelli’.

Ostùno. La Genna Ostùno nel Supramonte di Urzuléi ha la base in costi ‘agrifoglio’ + sum. unu ‘sito, luogo’, col significato di ‘luogo degli agrifogli’. Vedi Ostis.

 

68) *Ospe (P 127). Secondo EBF questo radicale significherebbe (in sardo) ‘nasturzio’ (Nasturtium officinale L.). Le parentetiche sono mie. Egli deduce ciò dal fatto (non riferito altrove: EBF comunica spesso con la telepatia) che in sardo abbiamo il lemma òspinu (Bolòtana) ‘nasturzio o crescione d’acqua’. Poiché non riesco ad arguire altro dai suoi lacunosi silenzi, mi è d’uopo produrre per mio conto l’etimologia di òspinu, il quale ha gli allotropi nel barbaric. gùspinu, bittese grùspinu. L’etimo del fitonimo si trova in un composto sardiano con base nell’accadico. Per grùspinu abbiamo ḫuruššu (a vegetable) + pīnu ‘gold’, col significato sintetico di ‘piantina d’oro’ (per le alte virtù curative dovute al grande apporto in vitamine); per gùspinu, la base sardiana si resse sull’akk. ḫusû (a kind of owl) + pīnu ‘gold’, col significato sintetico di ‘oro delle civette’ (sempre con riferimento all’alta virtù terapeutica della piantina).

69) *Pal (P 127). Non riporto quanto EBF scrive al riguardo (invito a leggerlo direttamente); in ogni modo, le sue proposte sono inaccettabili. Assurdo, ad esempio, è vedere questo radicale in Pappalope. Come al solito, propongo qui appresso alcuni lemmi sardi dove può apparire (ma è un caso che nulla cambia) il radicale da lui soltanto supposto.

Pappalope o Papaloppe, anzitutto. Il sito nell’agro di Olièna si riferisce a un ponte medievale, il cui nome è da interpretare come un cognome preceduto da un soprannome (fenomeno tipico della Sardegna ancora oggi, e vivissimo nei centri dell’interno), scomposto in Pabali Oppes, ossia ‘Papavero Oppes’.

Secondo le aree linguistiche dell’isola, il fitonimo indicante il ‘papavero’ (Papaver rhoeas L.) ha varianti fonetiche di poco conto: papáli, pabáli, papáule ‘papavero’, pabáule, pappáile, pappái, papáu, papárre, pabáiri, pabáiru, babbaòi, pappaósu. Secondo Paulis NPPS, la voce risale al lat. păpāver. Ma sbaglia. Il termine è sardiano, con base nell’akk. papallu, sum. pa-pal (germoglio, ‘Schössling’), con attenuazione e scomparsa della liquida finale + ebr.ant. beēra (fuoco, ‘fire, burning’), bā‛ar בָּער ‘ardere’ ‘tu burn’, cfr. latino būrō, da cui bustum, che fu, a torto, ritenuto da comb-ūrō.

Quanto al cognome Oppe, Oppes, Pittau DCS lo crede derivato dal cgn sp. Lopes (per effetto del nesso sintattico de Lopes, erroneamente interpretato *del Opes). Ma questa ricostruzione è lambiccata e impropria. A mio parere il cognome è variante del cgn Oppo, Oppi, Oppus, Opu, Òppia, che DCS pensa derivi dal nome del centro abitato medievale Opo, citato nel condághe di Bonarcado 67: Orzoco de Opo. Può darsi. Ma forse è più congrua la base etimologica dall’akk. uppu(m) ‘un genere di tamburo’ per le funzioni sacre, fatto di pelle, d’argento o di bronzo (è dal sumero). Adesso propongo qualche altro lemma con possibile radicale *pal-.

Pala. Il termine sardo significa, nel suo valore di nome comune, ‘spalla’ e ‘pendio montano’ ed è un italianismo per ‘omoplata’. Vedi anche palu, allomorfo che indica il ‘pendio montano’. Il cognome Pala dobbiamo invece vederlo alla luce della forte commistione di genti mediterranee avvenuta durante l’epopea dei Popoli del Mare, ma anche prima e dopo; non possiamo sottovalutare l’apporto ittita. Pala fu una regione del centro-nord dell’Anatolia, indicata in documenti ittiti ed abitata dai Palaiti. In epoca pienamente storica fu la regione comprendente Bitinia, Paflagonia e Ponto. Il cognome sardo può benissimo indicare un individuo trapiantato in Sardegna in virtù della navigazione dei pre-Lidi e proveniente proprio da Pala (nomen originis). O potè essere un Palaita fatto prigioniero allorchè i Popoli del Mare annientarono la potenza ittita, messo poi ai remi e quindi trapiantato in Sardegna. Peraltro, a valere come termine comune, c’è una parola ittita corrispondente a quella sarda e presente pure nel Mediterraneo. Si tratta dell’ittito palḫi-, palḫai– (agg.) ‘ampio, vasto, aperto, piatto’ (v. l’oronimo sardo Punta Palái, che emerge da una cresta molto piatta), il cui corrispondente è il lat. plānus ‘ampio, vasto, aperto, piatto’. Ma vedi il cgn Paláu. Non si può tuttavia tacere anche il termine sumerico pala ‘vestito’, ‘un vestito regale’.

Palái. L’oronimo sardo ha la base nel termine ittito palḫi-, palḫai– (agg.) ‘ampio, vasto, aperto, piatto’. Infatti Punta Palái emerge nella catena del Márghine da una cresta molto piatta; vedi il corrispondente lat. plānus ‘ampio, vasto, aperto, piatto’.

Paláu nome di un comune della Gallùra. Il toponimo è da confrontare con Balláo. Vedi pure Baláy, antico nome di Balláo e nome del promontorio dove furono giustiziati i protomartiri turritani Proto, Gavino, Gianuario. In catalano palau significa ‘palazzo’, ma è inopportuno tentare un avvicinamento a tale termine, tantomeno al sardo thàlau, thalàu ‘crusca’.

Conosco la topografia del territorio di Paláu, a cominciare dalla celebre statua naturale dell’Orso. Il suo porto naturale e le sue alture litoranee, ammantate d’un fascino struggente, non possono essere state ignorate dai naviganti. Si sa che i Fenici, sia pure quando non lasciavano tracce, navigavano tutt’attorno alla Sardegna per commercio, ed avevano la sana abitudine di depositare sulla spiaggia o sul “molo” la propria merce, risalendo sulla nave ed attendendo educatamente che gl’indigeni s’avvicinassero e lasciassero oro, argento o altra merce di baratto. Scendevano nuovamente, e risalivano a bordo varie volte, in mutuo (e muto) accordo con gl’indigeni, sino a che non si raggiungeva un ragionevole equilibrio tra il valore intrinseco della merce e quello datogli dagli acquirenti. Poi ripartivano (Erodoto). Ma se vedevano che il sito era degno del loro Dio, allora gli erigevano un tempio, senza lasciare gente, e se ne andavano, sicuri che gl’indigeni risparmiavano religiosamente la nuova struttura. Orbene, se i Fenici (ed i Sardi) erano di tal fatta, è facile ammettere che la radice del toponimo Paláu è identica a quella di Balláo, di Baláy, di Palái, perch’erano tutti siti degni di conservare un tempio a Baal. Peraltro possiamo sempre ammettere una sovrapposizione fono-semantica alla forma Baal del più antico akk. palaḫu ‘onorare, venerare’.

Palu. La Grutta dessu Palu sta nel Supramonte di Urzuléi, lungo la Codula de Ilùne. Cfr. lat. pālus che significa anche ‘fallo’. Nell’intendere ciò gli antichi Latini non giocavano con la magia della metafora. È che le forme d’adorazione dell’Essere supremo, del Supremo Fecondatore (fosse egli chiamato Giove o Zeus o Baal) erano espresse col Palo in tutto il mondo conosciuto, dalla Mesopotamia sino alla terra di Canaan sino all’intera Italia, ed anche in Sardegna. Ad Atene le Processioni del Fallo furono così importanti da generare persino una forma letteraria d’importanza universale: la tragedia. In Italia l’antica Processione dei Falli ha mutato nome (si è imborghesita) ed è divenuta quella dei Ceri, rimasta viva a Gubbio, a Sassari (oltreché a Nulvi, Iglesias, Ploaghe). I Ceri in realtà sono di legno (ad Atene erano già di legno, da sempre: legno di fico, scolpito in forma fallica). Diamo a Palu questo significato, perché l’acqua della Codula d’Ilùne, nel sito di Su Palu, viene “inghiottita” (e ciò ha un significato sacro).

Ciò detto, non si può sottovalutare in questa ricerca il nome del dio Baal; immagino che il toponimo Palu indicasse direttamente questo Dio, che era attestato in Sardegna e un po’ in tutto il Vicino Oriente: è noto in arabo, ugaritico, fenicio, punico, aramaico, nabateo, palmireno, amorrita, babilonese, accadico. In ugaritico fa bʽl ‘signore, proprietario’, in amorrita baʽlum, in bab. ba’lu ‘grande, maggiore’, in akk. bēlu ‘signore, proprietario’, e così via. Questo dio, particolarmente onorato in Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna. Onde sembrerebbe sotteso proprio il suo nome in tutti i toponimi o nomi sacri che lo echeggiano in Sardegna, a cominciare dal dorgalese (Nostra Sennora de) Balu Irde o Palu Irde, che è la Madonna di Valverde. Quel Valverde, tipico delle chiese campestri dove si adora una Madonna cristiana sconosciuta fuori dell’isola, non è altro che la paronomasia di Baal Irdu (accadico Bēlu Irdu, Bēlu Išdu), un epiteto sacro col significato di ‘Signore Base-del-Cielo’, ‘Baal Base-del-Cielo’.

 

70) *Sala (P 128). EBF: «La base *sala conta fra le radici più contese tra i sostenitori d’un sostrato paleoindoeuropeo e i fautori d’un sostrato mediterraneo. Il valore idronimico comunemente accettato è di ‘acqua stazionaria’… ma in Sardegna questo morfema s’unisce a elementi di carattere anindoeuropeo, quale il semitico maqom (Salamage [ɣ] o il suffisso –ènnoro (Salaénnoro)».

Lasciando da parte la salottiera intuizione “anindoeuropea” di –mage = maqom (onirica equivalenza da servire a cocktail e lasciata, ovviamente, senza etimo), EBF per l’ennesima volta mostra la dannosa parzialità del proprio agire, poiché mette l’asterisco a un termine che non deve averlo, visto che è conosciutissimo ed ha un etimo assai chiaro, ignoto solo a lui e ai suoi colleghi dimidiati, risoluti a indagare soltanto nel campo dell’indoeuropeo.

Questo termine sardo dei siti umidi, mai indagato da chi s’affanna a spaccare il mondo mediterraneo a metà, ha la base nell’akk. salā’u ‘cospargere, spruzzare, bagnare’, salû, šalû ‘sommergere’. Da questo verbo d’acqua antichissimo derivano una serie d’idronimi sardi, spesso composti. Un elenco sufficiente di toponimi di siti umidi è il seguente: Salatzái (Urzulei), Salaùna (Tempio), Salapému (Morgongiòri), Sallái (Ardaùli), Canali Salái (Gonnosfanádiga), sorgente Sall’e mengiánu (Gésturi), paùli Salamardi (Gésturi), mitza Solomardi (S.Basìlio), ríu Salamárdini (Villaurbana), funtana Salamattile (Scano Montiferru), Mitza Salamessi (Tuili), río Salamida (Décimo), rio Salamitánu (Villaspeciòsa). Il termine non è condiviso dalla lingua basca, ma è solo un caso, che EBF non sa spiegare.

Altri toponimi sardi di tale forma non sono affatto idronimi e quindi non si collegano a sala ma sono talora agglutinazione di sa ala, sa ara ‘il territorio, il lembo di territorio’ (vedi al lemma ara o ala).

71) *Sara (P 128). EBF sostiene, sulla scorta di moltissimi etimologi indoeuropeisti, che *sara designerebbe un ‘fiume’ o corso d’acqua minore’, e per la Sardegna mostra l’affluente Sara di Arbatax o il Saranule barbaricino. Egli vede collegamenti diretti col mondo microasiatico (Sáros in Cilicia, ricordato da Strabone).

Con un po’ di buona volontà, posso trovare all’affluente Sara l’etimo dal sum. sar ‘correre, scorrere’, o šar ‘mescolare’ (di acque). Ma non posso replicare una proposta del genere per altri lemmi, poiché tutti i lemmi con iniziale sara– da me inscritti nel Dizionario Etimologico hanno un significato diverso, peculiare al sito dove si trovano.

72) *Sil (P 128). EBF scopre che pure tale radicale è legato a fenomeni idrici (‘canale’, ‘piccolo ruscello’), diffuso anche in Spagna e persino sulle Alpi (Trentino, Friuli). Anche qui EBF non porta alcun esemplare, mentre io gli porto a soccorso Sili, sorgente di Gonnosfanádiga. Il lemma occorre pure in altri idronimi: funtana ‘e Silia (Aritzo), sorgente Silie (Talana), sorgente Silioái (Fonni), fiume Silis (Osilo), funtana Silitto (Bottida), rio di Silla (?) (Sìnnai), pozzo Sillì (Oristano), padule di Sila (CSPS).

Paulis ipotizza un collegamento di queste radici col pagus libico Sila, berbero tasellia ‘piccolo canale’, scitico Silis nome del Tanais e del Iaxartes, e numerosi idronimi europei con radice sil-. Al dilà delle parentele europee ed africane, Silí/Sili/Silis, ha un più antico referente nell’akk. salā’u ‘bagnare, innaffiare’ e principalmente col sost. medio assiro sil’u ‘lo sgorgare, il riversarsi’.

Ciononostante, diffido EBF dal credere che tutti i toponimi-idronimi comincianti col sil– abbiano significati idrici (vedi Dizionario Etimologico).

 

73) *Sol (P 128). EBF produce pure questa “base opaca” e non ne dice proprio nulla, facendo una sola ipotesi della quale, similmente, non dice proprio nulla. Mi chiedo a che serva tale stillicidio di ipotesi baluginanti senza prove! Nel Dizionario Etimologico si troveranno vari toponimo comincianti in sol-, la cui etimologia invece ha un senso, per quanto di volta in volta diversa, secondo l’occorrenza.

 

74) *Tala (P 128). Per EBF questa radice non è “opaca” poiché sarebbe una base idronimica diffusa dall’Iberia all’Anatolia. Secondo lui in Sardegna indicherebbe i ‘torrenti di montagna’ o i ‘luoghi bagnati da vene sotterranee’, come confermerebbero gli idronimi Taloro e Taleri (fiumi) nonché la Funtana Talake (la quale avrebbe il… suffisso di plurale).

Sono d’accordo per l’idronimo Talòro e il cognome Talu, i quali hanno la stessa base idronimica di Talàna, avente un confronto immediato con l’ebr. tall, tāl ‘elemento umido che feconda; rugiada’, aram. talah ‘rugiada’, bab. dālu ‘irrigazione’.
Confronto fra Paleosardo e Iberico

Sotto questo titolo, voluto da EBF, accorpo le “radici” da lui presentate e commentate; egli sostiene la “perfetta omonimia” tra radici iberiche e paleosarde. Vediamo adesso se la promessa sarà mantenuta.

75) Arki (P 117). Vista la forte ricorrenza del lemma in Spagna, è deludente il confronto fatto da EBF col solo oronimo sardo Arci, del quale peraltro egli non dà – ma questo accade spesso – l’etimo. Vedi il lemma al Dizionario Etimologico.

76) Bar (P 118). Anche qui il raffronto è pressoché impossibile, visto che EBF non produce esempi ispanici mentre produce i lemmi sardi Barkori, Barumele, Barùmini. Tralascio le ulteriori considerazioni da lui fatte, che non hanno niente di scientifico. Dei tre lemmi il lettore troverà la traduzione al Dizionario Etimologico, con l’avvertenza che soltanto Barcòri sembra attenere all’acqua.

 

77) Kere (P 118). Tra i dubbi espressi al riguardo da EBF, non riesco a districare molto su questo radicale, che soltanto avvicino a Cherémule, legato al lemma chèa, cèa (vedi Dizionario Etimologico).

 

78) Ili (P 118). Su questo radicale si è già detto a sufficienza. Ciononostante EBF fa un lungo discorso mirato (senza prova di sorta) a dimostrare che in Sardegna il radicale avrebbe lo stesso significato paleoispanico di ‘insediamento abitativo’. A me non consta affatto. Rimando a tutti i miei lemmi comincianti in Il– o Ili– nel Dizionario Etimologico.

79) Lako (P 119). I reperti iberici lako, laku, lakun, lakoś (dei quali EBF non porge l’etimo) sarebbero secondo lui una goccia d’acqua coi toponimi sardi Lakoni, Lakuni, Lakonei (che sono sempre la stessa cosa: equivalgono a Láconi). Tralascio il resto delle sue considerazioni, inaccettabili, e rimando il lettore a leggere l’etimo di Láconi al Dizionario Etimologico.

 

80) Bel(e)s/Meles (P 119-121). EBF trova corrispondenza “soprendente e perentoria tra l’antica Iberia e la Sardegna neolitica” nella serie bels, beles o beleś. Non so proprio che ci azzecchi la “trascrizione latina” di beleś in meles. O meglio c’entra, perché EBF vuole dimostrare che il segmento mele, nele del Paleosardo avrebbe la stessa derivazione latina (salvo il suo diritto di farci capire come una forma latina abbia contaminato una forma paleosarda, la quale è molto più antica della stessa Roma).

Finalmente EBF, dopo lungo tergiversare, dichiara che nell’onomastica aquitana il morfema paleobasco *bel ‘nero’ corrisponde ai lessemi belt ‘nero’, bele ‘corvo’ ed entra nei composti tipo arbel ‘pietra nera, lavagna’ ed orbel ‘foglie secche’. E trionfalmente dichiara che la forma iberica è trasmigrata in terra sarda, «dove è diventata estremamente produttiva nei nomi di luogo ‘privi di sole, oscuri’, a partire dai quali si è estesa anche nei cognomi. Come toponimo autonomo Mele compare già fra i villaggi medievali e persiste oggi a Benettutti come microtoponimo, e il cognome tipicamente barbaricino Mele (campidanese Melis) ne rappresenta la traduzione onomastica personale». E giù un profluvio di toponimi-idronimi sardi che darebbero il significato primitivo di ‘luogo oscuro, buio, privo di sole, esposto a nord’.

Naturalmente le sue dimostrazioni sono… indimostrate, perché indimostrabili. A salvaguardia dell’intelligenza del lettore, lo esorto a controllare e confrontare nel mio Dizionario Etimologico tutti i lemmi proposti da EBF nella sua inesauribile trafila. Li troverà quasi tutti, e saranno capaci di far saltare la sequela ascientifica.

Anzitutto, affermo che tutte le forme in Mele, Meli, Melis non hanno le stesse basi etimologiche. Secondo la giacitura ambientale, un toponimo in Mele può derivare dall’akk. mīlu(m) ‘piena stagionale’ (es. Bau sa Mela ‘il guado delle piene stagionali’); il toponimo Melòne può indicare il monte più alto della zona, con base nell’akk. mēlû ‘altezza, altitudine’. Il cognome Mélis, Méli, Mele, Meles si ricollega anch’esso all’akk. mēlû ‘altezza, altitudine’ (che evidentemente servì come appellativo delle ‘altezze’ reali). Lo ritroviamo infatti come nome proprio in Meles, re della dinastia eraclide regnante in Lidia, il quale nella tradizione di Nicola Damasceno (FGrH 90, 44, 11; 45; 46) dovette andare per tre anni esule in Babilonia per espiare l’omicidio compiuto da uno della sua casata.

Di Cherémule ho già scritto più su: esso non ha attinenza col “buio”. Delle forme in –nele (che non sono affatto imparentate con Mele!) ho ugualmente scritto, riconducendole spesso al paesaggio dominato dall’acqua (ma non dal “buio”!). Il toponimo Nule, parimenti, non attiene al “buio” (vedi Dizionario Etimologico).

A leggerlo bene, EBF pare un illusionista che giocherella con pochissimi lemmi – sempre gli stessi – ch’egli abbina e scambia sussiegosamente al fine di piegare il lettore ad accettare le poche (ma false) idee che i suoi maestri gli hanno propinato. In tal guisa, nelle pagg. 119-121 del suo libro non si salva neppure una delle ipotesi che propone quasi fossero certezze palmari.

81) *Ortu (P 122). Di tale lemma ho già discusso al punto 24).

 

82) Sine (P 123). Questa radice iberica (di cui EBF non dà la traduzione) è da lui confrontata coi toponimi sardi Sini, Sinis, Sìnnai. Poiché egli non dice nulla al riguardo, non resta che rimandare alle mie traduzioni nel mio Dizionario Etimologico.

 

83) Tortin (P 123). EBF sostiene che tale base iberica apparirebbe in più toponimi orientali sardi, in particolare a Tortolì. Non è chi non veda la grande distanza fonetica tra Tortin e Tortolì. Ma vedi quest’ultimo toponimo nel Dizionario Etimologico.

 

84) Turki, Urki (P 123). Secondo EBF, gli studiosi di sostrati paleoispanici assegnano ai due lemmi lo stesso significato di ‘fortezza’. Quanto alla variante Tuturki proposta da EBF, essa designerebbe un ‘complesso roccioso con più concavità, entro le quali scorre l’acqua dei torrenti’. Andiamo con ordine, anche per dimostrare che la questione non presenta la semplicità scolastica proposta da EBF.

Turchi è cognome in Olièna. Non va taciuto un fenomeno del carnevale di Ollolái con le maschere chiamate Turcos, Truccos. Come accade a Lodè, queste appartengono alla categoria di sas maschera nettas (mascheramento senza tingere il viso di carbone). Esse sono quindi di foggia modernizzante. Ricercare l’etimo di questo termine non è semplice. Non è pensabile d’individuare tali maschere nei Turchi, anche perché Ollolái sta esattamente al centro della Sardegna, al centro di una selva di montagne, e le bande musulmane che per 1000 anni sono sbarcate in Sardegna non si sono mai spinte così a fondo. In seconda opzione turcos può sembrare un termine italianizzante: trucco; ma neppure questa soluzione sembra accettabile, vista la banalità. È meglio pensare a una paronomasia. In tal guisa truccos, turcos può essere un composto sardiano con base nell’akk. ṭīru (un genere di albero o cespuglio) + uqqu ‘paralisi’: ṭīr-uqqu > (ī)r-uqqu, col significato di ‘paralisi o morte delle piante’. Il riferimento alla morte e rinascita della Natura, mimata in tutti i carnevali barbaricini, è evidente. Con tutta onestà, per questo cognome non può scansarsi neppure un’altra etimologia, dal sum. tur ‘stalla, ovile’ + ku situare’: tur-ku, col significato di ‘luogo di ovili’. Nei dizionari semitici non trovo il menomo riferimento alle ‘fortezze’.

Quanto al paleoispanico Urki, in Sardegna abbiamo dei toponimi similari. Ad esempio, Urcéi, Urcéni toponimo di Osìni, situato nella montagna carsica. Pittau (OPSE 222) fa un lungo elenco di toponimi del genere (es. nuraghe Urcéni), tutti oriundi, a suo parere, dalla forma etrusco/latina Orcus ‘il regno dei morti’. La proposta ha il merito di affrontare dei lemmi altrimenti incomprensibili. È tipico di Osìni e dei paesi contermini avere abbondanza di rocce calcaree, le quali, nei momenti di grande pioggia, emettono dei grossi fontanili che agli antichi abitanti davano l’impressione di scaturire dall’oltretomba. Anche Semerano propone (PSM 85) una forma etrusca simile, urχ, da cui fa derivare lat. urceus, orca, col significato di ‘acqua, ruscello’. Sin qui non ho reperito alcun semantema che appalesi la ‘fortezza’ o una roccia ad essa simile. Vediamo adesso una terza occorrenza sarda.

Orca, Orcu è termine notissimo in Sardegna, rimasto a connotare parecchie domus de janas, tombe di giganti, persino nuraghi, chiamati domu ‘e s’orcu e interpretati come ‘casa dell’Orco’. Turchi 31-33 narra di ricordi fiabeschi, di comunicazioni verbali inviate da un nuraghe all’altro dalle fate, che secondo tradizione vi dimoravano. Uno dei racconti riguarda il nuraghe Sumbòe presso Ghilarza. «Si dice che un uomo avesse gridato al compagno, che stava un po’ distante, di voler andare al nuraghe Sumboe. Udendo ciò una fata uscì dal nuraghe di Trubeli e gli disse: Si es chi andas a Sumboe / nara a tiu Balloe / chi sa fiza est morta oe. / Oe non m’aperit chiza / che l’est morta sa fiza. (‘Se tu vai a Sumboe, dì a zio Salvatore che oggi è morta la figlia. Oggi non riesco a sollevare le ciglia perchè è morta la figlia). Anche il paese di Cabras rammenta un messaggio di morte che viene inviato da un nuraghe all’altro: De s’uraghe de Sianeddu / a s’uraghe de Zianneddu: / naraddi a sa ‘omai Orca / ca sa fiza sua est morta (‘Dal nuraghe di Sianeddu a quello di Zianeddu: riferisci a comare Orca che sua figlia è morta’)». L’abitatrice di quest’ultimo nuraghe è chiamata comare Orca (vedi lat. Orcus, divinità degli Inferi). «Questo pone la jana-fata-orca in diretta comunicazione col mondo dei defunti, dandole chiare connotazioni sciamaniche» (Turchi 31).

La Turchi non va oltre nell’indagare la vera natura dell’Orca o dell’Orco in Sardegna. Sappiamo che la divinità latina degli Inferi fu facilmente trasformata e plasmata, nell’immaginario popolare, ad opera del clero cristiano, come un essere terribile che vive nelle tenebre, nelle caverne, e si appalesa per mangiare i bambini. Semerano OCE II 496 ricorda che Orcus è tout court l’Averno, la «personificazione del dio dell’Averno. Se ne ignorò l’origine. Antico Uragus, secondo Verrio Flacco (ap. Fest., 222, 6). Sum. urugal (Orco, Averno, il mondo sotterraneo…), con la normale caduta di –l finale per suggestione della base di sum. urku ‘cane’; cfr. sum ur-gi, ur-ki ‘cane’, e si pensa a Cerbero».

Semerano fa un’analisi abbastanza giusta della base etimologica, ma non rende conto delle ragioni che affiancano al sumero ur-ku (letteralm. ‘cane della caverna’), al lat. Orcus ed al sardo Orcu anche l’it. Orca ed il sardo Orca, la cui etimologia è diversa. Che al femm. Orca fosse stata confermata la stessa origine etimologica del masch. Orcus, andò bene anche al clero cristiano, che volle fare dell’Orca un tenebroso essere delle caverne; ma occorre comprendere che Orca è originariamente la ‘Dea Luna’, chiamata dagli antichi accadici Urḫu(m), (W)arḫu(m).

Non c’è da dilungarsi sull’importanza della Dea Luna per i popoli post-neolitici (e pre-cristiani). «Pare che gli abitanti dell’Europa antica (e, aggiungo io, dell’Anatolia e della Mesopotamia) venerassero il ciclo completo di nascita, morte e rinascita nella forma di una “grande” dea. Diversamente dalle prime culture storiche, molte delle quali adoravano le dispensatrici della vita (per esempio la greca Afrodite) mentre trascuravano di rendere onori alle portatrici di morte (per esempio, sempre in Grecia, la Gorgone Medusa), gli Antico-Europei non dividevano la grande dea in parti “buone” e parti “cattive”. La dea era una-e-molte, unità e molteplicità. La dea ibrida uccello-serpente era la grande dea del continuum vitale, la dea della nascita, della morte e della rinascita, creatrice e distruttrice, fanciulla e vecchia, una dea che nel fiore degli anni sposava il giovane dio nello hieros gamos, le “nozze sacre”, e faceva nascere – per l’eternità – tutto il creato» (Gimbutas 27). In questa dea (che poi non è altra che la Grande Madre dell’Universo) fu identificata per antonomasia anche la Luna. Ecco la ragione onde il clero cristiano, nell’intento di cancellare e denigrare le religioni precedenti, fece il piccolo sforzo di tramutare Urḫu ‘la Luna’ in Urku ‘(l’orribile) cane che vive nella caverna degli Inferi’.
Semantica del Paleosardo

Nel § 5.7.1 (pp. 129-133) EBF fa una lunga tirata riepilogativa nel tentativo di operare «un breve collaudo di Semantica referenziale». A modo suo, annaspando nella totale ignoranza degli ambienti geografici della Sardegna, non fa che ripetere, condensandolo, tutto quanto abbiamo saputo sinora circa le «straordinarie concordanze denominative esistenti fra Paleosardo e lingue dell’antica Iberia». Egli abborraccia in tal guisa tutta la serie di luoghi comuni cui ci ha abituati, distillati in gran parte dai suoi maestri ma da lui fermentati e portati alla nostra attenzione come verità inconfutabili, dalle quali non si potrà mai più prescindere nell’analizzare la toponomastica sarda, la quale, a sua detta, ebbe origine dal pensiero dei popoli iberici, i quali portarono in Sardegna semenza e cervello, soppiantando ogni e qualsiasi barlume espressivo del popolo che (putacaso) potesse avere abitato previamente l’isola.

Invito il lettore a non indugiare, a penetrare risolutamente negli abissi del Blasco-pensiero, al fine di conoscere le mani che tengono saldamente le redini della cultura sarda.

A chiusura del suo paragrafo, EBF elenca i settori nozionali nei quali inquadra i radicali che, mercè il suo libro, lo renderanno famoso.

  1. Idronimi: *korr-, gava, *is o itz, istil, iturri, lats, mara, orga, *osa, *pal, *sala, *sara, *sil, *tala, ur.
  2. Nomi di monti, colline, terreni, gole, valli, formazioni geomorfiche varie: (h)aran, (h)artz, baratze ‘campo, salto, orto’, bide, *kar(r)a, *kuk, ertz, *gaillur ‘cima’, *(g)obi, logi, lur, mokor, nava, ona, *ortu, turki.
  3. Animali e i loro prodotti: ardi, artile, mando, con notevoli problemi ricostruttivi anche azari ‘volpe’.
  4. Tipologie insediative: *nur, ola, iri e ili, anche berri come aggettivo per ‘nuovi insediamenti’.
  5. Flora: (h)aritz ‘rovere’, arte ‘leccio’, orri e osto, *ospe, zuzun.
  6. Caratteristiche cromatiche e geofisiche: odol, gorri, (h)otz, mele/nele, on, zuri.

 

Vale la pena ribadire l’essenza del Blasco-pensiero, da lui stesso distillata alla fine del § 5.7.2, dove emerge che le componenti del Paleosardo sono schematicamente, in ordine d’importanza:

– Paleobasco, del quale mette a confronto un centinaio di lemmi,

– Iberico, del quale mette a confronto una decina di lemmi,

– Periindoeuropeo

– Paleoindoeuropeo.

Queste due ultime definizioni (dalle quali secondo lui non è possibile sceverare alcun lemma della lingua arcaica) sostituiscono in toto le vecchie nozioni di Protosardo, Prelatino, Mediterraneo e simili, ma al pari di queste hanno la medesima funzione: quella di creare delle botole buie, senz’aria, entro le quali la vera Lingua Sarda delle Origini è rinchiusa a catenaccio, destinata a marcire per sempre in incognito, almeno nelle intenzioni di Eduardo Blasco Ferrer.


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