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1. Premessa
MUSICUS. Questo aggettivo latino ha base etimologica nel babilonese muṣiḫḫu(m) ‘clown, buffone’. Il termine nel Mondo Antico fu pressoché universale, ma i Greci lo mutarono semanticamente, proponendo l’aggettivo μουσική (sc. τέχνη) come ‘arte delle Muse’. In tal guisa essi operarono sulla Koiné mediterranea due innovazioni: 1. la prima fu di proporre μουσική come aggettivo, cancellando l’antico nome; 2. la seconda fu d’inventare la retroformazione Μοῦσαι, individuando le Muse quali dée ispiratrici del canto (esse precedentemente erano chiamate Mneíai, ed erano soltanto tre).
In verità, la musica arcaica comprendeva, oltre al clown, anche la poesia e la danza: tre ruoli pari al numero delle Mneíai, ‘quelle che hanno memoria’, dalla radice greca μνη- ‘ricordare, tenere a memoria’, essendo la memoria la conditio sine qua non per chi si dedicava – senza l’ausilio del testo – alla recita, al canto, alle narrazioni epiche, oltreché alle complesse figure della danza. Quindi una compagnia di mùsici, attori girovaghi che andavano per corti e borghi a rallegrare nobili e plebei, conteneva almeno queste tre specialità. Ovviamente, l’attore comico (il muṣiḫḫum per antonomasia) poteva anche integrarsi, a momenti, nelle altre componenti.
Paleolitico e decontestualizzazione. La storia delle letterature ci presenta fin dagli esordi la mùsica ed il mùsicus. In Genesis IV 19-22, Juval è l’antenato di coloro che suonano kinnor e ʼugav. Secondo quanto è scritto, egli inventò gli strumenti musicali a fiato e a corda. Questo è il mito; il quale sèguita con la nascita di Tuval-Kain, fabbro produttore di armi metalliche taglienti. E qui siamo, evidentemente, all’Età del Rame; nella quale indugiamo per individuare la forma reale del kinnor ebraico, il quale altro non fu che il kinnârum, una sorta di lyra già in uso, ad esempio, a Mari 4700 anni fa. Il suo nome deriva dall’antico semitico, e lo ritroviamo anche in ugaritico.
I Greci non furono meno fantasiosi degli Ebrei nell’esigenza di spiegare l’origine della musica. E insistettero ad inventare vari miti, compresi quelli di Apollo e dei semidei cantori Orfeo, Lino, Museo, Anfione, Arione, i quali s’accompagnavano con strumenti tipo arpa e kythara: queste figure di déi e semidei apparvero già dotate di strumenti raffinati: strumenti quindi decontestualizzati, attualizzati, metastorici. Aleggia tra le nebbie metastoriche anche la data di nascita del filosofo-matematico Pitagora, il quale pare scoprisse le potenzialità armoniche degli utensili non destinati alla musica. Ascoltò ad esempio il fabbro usare martelli con diverso suono, e intuì che la massa entrava in gioco, producendo suoni più acuti col suo diminuire. Pitagora è considerato il primo ad aver capito che l’altezza d’una nota è proporzionale alla lunghezza della corda che la produce, e che gl’intervalli fra le frequenze sonore sono semplici rapporti numerici. E qui, osservando il fabbro di Pitagora, ci accorgiamo d’essere già all’Età del ferro, allorché entra in azione anche David, il re cantore-salmista che fin da quand’era semplice garzone usava placare col canto e con l’arpa quel pazzo di Saul. E prima di loro due, abbiamo le trombe metalliche che fecero crollare le mura di Gerico.
Da tali miti decontestualizzati, per quanto ci sforziamo, non ricaviamo nulla che ci consenta d’anticipare la musica all’Età paleolitica. Eppure fu allora che nacque la musica1. La canna e l’osso cavo di un piccolo animale concorsero tra loro alla nascita del primo strumento a fiato; le minugia di capra e montone si prestarono alla produzione delle prime corde per cetra, cui seguirono le corde sovrapposte alle casse armoniche; un tronco cavo dette inizio agli strumenti idiofoni: tamburi, timpani, nacchere e altro. Una semplice vescica di verro dette inizio alla serie dei membranofoni. Non ci fu bisogno d’aspettare il Neolitico per creare tutto ciò. Una pletora di strumenti (sardi e non, tuttora in uso in Sardegna, ed anche per il vasto mondo) ci ricordano l’arcaico retaggio paleolitico che ogni musicista si porta appresso.
In tal guisa perveniamo alla scoperta che la triplepipe era esibita già 1000 anni fa in una decina di chiese gaeliche e anglosassoni: scolpita in bassorilievo come strumento fonico d’accompagnamento al canto ed a vari strumenti, identica alle launeddas della Sardegna. Con un quesito pendente: chi introdusse colà la triplepipe, se 2000 anni fa la Arundo donax nell’arcipelago britannico non esisteva? Sappiamo che i Sardi furono arruolati normalmente nelle legioni dei territori di confine. Anche in Gallia troviamo una parola sarda (brebis < brebéi). Facile immaginare che i Sardi, oltre ad essere emigrati con qualche gregge nella Linguadoca in periodo di siccità, si portarono appresso in Britannia gli strumenti utili all’ozio, all’arte, al sacro, al divertimento.
Le launeddas attecchirono anche in Britannia, ma certamente non ebbero origine né in Britannia né presso la cultura più antica del mondo, quella egizia, poiché dall’amplissima documentazione egizia noi estrapoliamo soltanto la doppia canna. Le launeddas (la triplepipe) erano un prodotto sardo, null’altro, e provengono dal Paleolitico.
Il pensiero greco. Noi di cultura occidentale attingiamo facilmente al pensiero greco per individuare, oltre agli strumenti, l’essenza stessa della musica: ricaviamo tale essenza dalla teoria dell’armonia delle sfere, che istituiva rapporti musico-matematici fra le orbite descritte dai pianeti intorno alla Terra, per poi ricavarne affinità simboliche fra l’armonia del macrocosmo e quella del microcosmo umano fisico e mentale.
Secondo Pitagora, il Sole, la Luna, i pianeti, per effetto dei loro movimenti di rotazione e rivoluzione, produrrebbero un suono continuo, impercettibile dall’orecchio umano, e tutti insieme produrrebbero un’armonia. Di conseguenza, la qualità della vita sulla Terra sarebbe influenzata dai suoni celesti.
OHMM, la voce di Dio. Però anche gli Orientali pensarono in modo simile, e la filosofia buddista ci ammonisce a cantare continuamente OHMM per stare immersi nell’armonia universale, la quale è resa possibile da questo suono che echeggia fin dalla nascita dell’Universo, anzi è esso stesso ad aver creato l’Universo ed a sorreggerlo. OHMM è la voce di Dio.
E così nel mondo greco il cosmo era paragonato a una scala musicale. In seguito Platone descrisse l’astronomia e la musica come studi gemellati per le percezioni sensoriali: astronomia per gli occhi, musica per gli orecchi, ma entrambe riguardanti proporzioni numeriche. Egli, inoltre, appoggiò l’idea della musica delle sfere nel dialogo “La Repubblica”, nel quale descriveva un sistema di otto cerchi e orbite per i corpi celesti: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna, che si distinguono in base alle loro distanze, al colore, alle velocità di rivoluzione.
La Sardegna non vanta pensatori come Platone o Boezio, non curò una letteratura precristiana, non tramanda alcun mito relativo alle origini della propria musica. Ma la sua cultura fece parte sicuramente di un mondo assai vasto ed omogeneo, che s’allargava fino all’Oriente. Infatti quell’armonico OHMM dei buddisti lo si avverte anche oggi nel canto dei bassi nei quartetti sardi “a tenore”, e lo ritroviamo persino nella lingua sumerica (uma), col significato di ‘trionfo’. I monaci buddisti cantano perennemente il trionfo del Dio dell’Universo. I cantori Sardi lo fecero nel passato, e lo fanno ancora.
Altamira e Lascaux. Il canto e la musica erompono per l’esigenza dell’uomo di stare a contatto fisico con Dio. Un’esigenza profonda. Troviamo le prime manifestazioni di riti musicali addirittura nelle incisioni rupestri di Altamira e Dordogne (Lascaux), che mostrano anche forme di danza. Va da sé che l’uomo legò i suoi canti anche alla sua attività principale, la caccia e, in seguito, nel Neolitico, al calendario agricolo. Esistono ancora oggi in Europa canti legati direttamente al calendario agricolo (come il tratto marzo, la canta dei mesi, i maggi, i canti di carnevale, ecc.). Parimenti, esistono i canti legati all’esistenza (i riti di fertilità, le ninne nanne, i lamenti funebri, le rime e i giochi infantili, i canti d’amore e nozze, ecc.). La Sardegna ne conserva moltissimi ancora vivi. E sopravvivono anche le memorie archeologiche; sopravvivono altrove, e pure in Sardegna (es. su ballu tundu scolpito nella chiesa romanica di Santu Bakis a Bolòtana).
Il Salterio. Sembra che nella vita musicale cananea la musica di danza abbia rivestito un ruolo particolarmente importante. Su una roccia del Neghev è scolpita l’immagine di un complesso strumentale composto da alcune lire e da un tamburello. Le strumentiste, svestite, accompagnano una danza circolare eseguita da uomini. Il bassorilievo risale al II millennio a.e.v.; la danza raffigurata è detta dabka, come quella odierna dei popoli cananei (ebrei, arabi, etc.): una danza gioiosamente viva, espressa nei matrimoni e in occasioni di festa. Ma, come accennato, la musica si perde nelle caligini del tempo, ed oggi è impossibile andare a stabilire, per esempio, l’incipit del Salterio. Come i suoi vicini dell’Egitto, della Mesopotamia, di Canaan, Israele ha praticato fin dalle origini la poesia lirica in ogni forma, e ciò è maggiormente vero per le pratiche del Tempio. A parte gli Inni – di cui tratterò nel cap. 4 a proposito de sa cantzòni – certi brani lirici si trovano inseriti anche nei libri storici: il cantico di Mosé (Es 15), il cantico del pozzo (Nm 21, 17-18), l’inno di vittoria di Deborah (Gdc 5), l’elegia di David su Saul e Gionata (2Sam 1). Ma il grande tesoro della lirica ebraica occhieggia dal forziere del Salterio, il quale ha letteralmente inondato di sé la cultura occidentale. Non c’è momento della giornata ebraica nel quale il Salterio non affiori insistentemente. Anche Gesù cantava. Ciò è ricordato da Mt 26, 30 (… E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il Monte degli Ulivi…); lo stesso è narrato da Mc 14, 26.
Cos’è la “cultura”? Si ha un gran parlare oggi sulle origini colte della musica o, al contrario, sulle origini popolari, quasi che i due capi si possano districare. Impossibile: i due fenomeni hanno sempre vissuto in simbiosi, sono come Giano bifronte. Certamente il travaso di musica colta si noterà in America nella square dance contadina, che attinge alla quadrille della corte francese; si nota nello scottis gallurese, ripreso nell’Ottocento dall’elegante ballo di corte francese; il bel canto dell’opera italiana si ritrova nelle melodie delle canzoni popolari di villaggio, persino in un canto sacro della Settimana Santa in Cagliari. Numerosi canti popolari tedeschi in origine erano melodie colte, a volte di autori illustri, come Franz Schubert, Karl Maria von Weber. Ma il fenomeno è, tutto sommato, contenuto e facilmente isolabile. Al contrario non va dimenticato che è proprio tra i poveri e gli emarginati che all’inizio del Novecento sono nati generi musicali tanto diversi e vitali come il rebetico (Grecia), il croncong (Indonesia), il reggae (Giamaica), il tango (Argentina), il fado (Portogallo), il ragtime, il blues, il jazz (USA).
Su un piano diverso stette la tradizione dei canti epici omerici, che rimasero vivi grazie ad aedi e rapsodi analfabeti, e la cui emula ed erede fu la ballata popolare in onore di questo o quel bandito, come può essere in Sardegna la Corsicàna còrso-gallurese, le ballate britanniche dedicate a Robin Hood, le canzoni brasiliane dei Cangaceiros, i canti kleftici greci. Tutti brani solistici sortiti da un codice d’onore che contemplava il bandito come uomo perseguitato in quanto protettore degli umili, unica forma di difesa e ribellione alle prepotenze delle classi dominanti e dello stato usurpatore.
Non fu rara una voga contraria. Nella società irlandese del Medievo il bardo era spesso un colto poeta in residence presso una famiglia nobile col compito di celebrare in poesia e musica la storia del padrone e di tutta la sua stirpe. Situazione non dissimile da quella dei griots africani: poeti e musicisti (praise singer) dell’Africa occidentale (in Senegal portano il nome di djeli o gawlo), a volte menestrelli e stregoni al tempo stesso, che cantano storie epiche di gruppi etnici differenti (con la genealogia dei loro capi). Così operarono molti aedi Greci.
Il Medioevo e l’Età moderna. Le musiche afferenti ai centri di cultura medievali – corti, monasteri, cattedrali, anche città – sono la prova che anche i ceti colti, innovatori, borghesi non rinunciavano a coltivare una forma d’arte innata, fortemente radicata nella stessa spiritualità di ogni vivente. La musica era stata curata anche nel Tempio di Salomone, ed ovviamente nei templi dell’Antico Egitto. E non fa meraviglia che plebei geniali fossero attirati dai sacerdoti per affinarsi e produrre musica migliore sotto l’egida del Tempio. Quindi è un po’ ozioso discutere se la musica del mondo fosse ordinariamente tribale, rurale, di villaggio, o cittadina.
«La nozione della città quale crogiolo culturale, legata alla vita urbana del Novecento, non era ancora evidente nel Medioevo, quando il dominio della musica ufficiale da parte della Chiesa forniva una certa omogeneità. Tuttavia, corporazioni e gruppi professionali tendevano a occupare determinati quartieri o strade, cosicché, secondo Lawrence Gushee [1980], la Parigi medievale contava una nutrita popolazione di musicisti laici, le cui residenze si concentravano in una zona specifica; ciò parrebbe suggerire che la vita musicale disponesse di un proprio retroterra organizzato. Senza dubbio, l’afflusso degli studenti nelle prime università e la loro tendenza a raggrupparsi secondo l’appartenenza linguistica ed etnica fornì un’occasione per la coesistenza e la commistione delle diversità musicali. Nella Praga dei Seicento, l’esistenza di un esteso ghetto ebraico esercitò fondamentale influenza sulla vita musicale, in quanto la folta popolazione di musicisti ebrei forniva musica anche al settore cristiano e si poneva in competizione con i suoi musicisti, tanto che se ne dovettero limitare il numero e le opportunità professionali.
Nell’Europa rurale, la vitale tradizione delle ballate popolari, perpetuata per tradizione orale e dipendente – all’interno di un repertorio costante – dalle variabili creative individuali, veniva affiancata dalla crescita in ambito urbano della tradizione delle ballate circolanti a stampa, che a poco a poco cominciarono a sostituire il repertorio trasmesso oralmente. Queste ballate, indicative delle crescenti istanze urbane di radicale innovazione – ma anche di omologazione – erano composte in stile popolare da musicanti cantastorie, stampate e vendute a vile prezzo per le strade con l’intento di testimoniare, romanzare e dibattere le ultime notizie della vita politica e sociale, nonché di commentare gli avvenimenti quotidiani…
Quando tra Cinque e Seicento si svilupparono in Europa centri urbani di considerevole dimensione e indipendenza, tali ballate fondarono tradizioni proprie e, dal momento che il contatto e le comunicazione interurbana erano assai limitati (in confronto a ciò che accadrà ad esempio nel Novecento), ognuna ebbe una storia autonoma. Così l’ascesa nella Norimberga del Cinquecento di una borghesia artigiana – che applicò anche alla vita musicale il sistema corporativo – potenziò la tradizione dei Maestri Cantori, fantasiosamente raccontata da Wagner. Ancora un caso significativo: peculiari della vita musicale veneziana tra fine Cinquecento e primo Seicento furono l’adozione dei cori spezzati e l’organizzazione di spettacolari concerti corali, pratiche legate alle vaste proporzioni e alla struttura della basilica di san Marco; intorno al 1640 vennero altresì inaugurati parecchi grandi teatri d’opera aperti al pubblico pagante, che divennero il fulcro dell’attività musicale cittadina…
Compositori e direttori d’orchestra italiani erano sparsi per l’Europa, e le biografie dei musicisti indicavano frequenti trasferimenti, senza riguardo per i confini nazionali. È questo il caso della cosiddetta diaspora boema, avvenuta soprattutto nel Settecento, nella quale Cechi e Tedeschi della Boemia la fecero da padroni nella vita musicale delle città italiane, francesi, tedesche e inglesi. Ciononostante molte città europee tendevano a mantenere una pratica culturale essenzialmente monoculturale, a dispetto della crescente diversificazione etnica dei loro abitanti; peraltro, la vita musicale di luoghi multiculturali popolari quali i quartieri portuali è stata difficilmente registrata nelle cronache.
Nella sua descrizione della città di Lipsia intorno al 1700, Arnold Schering [1926] ha ben illustrato la ricchezza della vita musicale dell’epoca e l’interazione fra le sue componenti. Tutte le istituzioni, incluse le chiese, le scuole, le università e i municipi, fornivano sedi, occasioni e finanziamenti per concerti e opere, riti religiosi e cerimonie laiche; ma la musica d’arte e quella popolare venivano praticate anche in casa e in ambienti informali come le strade, le piazze, le taverne. Le festività del calendario venivano contrassegnate da eventi musicali ufficiali. La città era il centro dell’editoria (una delle principali specialità di Lipsia) e dei progressi nella costruzione di strumenti musicali. Il repertorio eseguito a Lipsia in quell’epoca sembra per lo più tedesco, ma vi figura anche una buona quantità di musica francese e, in proporzioni minori, italiana; i musicisti erano prevalentemente tedeschi»2.
Sistema diatonico, antìfona, responsorio. Qui sopra ho sintetizzato un racconto della fioritura musicale che ha fatto grande il popolo germanico e quelli contigui. Ma non mi compete di scavare minuziosamente, ad esempio nelle produzioni di J.S. Bach, per evidenziare la quota di melodie che lui trasformò attingendole dal repertorio popolare. Béla Bartόk rimase sempre legato all’idea che la musica popolare fosse essenzialmente un fenomeno legato alla vita agricola e contadina. E Karl Marx affermò3 che la stampa, la locomotiva e il telegrafo stavano contribuendo a eliminare le condizioni necessarie per la sopravvivenza della musica tradizionale (si riferiva in particolare ai repertori epico-lirici, ciò che in lingua inglese si chiamava balladry)4.
Questa citazione su Karl Marx rinvia alle musiche di cui abbiamo primamente notizia. Non va dimenticato che il cospicuo corpus delle metriche greche, a cominciare dalla metrica omerica, non fu altro che un corpus di notazioni musicali relative al ritmo e alle cadenze foniche. Nella Grecia classica, ancora più in quella arcaica, non ci fu composizione poetica che non richiedesse l’accompagnamento del canto, del quale non conosciamo purtroppo la melodia, mentre è accertato che la composizione avesse un ritmo e un metro peculiari. L’elemento di continuità tra il mondo della civiltà musicale ellenica e quella dell’Occidente europeo è costituito principalmente dal sistema teorico greco, che fu assorbito dai romani e da essi trasmesso al Medioevo cristiano. Il sistema diatonico, con le scale di sette suoni e gli intervalli di tono e di semitono, tuttora alla base del nostro linguaggio musicale e della nostra teoria, è l’erede e il continuatore del sistema musicale greco. Altri aspetti comuni alla musica greca e ai canti della liturgia cristiana nei primi secoli dell’Era volgare furono il carattere rigorosamente monodico della musica nonché la sua stretta unione con le parole del testo.
In ogni caso, dobbiamo valutare criticamente l’antifona ed il responsorio medievali (composizioni poetiche cui è connaturata una contrapposta risposta antagonista), poiché essi sono arcaici quanto la stessa cultura mediterranea. La struttura spesso speculare di molti salmi ebraici rende probabilissimo che la tecnica esecutiva antifonale abbia origine proprio dalla musica degli antichi ebrei. E questa a sua volta ci rinvia alla poesia ugaritica. In ogni modo fu proprio la tradizione ebraica, e non altre, ad essere stata pienamente assorbita dalla tradizione cristiana medievale. Quindi vanno ridimensionati gli aspetti musicali che si presumono provenire dalla corte di Bisanzio, in quanto essi stessi sono eredi dell’antica musica ebraica.
Pari valutazione critica ci compete sul canto gregoriano. Per molto tempo si è ritenuto che il repertorio di canti dell’Antifonario impiegato nella Chiesa di Roma (Repertorio franco-romano) fosse stato composto da papa Gregorio Magno; in realtà quel canto è l’ultimo prodotto di una storia secolare, e con Gregorio ha poco o niente da spartire, anche perché ai tempi di Gregorio (590-604) la notazione musicale non esisteva ancora. Tale canto – pure senza notazione ma continuando la tradizione orale – iniziò comunque a imporsi fin dall’VIII sec. sugli altri repertori (ch’erano il gallicano in Francia, mozarabico in Spagna, ambrosiano a Milano, beneventano, etc.). Le prime tracce di notazione musicale risalgono al IX sec., ma i primi veri e propri libri di canto notato compaiono a partire dal X secolo. Ed è sul finire di quel secolo che Guido d’Arezzo inventò la notazione ancora oggi in uso.
Il parallelismo, la metrica, s’arrepentìna. Come si può notare, un filo mai spezzato unisce le espressioni musicali mediterranee fin dalle arcaiche origini, alle quali la Sardegna non rimase estranea. Tornando alla musica greca e all’eredità che essa trasmise, dobbiamo rimarcare che aspetti similari a quelli greci aveva avuto la musica ugaritica, la quale appare al mondo molto prima di quella greca, ed oggi si rivela singolarmente affratellata alla stessa musica ebraica. Come per le altre musiche antiche, la sua melodia è ignota, e sopravvive soltanto la fenomenologia della scrittura poetica, particolarmente raffinata, dalla quale arguiamo le discipline metriche, quale la tecnica del parallelismo. Le singole unità poetiche (stichi o cola), appaiate o raggruppate dalla tecnica del parallelismo, costituiscono ciò che può essere identificato come il “verso poetico”. Le relazioni esistenti tra queste unità poetiche o stichi non sono uniformate, così come non è uniformato il parallelismo di cui esistono alcuni tipi: tetico o sinonimico, antitetico o antonimico, espanso, grammaticale, fonetico. Questa relazione sarà più o meno stretta a seconda che le parole, nei due stichi, siano tra loro più o meno corrispondenti nel significato, nell’ordine con cui appaiono e nella funzione sintattica. Uno degli elementi che maggiormente partecipa a creare queste corrispondenze è costituito dalle “paia di parole parallele”, molto spesso stereotipate nell’uso: “campo / steppa”, “dare / donare”, “sacrificio / libagione”, “cuore / fegato”, “cieli / terra”, “mangiare / bere”, “vedova / orfano”, etc. Nessuna meraviglia che questo parallelismo resti ancora vivo, dopo parecchi millenni, in una tecnica poetico-canora della Sardegna nota come arrepentìna.
Tale parallelismo, unito alla metrica, fu un fenomeno condiviso nel Mediterraneo, ed occhieggia a modo suo e con altri fini anche in molte immagini stereotipe di Omero (es. Éra occhio-di-bove). Piuttosto, non si è affatto analizzato un fenomeno connesso al parallelismo, quello dell’omofonia (vivissimo nell’arrepentìna). Ad esempio, tra i Sumeri ed anche tra i Semiti moltissime parole con semantica simile ma differenziata avevano la stessa fonetica (es. sum. de ‘to bring’ ma anche ‘to pour, versare’; e ‘barley’ ma anche ‘chaff, pula, loppa’; gu ‘to eat’ ma anche ‘voice’; kaš ‘birra’ ma anche ‘urina’ per il colore; kur ‘to burn’ ma anche ‘wood’ in quanto materia che brucia). Questo fenomeno linguistico, comune peraltro a molti popoli, aveva portato certamente fin dai tempi precristiani alla rima finale nel verso (oltreché alla rima interna), fenomeno che rende molto più musicale un verso già di per sé ritmato. Purtroppo noi letterati, senza riscontri documentali probanti, arriviamo a “scoprire finalmente” la rima soltanto nei testi scritti dell’Alto Medioevo. Però è intuitivo che un verso senza rima non poteva esistere, era la naturale conseguenza del fatto che anticamente ogni verso veniva cantato, e la rima era la componente essenziale della musicalità del verso. Questo fenomeno si tramanda da millenni nella musica sarda.
I Damai. Appare meraviglioso che questi processi, questi fenomeni, ebbero sempre il popolo come molla primaria. E se i rapsodi omerici – gente per lo più cieca e di umile origine – raccolsero e “ricucirono” la memoria delle singole gesta principesche, dandogli metrica e musica e cantandole nelle corti e dappertutto, ciò è prova che dappertutto nel mondo furono i poveri a creare la musica ed a trasmetterla, essendo spinti a mendicare dal bisogno.
Questo fenomeno è rilevabile anche altrove. In Nepal una casta di sarti-musicisti per via ereditaria, chiamati Damai, praticano ancora oggi la musica al servizio delle classi superiori. Questi musicisti, collocati al fondo della gerarchia sociale, si distinguono non solo per la sonorità tipica dei loro complessi, ma anche per il ruolo che svolgono all’interno della comunità e per il modo di concepire la pratica musicale. Essi sono responsabili della componente sonora di svariati avvenimenti rituali. Suonano nei templi in occasione del puja (gesto rituale di offerta e venerazione), sono presenti soprattutto nello svolgimento dei riti di passaggio, come il matrimonio o il vratabandha (rito di passaggio al mondo adulto dei maschi adolescenti di casta superiore) e guidano le processioni del phulko doli (offerta dei fiori) e del kul devata (cerimonia di adorazione delle divinità di famiglia). I Damai suonano per tutta la comunità in occasione di feste musicali, ma anche per circostanze familiari di minor rilevanza. Sono anche musicisti titolari di alcuni templi.
La musica religiosa suonata nei templi nepalesi viene spesso identificata col termine generico pujako dhun (brano del puja); ma si trovano anche altri titoli più specifici. Si tratta di una musica che ha la funzione di offerta e invocazione nel corso di un rituale che si svolge nel tempio. Quel brano musicale ha la stessa valenza della recita del mantra, delle offerte e dei sacrifici. Esso stabilisce un legame con la divinità. L’intenzione del musicista non è semplicemente quella di fare musica, ma di suonare per invocare la divinità. In un tale contesto, solo i legami tra i fattori cerimoniali e la divinità hanno importanza. Il brano musicale viene considerato soprattutto dal punto di vista pratico, addirittura utilitaristico, come una delle componenti del rituale. Il contesto dell’esecuzione non prevede la partecipazione del pubblico.
Manco a dirlo, fra i Damai, come in tutte le tradizioni musicali del Nepal, la trasmissione della musica di generazione in generazione avviene per via orale. L’assenza di notazione musicale influisce sulla comprensione della musica e sulle modalità di apprendistato, che si basano sull’osservazione e sull’imitazione.
Non tutti i Damai sono musicisti, ma chi è interessato ad apprendere uno strumento è già stato da lungo tempo a contatto con la musica che desidera praticare. In effetti, sin dall’infanzia avrà avuto spesso l’occasione di osservare suo padre, o altri membri della famiglia o del villaggio, mentre fanno musica. Non appena decide d’imparare a suonare uno strumento a sua scelta, s’impegnerà in una minuziosa osservazione dei gesti: modo di percuotere il tamburo, movimenti delle dita sull’oboe, ecc. L’apprendimento si svolge in primo luogo per osservazione visiva. Quindi il futuro musicista, dopo aver ricevuto alcune spiegazioni da un musicista esperto, viene direttamente integrato nel gruppo… Il giovane musicista Damai apprende dai più anziani un repertorio tradizionale che è immutabile, dato che non può essere suonato se non come lo si è appreso. Non è possibile creare nuovi brani, ma pare che alcune innovazioni siano ammesse; ad esempio, l’acquisizione di brani uditi alla radio: canzoni del folklore, canzoni “moderne”, canzoni tratte da film, ecc. Questo, sia chiaro, unicamente a titolo d’intrattenimento. Sicuramente l’oralità conferisce alla musica un carattere mutevole e vivo, ma un brano rimane sempre riconoscibile alle orecchie dei tutori della tradizione, dato che gli elementi musicali ed extra musicali che lo caratterizzano rimangono costanti…
Quando l’esecuzione musicale è percepita come un “saper fare”, si devono osservare alcune regole di base. Nel caso dei Damai gli aspetti essenziali che definiscono e identificano un brano musicale sono: il titolo, la circostanza e il momento preciso della cerimonia in cui si esegue il brano, la strumentazione (il timbro), l’organizzazione musicale dei diversi interventi strumentali (la tessitura), i motivi melodici e ritmici specifici e il modo in cui tutti gli elementi vengono aggregati in una forma (il processo). Per contro, vengono lasciati alla discrezione dei musicisti diversi elementi, fra cui l’ornamentazione e la variazione delle melodie, le accentuazioni ritmiche improvvisate e lo sviluppo formale (durata e concatenamento delle diverse sezioni del brano). Questi elementi permettono il manifestarsi di varianti regionali e di interpretazioni individuali. Ogni brano musicale ha una propria identità, ma la sua dimensione sonora empirica varia da un’area geografica all’altra, da un insieme musicale a un altro, da un musicista all’altro, da un’esecuzione all’altra.5
Il discorso sulla fissità dell’esecuzione musicale dei Damai è identico, se lo riportiamo a su cantu a tenòre ed a su cantu de séi, in Sardegna. I mùsici tradizionali sardi, così come i Damai, come i musicisti africani, etc., rifiutano il confronto col musicista colto occidentale. L’apporto creativo dei musici folk è più prossimo a quello dell’interprete che non a quello del compositore. Il corpus della tradizione, immagazzinato in memoria, occupa il posto che nelle musiche di tradizione scritta spetta alla partitura. Nelle musiche tradizionali la ripetizione è uno stile legato all’oralità. Tuttavia, alquanto paradossalmente, l’arte del musicista folk consiste in buona parte nel realizzare tante reiterazioni quante riterrà opportune, a condizione di evitare accuratamente la ripetizione identica (questo è lo stile inconfondibile dei muttetus sardi).
L’autenticità. Nel XX secolo, quando le tradizioni musicali nel mondo sono state riscoperte ed analizzate, sono cambiati anche gli apriori relativi agli universali (il bello, il buono, il vero). I nuovi linguaggi, le nuove sonorità hanno sconvolto tutte le certezze, ivi comprese le nozioni di riferimento originale, di fedeltà. Per questo risulta essenziale comprendere la radice antropologica dell’esperienza estetica. Perché affermiamo che un’interpretazione musicale è autentica e un’altra no? In relazione a cosa la musica interpretata è percepita come autentica? I parametri puramente musicali (timbro, modalità di accordatura, ornamentazione, ecc.) hanno precedenza su altre dimensioni come le aspettative del pubblico o i gusti dell’epoca? Quale posto ha l’interpretazione individuale di una tradizione?
Inoltre, il discorso sull’autenticità di un’interpretazione musicale non verte solo sui parametri di un oggetto, ma anche sui soggetti in rapporto all’oggetto, al livello della creazione, dell’interpretazione, dell’ascolto. Concepire il giudizio di autenticità come una forma del giudizio di valore non significa solo riconoscere la parte relativa e soggettiva sottesa a un qualsiasi giudizio, ma anche situarlo nella dinamica di una costruzione simbolica. In questa prospettiva, la realtà dell’autenticità è altrettanto eterogenea di quella del bello.6
Gli Inuit del Nuovo Québec apprezzano un gioco di gola (katajjak) soprattutto in base alla resistenza delle due cantanti, mentre la qualità vocale degli interpreti venuti dall’Ucraina risiede nella forza di emissione del canto. Altrove, per esempio nelle musiche caratterizzate dall’improvvisazione, l’accento viene messo sulla capacità di ornamentazione, di creatività, d’inventiva dell’interprete; in altri termini, sull’esecuzione “trascendentale” a partire da un materiale di base. I musicisti delle cerimonie religiose e rituali sono al contrario stimati di per sé in ragione della loro qualità di mediatori fra gli déi e gli uomini, cosa che induce un’esecuzione omogenea e chiara, spesso basata sulla ripetizione di motivi, in cui la componente interpretativa individuale è ridotta alla sua espressione minima. Qui sono la funzione e l’efficacia della musica nel rituale a governare l’esperienza estetica. Segnaliamo infine i balafonisti, quei suonatori di xilofono dell’Africa occidentale per i quali la qualità essenziale consiste nel virtuosismo del musicista. Virtuosismo che è la prova tangibile della sua competenza musicale e la garanzia del segreto della sua arte. La velocità di esecuzione è dunque vista come una forma di “diritto d’autore” del musicista, come una tecnica particolare per rafforzare il suo potere e mantenere il suo statuto privilegiato in seno alla comunità. Tutti questi esempi mostrano come i fondamenti della simbologia del giudizio di autenticità musicale siano ancorati a epoche, mentalità, culture.7
Questo discorso comporta pure, per il musico della tradizione sarda, una disciplina assai diversa da quella riservata ai musicisti “inventori”, ossia a quelli della tradizione europea moderna ed attuale. Per il musico del quartetto a tenòre e per il duetto del cantu de séi «la musica deve essere tassativamente assimilata, cosa che implica non solo conoscerla a memoria, ma farla propria al punto da poterla modificare a piacimento con l’ornamentazione, le variazioni di tempo, le fioriture, ecc. Suonare una musica non significa averla compresa… Solo quando s’arriva a parafrasare un testo o costruirvi dentro nuove frasi, lo si è assimilato… Questo stadio corrisponde a quello della creazione» (During). La quale, si potrebbe dire, è ineffabile. Ma contrariamente a quanto si pensa, non è che il musico sardo non abbia nulla da dire sul piano tecnico circa la propria musica. Certamente la musica a tenòre e quella de séi è qualcosa che il quartetto, il duetto, eseguono senz’essere in grado di esplicarla espressamente in termini analitici: talché iI musicologo ha campo libero per proporsi come grammatico e formulare regole, da incastonare in un sistema musicale. Ma attenzione! Lo stesso musicologo – giusto quanto abbiamo detto prima – si trova disarmato davanti alle esecuzioni del canto sardo, specialmente dell’originalissimo cantu a tenòre, perché questo ha delle leggi peculiari, che nessun musicologo è mai riuscito a districare ed analizzare, se non esprimendosi in funamboliche matasse di parole che non scalfiscono la verginità di quell’epifania.
A slow evolution or a well-preserved tradition? Peraltro, possiamo argomentare che gli sforzi per dare più raffinatezza e per fare evolvere diacronicamente la musica colta rispetto agli statici schemi popolari, per quanto abbiano un respiro millenario, hanno sempre marcato un passo lento. Ad esempio, fu soltanto nell’opera di Guido d’Arezzo (992 ca.-1050 ca.) che s’affermò nelle città e nelle corti il primo sistema di scrittura diastematica, una scrittura, cioè, che permetteva d’indicare le diverse altezze delle note da intonare. Guido chiamava il suo sistema tetragramma perché inseriva dei segni (che sarebbero poi diventati le moderne note) in una griglia costituita (spesso) da quattro righe parallele. Fu questo l’inizio dell’uso delle note in cui la scrittura delle durate era ottenuta proporzionalmente (la durata di una nota era indicata in proporzione alle altre). Come memorandum per gli allievi, alle note posizionate negli spazi e sulle linee Guido assegnò nomi corrispondenti alle sillabe iniziali dei primi sei versetti di un inno di Paolo Diacono dedicato a san Giovanni Battista:
Ut queant laxis affinché possano con libere
Resonare fibris voci cantare
Mira gestorum le meraviglie delle tue azioni
Famuli tuorum i tuoi servi,
Solve polluti cancella dal contaminato
Labii reatum labbro il peccato
Sancte Iohannes o santo Giovanni.
Poi UT fu sostituito da DO, considerata la migliore pronunciabilità, e per il fatto di essere un capovolgimento di UT.
1 Vedi, ad esempio, il flauto osseo di Divje Babe in Slovenia, vecchio di 40.000 anni.
2 Bruno Nettl: Musica Urbana, p. 539 di Enciclopedia della musica, vol. VI (ed. Il Sole 24 Ore).
3 Zur Kritik der politischen Ökonomie (1859)
4 Citazione da Marcello Sorce Keller: in Enciclopedia della musica, vol. VI – Musica e cultura (ed. Il Sole 24 Ore).
5 Questo brano sui Damai è ripreso liberamente da Sophie Laurent: Musica e casta; la pratica musicale dei sarti-musicisti del Nepal, Enciclopedia della musica, vol. VI, ed. Il Sole 24 Ore.
6 Monique Desroches e Ghyslaine Guertin: Giudizio di autenticità e giudizio di valore, da Enciclopedia della musica, Vol. VI, ed. Il Sole 24 ore.
7 Monique Desroches e Ghyslaine Guertin: Giudizio di autenticità e giudizio di valore, da Enciclopedia della musica, Vol. VI p. 685 sgg., ed. Il Sole 24 ore.
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