Premessa. Questa prefazione al Dizionario Etimologico della Lingua Gotica può essere apprezzata dal lettore a condizione che sia previamente chiarito il concetto delle “origini del linguaggio”. Tale concetto era creduto limpido e intuitivo, ma si opacizza quando osserviamo criticamente le forzature cui è stato assoggettato qua in Occidente. I glottologi “indoeuropeisti” considerano le origini del linguaggio in modo strano, come spiegherò nel prosieguo; e per me lasciare nel vago questo concetto equivarrebbe a privare di basi il mio Dizionario.
Si sa che i glottologi “indoeuropeisti” nei loro studi di comparazione hanno presenti le “Origini”, e per convenzione le evocano con un asterisco (*), al quale affiancano di volta in volta una formula grafemica che dovrebbe suggerire – nei loro intenti – una struttura vocale costruita verosimilmente dalla prima società umana (es. blood ‘sangue’ < ie. *bhlo-: AEIT 117; door ‘porta’ < ie. *dhwrā: Mastrelli GG 96). Ad essere precisi, ogni glottologo considera la formula asteriscata come la più remota opzione nella ricerca delle “origini”, convenendo che dietro ed oltre tale formula c’è un vuoto imperscrutabile, nel quale sarebbe inutile addentrarsi.
Penso che sarebbe ora d’innovare le procedure e bandire gli asterischi quando ci riferiamo alle origini del linguaggio (o alle origini di una singola lingua). Se un asterisco implica una ipotesi, ebbene, auspicherei di bandire le ipotesi quale metodo di lavoro (o perlomeno limitarle a casi veramente eccezionali, a casi rarissimi). Se un asterisco implica che al dilà c’è un vuoto dove la ricerca si smarrirebbe, dovremmo obbligarci a colmare quel vuoto anziché asteriscarlo, dando un indirizzo diverso e forse più proficuo alla metodologia della ricerca.
In questo Dizionario intendo rifiutare, col dovuto garbo, una teoria del linguaggio che considero obsoleta.
Capisco i difensori del vecchio metodo, edotti a condividere un collaudato plancher dottrinale, dove ogni formula – sia pure costruita tra dubbi e fallanze – viene assolta entro un quadro strutturale dove si tollerano a priori le insufficienze. Quei difensori stanno in cattedra a perpetuare un sistema che non dà frutti. Purtroppo la loro difesa è attiva, direi pervicace. Infatti precludono l’ingresso a nuove idee, specialmente a quelle curate dai glottologi sine cathedra. Anzi, ai colleghi sine cathedra è imposto il silenzio tombale, che culmina inesorabilmente nella damnatio memoriae. Passando ai paragoni, è come che dalle Facoltà d’Ingegneria si vietasse l’esercizio agli ingegneri non-cattedratici, obbligandoli a cambiare mestiere; o che, parimenti, ai medici si vieti l’esercizio da parte dei professori che gli hanno conferito la laurea. Ci sarebbe da chiedersi, allora, a che valga una laurea, se poi dall’alto la si conculca.
Un glottologo che dall’esterno dichiari di ricercare le “vere origini”, e che all’uopo chieda visibilità ed attenzione nella genuina volontà d’illuminare nuovi scenari, viene aprioristicamente ignorato, e comunque classificato sine libris, vien visto come uno snorkeler che disdegna l’ossigeno delle biblioteche, uno zoppo che rifiuta le stampelle dell’ipse dixit.
Nella ricerca linguistica si è creata una faglia, approfondita da tanti preconcetti. Dico serenamente che tali preconcetti appaiono come autodifesa. Ed avverto serenamente che occorre democratizzare il sistema. Tutti assieme siamo chiamati a scrutare nuovi orizzonti, a navigare oltre le Colonne d’Ercole, irridendo ai timori del naufragio, perché la navigazione è rassicurante, fintanto che il timone sia retto con dottrina e umiltà. Il Nuovo Mondo può essere raggiunto soltanto indossando il saio francescano.
La narrazione. Nel mondo vige la narrazione secondo cui il linguaggio, ossia l’articolazione fonica che l’Homo utilizza nella comunicazione, fiorì inizialmente nell’Alta Europa, entro il Circolo Polare, con probabile focus in Scandinavia. Una narrativa secondaria propone di spostarne l’origine nell’Alta Ucraina o nel propinquo Caucaso. L’entusiasmo per la decifrazione della lingua ittita, avvenuta a metà del secolo scorso, indusse qualcuno a spostare il focus in Anatolia. Tre-quattro ipotesi non dimostrate.
Le aree geografiche qua citate sono disegnate lungo un meridiano che scende dall’estremo Nord e fa stop al 36° parallelo. I linguisti che hanno tracciato la barriera meridionale convengono che la lingua primitiva s’allargò progressivamente ad ovest e ad est, all’Atlantico e agli Urali, mai però sotto il 36° parallelo. L’immenso mondo situato al disotto, quello mesopotamico-cananeo-egizio-berbero, è tagliato fuori senza spiegazione.
Il linguaggio di cui sto parlando vien definito, tout court, Ursprache, Lingua Originaria. Nelle scuole di ogni ordine e grado essa viene proposta senza strumentazione critica, direi che la sua percezione avviene liberamente a livelli subliminali, e la gente non ha remore ad ammettere che tale Lingua-nata-in-Europa sia la prima dell’orbe terracqueo.
Questa mia Prefazione Metodologica vorrebbe ambire a dare alla Ursprache ambiti meno vaghi, per opportune ragioni, le quali han bisogno di uno sfondo definito dove proiettare e inquadrare la materia indagata nel mio libro, cioè le etimologie della lingua gotica.
L’imprecisione dell’uno o dell’altro focus della Ursprache entro i confini citati non ha mai suscitato diatribe, lo sappiamo, convenendosi che la teoria nel complesso può rimanere salda sino a che non venga scalfito il principio che definisce l’Ursprache come “lingua indoeuropea”. Ai tempi dei miei studi universitari, negli Anni ’60 del XX secolo, essa era citata ancora come “lingua indogermanica” (in ossequio ai Padri della Linguistica, che parlavano soltanto di “indo-germanico”); ma le mode passano ed oggi s’apprezza (tra noi occidentali) l’aggettivo “indoeuropeo”, apparentemente più “democratico”; senza però che qualcuno eccepisca l’incongruità di questa stessa definizione, anch’essa poco chiara perché esprime una concettualità spaziale riduttiva e sghemba, persino partigiana, rispetto ai reali fenomeni linguistici dei quali intendo parlare, i quali ebbero un focus diverso da quello europeo, e successivamente mostrarono una triplice direttiva d’espansione: → nel Mediterraneo, → in Europa, → in Asia.
In questo libro non includo la più ampia e complessa fenomenologia delle lingue estranee all’ “indoeuropeo” (quelle mongole, cinesi, turche, polinesiane, americane, africane). È sufficiente il campo che sto inquadrando, poiché in esso vi sono già molte contraddizioni, e non serve tentare chissà quali sistemazioni, se prima non risolviamo almeno qualcuno dei paradossi con i quali si convive nel catalogare e storicizzare la “prima lingua del mondo”.
Uno dei paradossi sortisce dalla buona fede di alcuni (G.B. Tilak, Franco Rendich e tanti altri) nel porre l’origine del linguaggio sui ghiacci della Scandinavia, senza tener conto che in epoca glaciale, quando l’Homo inventò a proprio beneficio l’arte della parola, quelle terre erano coperte da tremila metri di gelo (come l’Antartide) e nessuna vita era possibile.
Un altro paradosso è il “corridoio preferenziale” mantenuto sino ad oggi dai seguaci di Franz Bopp tra lingua germanica e lingua antico-indiana. Ed a proposito della barriera-sud da loro stessi eretta al 36° parallelo, la sfondano verso sud-est senza una esauriente dimostrazione storico-geografica che renda credibile l’operazione, senza che le somiglianze linguistiche tra due aree lontane (mondo germanico e mondo indiano) abbiano mai goduto di attualizzazioni e puntualizzazioni, dopo due secoli. Al riguardo metto le mani avanti, perché non m’azzarderei mai a scalfire la grandezza di Franz Bopp[1], allorché giunse ad apprezzare la lingua sanscrita come uno dei plinti degli apparentamenti “indoeuropei”. Ma una cosa sono i maestri, altra cosa è l’assoluta necessità di modernizzare certe concettualizzazioni.
Altro paradosso è l’eccessiva distinzione tra lingue germaniche e lingue slave, senza riconoscere che il quadrante geografico donde sortirono gli Slavi è anch’esso europeo e lascia intatta l’ampia cornice unitaria, poiché gli Slavi non sono altro che gli antichi Cimmeri (quelli della narrazione erodotea[2]), i quali poi nel seguito della storia greca furono noti come Sciti[3]; e non si ha alcuna notizia che gli Sciti abbiano mai ceduto ad altri la propria vastissima terra. Certamente non l’han ceduta ad ovest, e nemmeno l’han ceduta stabilmente alle orde di stirpe mongola che fin dagli albori han reso fluidi i confini degli Urali. Soltanto nell’Alto Medioevo quella terra cominciò ad essere nominata con termini a noi familiari: si tratta della Ruś di Kijv (dove Kijv significa ‘la Terra degli Avi’, stato costrutto con –ī– apofonico in seconda sillaba, dal sumerico ki ‘terra’ + ebr. av ‘progenitore’, it. avo < sum. abba ‘father, elder’).
Questa mia etimologia potrà sembrare eclatante ad un lettore poco avvezzo, ma lo invito a leggere con perseverante e paziente umiltà; tuttavia lo avverto fin da ora che lo “sfondo” da me prescelto per proiettare le etimologie delle lingue euro-mediterranee non è un indefinibile “campo indoeuropeo” (marcato dall’inesorabile asterisco *) ma sono le lingue più antiche del mondo mediterraneo-mesopotamico, quelle rilevabili dai più prestigiosi dizionari oggi disponibili, citati in Bibliografia.
L’arcaica unità tra le lingue slavo-germaniche e quelle mediterranee appare indubbia, quando la indaghiamo scientificamente. Confrontiamo ad esempio il russo glasnost (глáсностъ) ‘trasparenza’ (termine figurato) col ted. Glas ‘vetro’, ingl. glass. In lat. glesum indica l’ambra, una resina trasparente, ed è ovvio che questa parola è antico-nordica, la quale sembrerebbe astrusa ma è soltanto arcaica; e noi la capiamo proiettandola sul sumerico gileš (gil ‘tesoro’ + esi, eš ‘albero’), col significato di ‘gioiello degli alberi’. Questa scoperta mostra, sino a prova contraria, l’ampiezza delle percezioni e delle conoscenze possedute dai detentori della primitiva lingua sumerica. Tacito parlò poi dell’ambra come di “resina che trasuda dagli alberi”. In seguito il nome sumerico dell’ambra fornì ai popoli slavo-germanici lo strumento per indicare il ‘vetro’, glass, Glas, e con esso la ‘trasparenza’ (glasnost).
Perfino le interiezioni confermano l’arcaica unità delle lingue slavo-germaniche-mediterranee, come ad es. urrà, urrah. Questa esclamazione gioiosa di plauso, di esultanza, d’incitamento e di augurio, molto in uso anche tra i popoli germanici, viene registrata in Italia soltanto nel 1822 Stampa milanese; come hourra av. 1853 da C. Balbo in Autobiografia. Manco a dirlo, DELI lo registra di etimologia incerta, di poco chiara derivazione straniera. Certi autori (es. Dauzat e Bloch-W.) lo registrano come voce inglese o russa, e lo citano persino come “barbarie cosacca”: avvicinandosi al vero, quanto all’appartenenza cosacca: ma ovviamente trascuriamo la barbarie, un vocabolo nel quale s’impania solitamente chi non abbia occhi ad ammirare il grandioso scenario del linguaggio.
Nessuno scrittore europeo si prende responsabilità al riguardo, ma basta sfogliare il “Grande Dizionario russo-italiano, italiano-russo” di Julia Dobrovolskaja per capire che questa parola ha origine dalla Ruś di Kijv, dalla lingua ucraina e da quella russa. Questa interiezione è familiare a quei popoli, e risulta già citata dagli scrittori russi dell’800. Lo stesso GDRIIR cita ben cinque frasi legate al russo-ucraino ура! (scritto in cirillico: urrà!, interiezione + dativo) ‘urrà, evviva’. Sembra evidente che l’interiezione sia appartenuta già agli antichi Cimmeri e poi agli Sciti, rimanendo identica a se stessa fin dalla prima formulazione; e non poteva essere altrimenti, essendo nient’altro che un’invocazione-lode al Dio Altissimo, all’Immenso Rā. Ritroviamo le sue sillabe nell’eg. ur ‘immenso’ + Rā ‘Dio Altissimo, Dio Sole’; Urå ‘great god’, Uru ‘Great God’.
Tutto sommato, la “teoria dell’origine germanica” (o …“indoeuropea”) della parlata comune ha più di un acciacco che la fa traballare e vivere precariamente. Per migliorarne il tasso di benessere basterebbe ridiscutere serenamente e pacificamente i paradossi accennati, rinunciando ad imprimergli il marchio “germanico” (direi anche il marchio “indoeuropeo”) e riequilibrando l’ampio rettangolo ora descritto, sfondandolo quindi a sud e chiudendolo a sud-est: resecando quindi il citato “cordone ombelicale” che accamperebbe una sorta di contiguità linguistica tra Indiani e Germanici (una contiguità dei cui primordi si è preferito tacere).
In tal guisa sarebbe facile mettere ordine e trovare più solide pietre angolari per sistemare le lingue d’Europa, quelle antiche e quelle moderne. L’opzione migliore, come detto, è riposizionare la componente “indiana” ed abbassare notevolmente il “meridiano” al disotto dell’Anatolia e della Grecia, al disotto dell’Iberia e dell’Italia, includendo le coste berbere, l’Egitto, Canaan, la Mesopotamia. Insomma, occorre annodare a sud unendo due campi d’indagine sinora trattati come reciprocamente repulsivi, reciprocamente off-limits, nella consapevolezza che le lingue del nord e del sud sono invece sorelle o almeno cugine (come tenterò di spiegare), mentre chi le presenta reciprocamente repulsive non ha saldi argomenti critici per validare la propria visione. Accennerò più avanti all’ipotesi ario-semitica. Ma sin d’ora vorrei fosse chiaro che i “mostri sacri”, ossia i padri della linguistica indogermanica (vedi per tutti Franz Bopp ed il suo “Conjugationssystem”) non vengono messi in discussione da questa mia Prefazione, mentre è ai posteri di Bopp, in specie a quelli oggi viventi, che vorrei rivolgere l’invito a feconde riflessioni comuni.
So che la riparametrazione cui sto accennando non alletta di molto le accademie, mentre al contrario sembra ch’esse tollerino un pensiero inficiato dalla metalinguistica e dall’ideologia. Penso che i germanisti debbano essere chiamati a spiegare alcuni anacronismi che, a mio avviso, hanno prodotto dei danni epistemologici. Se nell’aria si fiutano miasmi di metalinguistica, non è allo scrivente che va puntato l’indice ma agli stessi germanisti.
È pur vero che nell’ultimo decennio parecchi linguisti di cultura germanica vanno scoprendo le coincidenze nord-sud di molte parole (ipotesi “ario-semitica”), ma non mi consta che qualcuno di loro abbia smesso di credere che gli eventuali “sfondamenti a sud” siano nient’altro che il perdurare dell’onda espansiva germanica (vedi per ultimo “Ancient Egyptian words cognates of their equivalents in proto indo european and various indo-european languages?” by Christian Tutundjian de Vartavan).
Eppoi, non sarebbe cosa da poco chiedere alle accademie se e quando vorranno collocare in museo l’aggettivo “ariano”.
In ogni modo, quel paradosso “inclusivo” della loro teoria (ossia il legame diretto, anziché indiretto, tra genti germaniche-iraniche-indiane) sinora ha fatto il pendant con un paradosso “esclusivo”, in forza del quale dal reseau “germanico” si escludono senza ragione, come detto, tutte le lingue apparse prima dell’Impero romano nel sud del Mediterraneo… salva l’ipotesi che esse stesse non siano state generate dai popoli germanici…
Quanto sinora ho scritto potrebbe apparire ostico al lettore comune, e persino provocatorio agli studiosi più preparati. Chiedo venia: non ho scritto questo Dizionario né questa Prefazione con mire disfattiste. Non avendo concluso il mio pensiero, inviterei a proseguire la lettura, poiché non intendo attizzare polemiche ma soltanto appianarle, proponendo qualche correzione metodologica tale da apportare nuove riflessioni scientifiche, nella convinzione che per ottenere le risposte giuste bisogna farsi le domande giuste.
In questa sede sto presentando la prima lingua nordica apparsa alla storia, cioè quella gotica. Questa è un monumento prezioso ed ha costituito il plinto dell’intera costruzione “germanica”; la quale pero è lungi dal rimanere salda e adamantina, fintantoché la si avvolge di caligini che fan perdere la visuale. Per gli studiosi la lingua gotica è importantissima. Anche per me. Ma occorre vigilare acché non costituisca un’entità totalizzante e mitica. In epoca romantica la lingua gotica è stata usata persino come strumento di una delle più aberranti imprese mai osate da mente umana, quella d’imporre il “pensiero unico”, un Albero Genealogico (sì, quello di August Schleicher) che prefigurerebbe le (indimostrate) “res gestae” dei popoli germanici preistorici, i quali da nord avrebbero invaso tutto il mondo conosciuto, scendendo prima nel Mediterraneo e creando persino il latino, approdando alla penisola elladica e creando il greco, poi in Anatolia, in Iran, infine in India, lasciando ovunque la propria matrice. Questi sarebbero i lasciti, le narrazioni a noi pervenute sulla Lingua germanica, la quale viene presentata come Ursprache.
Ma tale teoria, come dimostrerò infra et passim in questa Prefazione e nel corpo del Dizionario, è nebbiosa e talmente mal congegnata che basta ragionarci poco per dissiparla.
Ricordo al lettore un altro paradosso, secondo cui l’antichità delle lingue germaniche (compresa quella gotica) è stabilito non debba scendere al disotto del 4000 a.C., ossia a 6000 anni fa, mentre nessuno dei proponenti vuol dar ragione di questo limite stranamente corto e “prudenziale”. Evidentemente, scavare ed attingere a tempi più remoti è sembrato inutile ai glottologi, i quali, sia chiaro, sono gli stessi che hanno inventato il concetto della Ursprache (la “Lingua delle Origini”) la quale, almeno in teoria e fino a prova contraria, dovrebbe ancorarsi almeno a 200.000 anni fa, se non a 600.000 anni, ossia dovrebbe ancorarsi a tempi che scendono ben seicento volte al disotto dei 6000 da loro proposti. Contraddittorio, no?
Il voler ancorare l’origine della lingua gotica soltanto al 4000 a.C. e lasciare al disotto di essa un blank imperscrutabile, è arbitrario, assurdo. È come narrare la storia dell’aeronautica cominciando dal primo jet ed ignorando i fratelli Wright. Così facendo, a questa gloriosa lingua si negano le vere radici – a tutti scientificamente visibili e dimostrabili, come vedremo tra poco – le quali sono talmente remote da identificarsi con la primitiva parlata dell’Homo Sapiens (anzi, del Neanderthal-Sapiens). La lingua gotica, essa sì, entra di diritto nel grande serbatoio della Ursprache. Ma a questo punto è proprio alla Ursprache che dobbiamo contendere la patria potestas, revocandola agli ignoti “genitori” di 6000 anni fa. Nel vasto quadro che sto delineando c’è una sola Ursprache e, se non vogliamo ridurla a barzelletta, siamo obbligati a stabilirne la prima sede responsabilmente e realisticamente: una dimora che sia veramente primitiva. In quale area del mondo vogliamo collocarne il vagito? Lo vogliamo inchiodare su tre chilometri di ghiaccio?, o accettiamo che i primi balbettii del linguaggio vengano illuminati dalla ragione?
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