I FIGLI DI KANT

Le correnti filosofiche dell’Ottocento ebbero una forza tale da far germogliare potenti ideologie entro la borghesia. Sostanzialmente fu la borghesia a mettere in crisi gli imperi. L’onda lunga proveniva da lontano, dal 1765-1783 con la Rivoluzione Americana, la quale determinò il primo grande distacco dall’Impero britannico, facendo lampeggiare nel mondo la coscienza degli “stati nazionali autonomi” e con essi l’importanza di una nuova classe dirigente di estrazione borghese. La Rivoluzione francese fu diversa ma simile a quella americana, e in essa fu ancora la borghesia ad assumersi il compito di squassare le pareti di bronzo della Storia. In tal guisa già nel Primo Ottocento le armate napoleoniche avevano divulgato ed esportato ovunque in Europa una legislazione libertaria ed egualitaria, in virtù della quale tutti gli uomini sono liberi, nascono uguali e vivono da uguali, godono degli stessi diritti, sono legati agli stessi doveri, a prescindere dalla “razza”, dalla religione, dallo stato sociale. Fatto storico di enorme portata, l’eguaglianza spettò pure agli Ebrei e grazie a Napoleone cessò l’allucinante persecuzione che per 1900 anni aveva accumulato inenarrabili nefandezze contro di loro. Dall’epoca post-napoleonica, pure avvinti al tetro compromesso tra borghesia e nobiltà imposto dal Congresso di Vienna, gli Stati nazionali cominciarono a prender corpo uno dopo l’altro, e c’era urgente bisogno d’individuare ogni e qualsiasi presupposto utile a cementare le coesioni nazionali. Per distinguere nettamente una nazione dall’altra si percepì l’utilità di rafforzare, o inventare, i miti autoctoni, affinché ogni popolo si distinguesse quanto più possibile e si rinvigorisse nel collante d’una originale narrazione delle “radici” nazionali sapientemente effigiata, controllata da pochi intellettuali.

La disciplina del linguaggio (la Glottologia) è la più soggetta ad impastarsi e irrobustirsi entro trame mitiche e ideologiche perché, essendo il linguaggio connaturato ad ogni vivente, è normale che il comune parlante, ignorando le leggi fondamentali dell’uso, dia per scontata e ritenga valida a priori ogni “sistemazione” teorica declamata ex cathedra nell’inquadrare sia la parlata nazionale sia le parlate ad essa imparentate.

La nascita della nazione tedesca fu nutrita con l’Ideologia Ariana, la quale aveva eletto il suo casto nido di vestale nelle università germaniche fin dal primo balbettio della Scienza Linguistica. Sia chiaro, l’intento ideologico è sempre una sovrastruttura, in quanto tale non viene espressamente e volutamente segnalato dal pensiero dei cattedratici; ma non ci fu bisogno di cure intenzionali perché le teorie filosofiche prevalevano comunque, s’imposero da sole. Gli studiosi del linguaggio, in epoca di Romanticismo, respirarono a pieni polmoni le filosofie emergenti e trovarono del tutto ovvio che l’Ursprache, la Lingua delle Origini, avesse emesso i primi vagiti nelle terre germaniche, il più a nord possibile, dove i capelli biondi ornano le pupille di gatto.

La Germania a quei tempi era d’esempio in Europa, cominciava a dare il meglio in ogni campo. Dopo il periodo napoleonico la nascente nazione germanica prevalse nell’arte, nella scienza, nel pensiero, talché i secoli XVIII-XIX furono dominati da sommi musicisti e da una serie impressionante di studiosi e di filosofi di lingua tedesca. Tra i filosofi più incisivi ci furono Immanuel Kant (1724-1804), Friedrich Hegel (1770-1831), Arthur Schopenhauer (1788-1860), Karl Marx (1818-1883), Friedrich Nietzsche (1844-1900).

Il primo e più famoso tra i filosofi è Kant, ed il suo pensiero – erede dell’Illuminismo francese e suscitatore di una rigorosa dottrina antidogmatica – lasciò in Europa e nel mondo una traccia vivissima ancora oggi indelebile. La Critica della Ragion Pura ed i Prolegòmena ad ogni futura Metafisica rimangono i monumenti più eccelsi del pensiero umano. Ogni pensatore, qualunque sia la materia, deve obbligarsi ad atteggiamenti rigorosamente critici, dove la realtà, la verità di ogni conoscenza deve essere sempre messa in dubbio. Kant, quasi ironicamente, riconosce che «un tal dubbio però offende chiunque per avventura abbia fatto l’intero suo tesoro di tali presunti gioielli; e però chi si lascia sfuggire il dubbio deve prepararsi a resistere da tutti i lati»[4].

Ma Kant non bastò, e nonostante lui il Nazismo s’affacciava ad ogni cantone, sfuggente come un’idra dalle sette teste, ognuna di esse col viso bonario di Gerione. Tra i primi nazisti possiamo annoverare il grande musicista Richard Wagner; ma fu lo stesso modo in cui lo studio delle lingue s’era insinuato nell’area germanica ad aver tessuto nelle accademie il canovaccio nazista sul quale poi furono covati gli stessi dèmoni e gli stessi preconcetti raffinati da Wagner.

In linguistica storica ancora oggi è insostituibile il “metodo comparativo”, una procedura di analisi, catalogazione e confronto di vari elementi tra idiomi diversi. Questo è un metodo sano di per sé, elementare, intuitivo. Però non c’è accademia europea (o para-europea come quella americana) che non abbia forzato e, direi, adulterato la validità del metodo inaugurato da Bopp, giungendo a negarlo nello stesso momento, al fine di dimostrare non solo le somiglianze evidenti tra alcune lingue, ma persino presunte dipendenze genetiche fra loro. In tal caso il comparativismo assume la double-face, e ad ogni passo cangia in “genetismo” (in forza del quale ogni lingua discenderebbe da un’altra). Un genetismo senza prove – almeno se riferito alle Origini in generale ed alle origini di ogni lingua – trasformato in una sorta di “scala gerarchica”.

Colmo dei colmi, della lingua sarda si è giunti a vantare in tal guisa addirittura tre nascite (narrazione assurda di per sé…) dichiarando il primo parto ad opera del “popolo del Vaso Campaniforme” proveniente dall’Iberia (a capriccio, s’identificano i Beakers nel popolo basco); il secondo parto ad opera del popolo romano nel 238 a.C.; il terzo parto ad opera del popolo catalano nel 1323 della nostra era[5]. Insomma, la lingua sarda avrebbe subito tre palingenesi, e l’abbrivio di ognuna avrebbe l’anno-zero nel totale naufragio delle pregresse nozioni e funzioni linguistiche; pertanto riceverebbe il nuovo impulso dall’incondizionata disposizione del popolo sardo a ripartire sempre dalla tabula rasa, accettando le nuove colonizzazioni come rivoluzioni tutt’affatto rigeneranti. Tre palingenesi, appunto. Ma sulla barzelletta sarda sarebbe stato meglio transire poiché questo libro richiede aplomb [6].

Però è proprio la “barzelletta sarda” a palesare l’impazzimento del sistema, poiché negli studi linguistici parecchie accademie (parecchie Università nel mondo) han permesso ai propri adepti tante licenze, lasciandoli scorrere “in franchigia” tra linguistica e metalinguistica. Nel mazzo entra l’Università di Cagliari, poiché proprio nel 2022 Giulio Paulis, citato da Giovanni Ugas (C’era una volta Atlantide), conferma come valida la famigerata teoria di Eduardo Blasco Ferrer. Per non parlare di Maurizio Virdis, attuale titolare della cattedra di “Linguistica Sarda”, il quale sancisce come sacrosanta e indiscutibile l’origine della lingua sarda dal latino (leggi L’Unione Sarda, 2 febbraio 2020), dimenticando che quando i Sardi comunicavano mediante il cosiddetto “vocabolario latino”, Roma stava ancora in mente Dei e sarebbe apparsa alla storia soltanto qualche millennio dopo.

Ma l’accademia sarda non è nuova a queste aberrazioni. Una delle ultime è quella di Attilio Mastino, ex rettore dell’Università di Sassari, che scambia i sostantivi con gli aggettivi, e traduce il liviano Pellitos sardos[7] come “Sardi vestiti di pelle”, sostenendo che nel 238 av.C. i Sardi persero l’indipendenza a vantaggio di Roma perché il difensore nazionale Amsicora non riuscì a reclutare dei “Sardi vestiti di pelle”[8]. Eppure il Mastino è protetto dall’usbergo dell’erudizione, la quale poteva evitargli l’errore, poiché il liviano pellitos è un sostantivo seguito da aggettivo (sardos), ed i pellīti (così citati fedelmente da Livio in omaggio al fatto che i Sardi del sud, quelli governati da Roma, raddoppiavano, ed ancora oggi raddoppiano la –L-) nient’altro erano che guerrieri d’assalto armati alla leggera, altrimenti detti velītes (Roma) e πελτ-ασταί (Grecia).

Però in Sardegna il libro più kafkiano è La Stele di Nora, pubblicato da Roberto Casti per dichiarare ufficialmente a tutto il mondo …la propria incapacità di tradurre quella veneranda stele scritta con lettere fenicie, che io invece ho tradotto da oltre vent’anni. Quel signore, volendo, poteva copiarmi; poteva addirittura plagiarmi. Glielo avrei permesso pro bono pacis. Ma così vanno le cose all’Università di Cagliari.

A questo punto non giova nemmeno sdegnarsi, mentre osserviamo il deserto gnoseologico creato da certi docenti attorno alla turris eburnea, dove si rifugiano “in franchigia”. Ma torniamo alla lingua gotica. Questi signori parlano di “indoeuropeismo”, ed entro tale “scienza primaria” hanno ricostruito a tavolino una lingua-madre, una Proto-Lingua nordica, l’Ursprache “indoeuropea” mai esistita, la quale però, con procedure ideologiche ed ascientifiche, ha ricevuto un sussiegoso “certificato di morte” (che ne dovrebbe dimostrare la trascorsa esistenza), è stata dichiarata “estinta” e “preistorica” con sentenziose cerimonie ex cathedra, viene imposta come “indiscutibile”, e la millantata esistenza viene “accertata” accampando il “gene” delle attuali “nipoti”. A nessuno è concesso il dubbio, è severamente vietato domandare come una “cordata” genetica che dall’attuale torna al remoto possa essere indagata, quando quell’albero non ha radici, il capostipite è irreperibile, non disponibile al confronto, pertanto il gene dell’origine viene soltanto supposto ed in luogo del capostipite desaparecido (anzi inventato) si propone un sosia di fantasia, categoricamente contrassegnato da un asterisco (*), emblema di sconfitta, talora da due asterischi (**proto-indoeuropeo), persino da tre asterischi (***paleo-proto-indoeuropeo).

A caso, posso citare al riguardo vari testi considerati sacri e inviolabili:

1. Il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, nel quale gli autori Cortelazzo-Zolli han distillato la quintessenza dell’ideologia secondo cui l’italiano nient’altro è che un derivato del latino, con qualche rinvio alla lingua greca, con minori apporti da un longobardo accuratamente asteriscato, talora dal gotico, rarissimamente da (abborracciate e indimostrate) radici arabe.

2. L’Avviamento all’Etimologia Inglese e Tedesca, nel quale gli autori Scardigli-Gervasi, sciorinando tutti i lemmi delle lingue germaniche storiche, piastrellano di asterischi la base di tutte queste lingue, la quale per loro costituisce un parquet (l’ignoto “germanico preistorico”), e sotto il parquet starebbe il solidissimo sub-strato dell’ “indoeuropeo”.

3. Il Dictionnaire Etymologique de la Langue Latine, dove gli autori Ernout-Meillet piastrellano le basi di ogni lemma con tutte le lingue indoeuropee storicamente accertate (comparativismo), raccordando l’intero cluster all’ “indoeuropeo” tramite il cordone ombelicale. Inoltre il Dictionnaire lascia trapelare sovente tra le righe una desolata resa all’ignoto, ossia l’impossibilità di collegare il lemma latino al cluster.

4. Il Griechisches Etymologisches Wörterbuch, dove H. Frisk usa con tanta naturalezza la tecnica comparativa tra lingue indoeuropee storiche, ma spesso indugia – quasi sciogliendo voti alla nobiltà della tradizione greca – ad indicare l’origine di un lemma greco entro lo stesso vocabolario greco (partenogenesi).

[5. Chiedo sin d’ora venia per il quinto esempio (ero in dubbio se ometterlo). Comunque sto isolando tra parentesi la citazione di un dizionario talmente umoristico per la boria compassata, da assurgere a simbolo della licenza che le accademie han lasciato scappare dalla turris eburnea, favorendo ampi contagi, alcuni dei quali han generato sacche di delirio, come in questo caso. Parlo del Dizionario Etimologico dell’Indoeuropeo – sanscrito, greco, latino – di Franco Rendich, un uomo che si svincola dal comparativismo più accreditato, e persino da tutti i dizionari del cluster “indoeuropeo”. Mette a confronto soltanto tre lingue (con al centro il Molok greco!), mediante una prassi “etimologica” donde scaturiscono le invenzioni più strampalate, le sonorità meno verosimili, una semantica in zuffa furiosa coi rigori della ragione, tambureggiata col ditirambo della follia dionisiaca.]

La turris eburnea avrebbe dovuto rimanere immacolata, mentre invece è proprio da lì che si largiscono erga omnes le sentenze poco controllate, le teorie bizzarre, le narrazioni sussurrate che non mirano alla razionalità ma alla suggestione. Imbozzolati nella farsa ideologica, certi accademici si sono reciprocamente incoraggiati a scrivere parole di vento senza che nessuno al mondo se ne potesse adontare. E poiché ognuno di quei professori si è impegnato a difendere la validità del proprio pensiero, nessuno di loro nei preamboli ai propri libri ha voluto scrivere “Cave ludibrium!, Achtung Spott!, Attento alla beffa!”.

Introdotto sistematicamente da Franz Bopp e da Rasmus Rask negli anni dieci del XIX secolo, il metodo comparativo ha consentito, attraverso il confronto fonetico, lessicale e grammaticale delle lingue cosiddette “indoeuropee” (quelle storicamente attestate), una ricostruzione meramente “intuitiva” della (ignota) lingua-genitrice. Ciononostante, il sosia fantomatico della inafferrabile Ursprache è entrato nei manuali di metodologia divenendo “reale” e costituendo il plinto della Linguistica storico-comparativa. E così da 200 anni si parla avec nonchalance di “Popolo Ariano”, si “Razza Ariana”, una definizione cara in specie agli studiosi tedeschi e inglesi ma pure accetta da moltissimi altri glottologi, compresi quelli italiani; e tutti coralmente intendono per “Ariani” «i popoli indoeuropei o indo-germanici che si erano stabiliti in India» (v. per tutti Wikipedia, ottobre 2022; ma tali dizioni sono riconfermate in parecchi libri editi da altrettanti glottologi: v. anche la Bibliografia del presente libro).

Invero, su questo termine etnico si è romanzato sempre, ignorandone sempre l’origine; e come puntualmente accade, le nebbie mitologiche hanno aiutato a solidificare le credenze, anziché farle dissolvere tra i dubbi degli adepti. Gli adepti, massa notevole, sono pilotati dai più eruditi, che stanno in cattedra a sancire la credenza che gli Ariani fossero nient’altro che popoli germanici.

Io sostengo che la ragione di noi tutti non può più accettare le sentenze che attestano l’esistenza degli Ariani mediante remote ed ignobili mitologie. Se qualcuno ne avesse veramente avuto gli strumenti, avrebbe dovuto accertarne la fenomenologia con procedure scientifiche, anziché bamboleggiare nel mito. Oggi, volendo, è possibile fare indagini serie, è possibile abbandonare i racconti dell’infanzia e rendere adulte le coscienze.

 

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