UN MISTERO VOLUTAMENTE INSOLUTO: I MONUMENTI DELLA SARDEGNA ANTICA

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Gli antichi monumenti della Sardegna sono stati indagati sinora con un metodo scientifico zoppo, tale che mai si è riusciti a dichiarare la loro vera essenza. Sono stati scavati, datati, misurati; talvolta sono stati confrontati con altri manufatti del Mediterraneo. Nient’altro. Le quattro operazioni sono state considerate bastevoli, protocollari, un collaudato e indiscusso metro scientifico. Manca però un tassello di enorme portata, poiché dei monumenti non si è mai indagata la funzione. Rimanendo ignota questa, con quale autorità li si pretende “svelati”? Forse piace lasciarli avviluppati dal mistero. A chi giova?

Nessun ricercatore, nessun accademico ha mai tentato di restituire ai monumenti il nome preciso che indubbiamente ebbero, un nome da cui – una volta recuperato – fosse poi facile stabilire anche la loro precisa funzione. Oggi dei monumenti antichi non si conosce né nome né funzione. O meglio, soltanto per due di essi e ) si conosce ma solo parzialmente la funzione, grazie al fatto che vi si trovarono dei morti. Ciò è creduto bastante, non s’indaga oltre, non accorgendosi che quell’evidenza non basta a restituire ai due monumenti né il nome originale e nemmeno l’esatta funzione sacra che rivestivano nell’universo della cultura sarda.
Si è sempre sorvolato su un fatto in realtà importantissimo: che nella Sardegna arcaica ogni monumento, per il motivo stesso di essere costruito con elementi duraturi, doveva avere un valore altamente religioso. Infatti, ciò che non apparteneva alla sfera religiosa, di per sé non fu mai costruito per durare: a tali manufatti bastò il legno.Nella più alta antichità la funzione di una cosa era forzatamente dichiarata dal nome stesso, ogni parola aveva un valore espresso e conosciuto, talché nel periodo arcaico ogni cosa, ogni persona, riceveva il nome soltanto in quanto era considerata un preciso punto di riferimento del Creato. Ogni nome fu prezioso, imperdibile, ed era destinato ad essere perpetuato gelosamente nei millenni. Ciò fu maggiormente necessario per i monumenti sacri.Oggi, restituire il nome ai monumenti primitivi della Sardegna è operazione facile. Infatti esistono e sono in vendita i dizionari (nonché le grammatiche) delle lingue più antiche del mondo, le quali per fortuna si attestarono tutte quante nel bacino mediterraneo. Da esse è possibile recuperare il materiale appropriato. Gareggianti a ritroso nella caligine del tempo, disponiamo del Dizionario Sumerico e del Dizionario Egizio, oltre a quello Accadico, Assiro, Babilonese, Aramaico, Ebraico, Fenicio. Infine abbiamo il Nuovo Dizionario Etimologico Sardo (edizione 2018 di Salvatore Dedola), che contiene in sé gran parte delle parole conservate nei dizionari qua citati. La lingua oggi parlata in Sardegna contiene ancora gran parte delle parole che furono proprie degli arcaici dizionari mediterranei. La Sardegna mantiene in vita nella propria parlata tutto lo scibile del Mediterraneo primitivo, confermato vicendevolmente dalle lingue che oggi vengono dichiarate morte.Confrontare il dizionario vivo della Sardegna con quelli riesumati dai semitisti è operazione esaltante, perché riannoda un cordone ombelicale che si credeva staccato e che invece ha tenuto sempre vitale e produttiva la linfa generata dalle civiltà trascorse. La Sardegna, sotto questo aspetto, è la cassaforte che custodisce i “gioielli di famiglia”, la memoria dell’Umanità, il “ganglio nervoso” altrove dissolto, che ancora fa pulsare tutto un universo, sopravvissuto negli atteggiamenti e nel linguaggio attuale dei Sardi.L’operazione di identificazione rimane facile tra decine di migliaia di termini mediterranei. Ma è sui termini della sacralità che tutto cambia. Nell’Alto Medioevo tutti i nomi legati al sacro scomparvero o (che è lo stesso) perdettero il proprio significato, o furono riproposti con un contrappasso. Ciò si deve ad una sola ragione, che per noi deve essere una prova eclatante: i monumenti dell’antica Sardegna erano tutti sacri, e l’avvento del Cristianesimo impegnò i preti bizantini giunti in Sardegna ad eliminare, “imbozzolare”, a storpiare, a modificare profondamente ogni nome sacro, opponendogli dei contrappassi tali da annientarlo, o sfigurarlo al punto da renderlo ingestibile. Ad esempio, il dizionario accadico conserva la parola bārûm ‘divinatore, esperto nell’extispicio’. Invece in italiano il baro> riappare nel volgare come ‘colui che truffa al gioco’. Altra storpiatura semantica è la fròttola, genere di canzone popolare italiana nel corso del XV secolo. Poi quel concetto scomparve, ma riapparve ribaltato come ‘menzogna’. Con tutta evidenza, questo trapasso semantico nacque come denigrazione istigata dal clero cristiano per infamare, ridicolizzare, obliterare l’antica memoria della prostituzione sacra (la quale era più espansa di quanto s’immagini, e comunque era notissima in Sardegna). La voce italiana fròttola (di cui tutti ignorano l’etimo) va indagata partendo dal sardo forróttula, da confrontare con l’accadico burrûtu ‘servitrici del tempio’ (prostitute sacre). È ovvio supporre che la forma musicale della fròttola nei tempi precristiani fosse quella più usata dalle prostitute per intrattenere i visitatori. Non è un caso che molte scene di danze maschili, cananee o greche, abbiano al centro delle musicanti quasi sempre nude. Vedi ad esempio il “trono Ludovisi” nel palazzo Altemps.
Il destino subìto dalla parola fròttolaapre lo scenario su moltissime altre parole relative al sacro. Molte operazioni di obliterazione od obnubilamento lessicale non andarono sempre a buon fine. Ma per i preti fu già una grande vittoria quando, deviando i campi semantici verso il grottesco, il ridicolo, il satanico, riuscirono comunque a dissipare e far svanire il concetto sacro del vocabolo. Un esempio ce l’abbiamo nei nuraghes

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