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Si può parlare di Dio in molti modi e credo di averli quasi tutti esauriti nel mio studio intitolato “Monoteismo nella Sardegna precristiana”, dove ho risolto pure il problema dell’etimologia della parola. Ma su di essa intendo tornare per puntualizzare alcuni aspetti che restano ancora vaghi.

Non sono stato esaustivo nel distinguere e personalizzare adeguatamente i vocaboli dìo (italiano) e deus (latino). Sappiamo che il Vaticano propone per questi termini un cordone ombelicale unitario, per cui i vocaboli Dio e dìo sarebbero generati l’uno da deus e l’altro da divus, ambedue però proposti con la medesima origine. A ciò s’adeguano i vari etimologisti sparsi nel mondo; il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana (DELI) non fa eccezione, proponendo l’origine del termine dio dal lat. deus, «antico aggettivo col significato di ‘luminoso’» (del quale, manco a dirlo, escogita la famigerata “origine indoeuropea”). Gli stessi dizionari etimologici, gli stessi autori propongono uguale origine pure all’agg. it. divo, significante ‘magnifico, divino’ già prima di Dante. Ma un’indagine approfondita acclara al riguardo degli aspetti da distinguere.

Dovrei osservare in anteprima che appare sospetta, ingannevole e persino blasfema l’unica base etimologica data alle parole it. Dio ‘essere supremo’ e divo (del cinema, del teatro, della letteratura…). I divi sono uomini in carne, e sarebbe azzardato accostarli con imperdonabile leggerezza a Dio; di questa imbarazzante contiguità si era accorto a suo tempo persino l’occhiuto apparato della Controriforma, tale che la dedica dei Madrigali del Cassola, fatta nel 1544 al divinissimo signor Pietro Aretino mutò l’anno seguente in una dedica all’eccellentissimo Signore (v. DELI 357). Poi però fu ammessa una tardiva eccezione all’Alighieri chiamando la sua “Commedia” divina (che è aggettivale da divus) in quanto narrava vicende pertinenti alla Somma Potenza. Altra eccezione il Vaticano aveva fatto per i santi, che per tutto il Medioevo e nell’Età moderna furono chiamati divi: divus Petronius, divus Ciriacus, diva Lucia.

Indubbiamente già nell’antica Roma questa tematica non disponeva di nette distinzioni fono-semantiche, e risultava indifferente l’aggettivo dǐvus, rivolto sia agli dèi sia alle persone amate o di rango elevato (diva parens, Verg.; Ilia diva, Ov.; divi ‘gli dei’ nei poeti; mea diva ‘amata’ in Catullo; divus ‘imperatore divinizzato’; divum ‘cielo scoperto’). Nemmeno l’etimologista Isidoro da Siviglia, nel Primo Medioevo, subodorò qualche sottile distinzione.

Eppure tra lat. deus (sardo déu) e l’it. Dio (< dǐvus) le incongruenze sono palpabili e si può scoprirne la differenza etimologica, poiché il lat. deus (sd. déu) deriva dal sumero de ‘creare, costruire, dare forma’ + u ‘universo’: pertanto de-u significò ‘Creatore dell’Universo’. Mentre l’it. Dio, dio < dǐvus ha base etimologica nel sum. di ‘splendore’ + u ‘firmamento’, significante ‘splendore del firmamento’. Appare ovvio che i Sumeri tenevano ben distinto il Creatore dell’Universo (De-u) da un essere che splende nel firmamento (di-u). Chi “rifulge nel firmamento” non può essere il Dio Supremo ma una stella, un astro. In seconda battuta giocavano i traslati, e l’immaginario fece “rifulgere” anche il re, l’imperatore, le persone eccellentissime quale può essere un santo, che l’affetto collettivo pone al disopra del popolo per l’altissimo rispetto che merita. Anche presso gli Inglesi la star non è solo l’astro ma, sotto metafora, è il personaggio di spicco, quale un grande attore.

Se osserviamo l’uso latino > italiano di dǐvus, forzato già allora e per tutto il Medioevo a nominare persino quello che oggi in Italia chiamiamo Dio, possiamo constatare che nella storia l’evoluzione semantica di alcuni termini può talora “impantanarsi” ed apparire persino regressiva. Un regressione che, nel caso specifico, interessò pure i Sumeri. Così, in sostanza, la semantica dei due termini de-u e di-u finì per andare in parallelo, poi s’abbinò e infine si confuse: una confusione avvenuta già 5000 anni fa. Infatti è proprio con la base di (‘splendore’) che i Sumeri nominarono peculiarmente Dio, che è dingir, di-ĝir significante ‘Dio dei Sumeri’ (dove di è diventato propriamente ‘Dio’, mentre ĝir vale per ‘autoctono, nativo’, ‘colui che vive nella terra di Sumer’).

Quindi, lo ‘splendore’ (di) si alternò semanticamente ma confusamente con la radice de ‘creare’ e, guarda caso, una simile fusione semantica riappare millenni dopo presso i Latini con deus/dǐvus. Suppongo che le correnti di pensiero circolassero liberamente nel Mediterraneo, allora come oggi, nonostante le differenze dei vocabolari. Ed incredibilmente lo stesso equivoco dura ancora oggi; ed è per questo che gli etimologi – inconsciamente – giurano sulla derivazione dell’it. Dio da dǐvus anziché dalla metafonia di un deus che trasmuta in dius.

Non saprei arguire se sia stata la Chiesa a trattenere la ricerca culturale entro questo cul de sac, o se siano stati tutti gli studiosi, anche i laici, ad avere accettato in massa la deriva, non sapendo come gestirla. Posso soltanto affermare che le testimonianze del cul de sac sono ufficialmente laiche, come si evince nel DELI, nell’Ernout-Meillet e in altri.

Del DELI ho già segnalato la resa. A sua volta l’Ernout-Meillet (Dictionnaire Étimologique de la Langue Latine) segnala che deus appare nella primitiva epigrafia latina come deiuos. E lo presenta come ancient dérivé signifiant ‘lumineux’, conservé avec sa valeur adjective dans certaines expressions consacrées: sub dīuō columine, culmine dans les Acta Fratrum Arualium; sub dīuō caelō attesté par Caper. Infine afferma che deus est issu phonétiquement de deiuos > *dei(u)os > deus.

Inutile estenuarsi a riproporre l’intera pagina dell’Ernout-Meillet, quando lo vediamo arenarsi nella solita formula passe-partout, ossia nel termine asteriscato *dei(u)os “di origine indoeuropea”, una formula che ogni etimologista persevera a presentare come necessaria, nonostante sia soltanto supposta. Tali ipotesi servono, nelle loro intenzioni, a dare un qualche senso alla dimostrazione accademica, ma non servono a nascondere una ricerca disperatamente spoglia di sostegni scientifici.

Giovanni Semerano invece fu più credibile, e propose la propria interpretazione nel suo mastodontico lavoro Origine della Civiltà Europea, vol. II 384. Egli non ebbe bisogno di apporre l’asterisco perché i suoi termini non erano inventati ma attinti scientificamente dai dizionari delle lingue mediterranee, le quali erano state scritte molto prima del latino e del greco. Pertanto egli adduce gli stessi termini dell’Ernout-Meillet, ed in più il skr. deváḥ ‘celeste’, ant.pruss. deywis, lit. dievas, irl. dia, aat. Zio. Egli rinvia giustamente anche al lat. diēs ‘giorno’, ma poi s’ingarbuglia in dimostrazioni poco produttive. A quanto scrive posso aggiungere che diēs contiene lo stesso concetto della radice sumera di ‘sfolgorare’. Ovviamente.

Attenzione!, tutti i filologi, compresi quelli non citati ma escluso Semerano, hanno adottato per conto proprio le famigerate “radici indoeuropee”, impipandosi di consultare gli antichi dizionari e proponendo soltanto mere formule ideologiche, vincolati alla dittatura germanica vigente da 150 anni sugli studi di linguistica. Questi signori, nell’evaporare e svanire nel vuoto del proprio immaginario privo di puntelli hanno sempre ignorato (anzi rimosso) l’arcaica base sum. di ‘brillare, sfolgorare, to shine, to be bright’, preferendo inventare il termine asteriscato su citato, tanto per marcare la propria fedeltà all’ideologia “indoeuropea” (o, che è lo stesso, la propria fedeltà alla falsa origine “indogermanica” del linguaggio).

Non potendo accettare le ideologie, io mi oppongo a tutti costoro nel testimoniare la base radicalmente diversa del lat. di-us ‘luminoso, divino, del cielo’, di-es ‘giorno’, gr. dī-os ‘brillante, divino, celeste’, la quale deriva dal sum. di ‘to shine, to be bright’ + u ‘universo’, col significato originario di ‘illuminare l’universo’, o meglio ‘universo illuminato’ (poiché la luce durante il giorno rende luminoso il firmamento).

Nei confronti paralleli tra radicali identici fu portata confusione finanche dall’intromissione dell’aggettivale gr. θεός ‘dìo, ossia divino’, poiché i filologi non hanno saputo render conto che θεός non divenne mai un nome proprio ma rimaneva nome di genere: indicò qualunque divinità del cosiddetto “pantheon” greco, dalle quali si distingue propriamente Ζεύς (col suo nome personale che si confronta esclusivamente con l’epiteto De-u ‘creatore dell’Universo’). Ζεύς è un epiteto personale chiaramente diverso dal generico θεός, come tutti possono constatare. Il concetto gr. di θεός è precisato dal collaterale vb. θέω ‘brillare, sfolgorare’: quindi θε- è una forma distintiva (oppositiva) ch’esprime lo stesso concetto della radice sumera di ‘sfolgorare’, cui si erano omologate le altre radici in dī- (es. lat. di-us), relative alla ‘luce del giorno’, allo ‘splendere, brillare, render chiaro’.

Non a caso la base etimologica del gr. θεός si ricava dall’eg. tåa (leggi tìa) ‘divine emanation, essence of a god’. Questo termine egizio è uno dei tanti determinativi (possiamo chiamarli ornativi) che in lingua sumera erano espressi diversamente, con sa-tu, qualificato come ‘signore dell’intelligenza’ (da sa ‘intelligenza’ + tu ‘leader, signore’, da cui il sd. santu, lat. sanctus). Il lat. sanctus, riferito ai “santi” cristiani del Medioevo e dell’Età moderna, è un termine oggi prevalso a scapito del medievale divus.

Tornando all’agg. θεός ‘divino’, osservo che gli specialisti parlano ossessivamente di “nomi” attribuiti alla divinità, senza mai accorgersi che in ogni caso si tratta soltanto di aggettivi o aggettivali, insomma di epiteti. La distinzione tra nome ed epiteto non è questione di lana caprina, perché Dio non può avere un nome. Dio non è sperimentabile perché non è percepibile né al tatto né alla vista né con le emozioni. Egli non è nemmeno pura idea, poiché il pensiero, le idee, nascono soltanto dall’esperienza, dall’azione, dal lavoro, dalle conseguenze dell’atto (i ricordi, le previsioni, i programmi, le speranze), nelle quali beninteso sono comprese anche le emozioni, che però sono più propriamente collocabili tra gli stati d’animo scaturenti dall’agire nostro o altrui.

A Lui ci si può rapportare esclusivamente tramite aggettivi o epiteti riferiti alle Sue epifanie. Le quali, per definizione, sono molteplici, come i religiosi s’accorsero fin dai primordi della civiltà. Esempio, in Israele Dio aveva 72 nomi (ma sempre epiteti erano!…), a Babilonia parecchie decine, e così via. Quindi è proprio a Dio (significante, ripeto, ‘Creatore dell’Universo’) che la religiosità degli antichi volle indirizzarsi mediante epiteti, preci, lodi, suppliche, a seconda che dell’Essere supremo si volesse evidenziare l’una o l’altra disposizione nei confronti dell’Umanità.

Ciò che risulta ostico e adulterato in queste ricerche non è il materiale letterario che tratta le religioni antiche, ma sono le elucubrazioni degli studiosi occidentali, i quali s’incaponiscono a considerare tutte queste religioni come “politeiste”. Addirittura molti studiosi, avvolti purtroppo nella nebbia culturale, non si scandalizzano nemmeno del fatto che sussistano parecchi dèi non solo nei sistemi creduti “politeisti” ma persino in quelli da loro stessi creduti “monoteisti”. Costoro ritengono sufficiente, per definire meglio le due macro-correnti di pensiero, separare i due sistemi teologici sulla base del fatto (così affermano) che nel “politeismo” quei numerosi dèi sono immanenti all’uomo e alla terra, mentre nel “monoteismo” sono tutti trascendenti (sic!). Questo ragionamento distintivo merita di essere classificato come la più grande burla inventata (e fatta digerire) dai teologi allevati dalle università cattoliche, e dimostra che l’uomo, non importa quanto sia laico, con le parole si può divertire, e può essere divertito, sino allo sfinimento.

Pertanto occorrerebbe sciogliere il nodo filologico maturato dall’ermeneutica vaticana (e bizantina) in relazione al Dio Unico. Tali approcci non sono stati sempre corretti, ed i luoghi comuni relativi ai vari pantheon dei popoli mediterranei meritano d’essere rivisitati a fondo (come io ho fatto nel mio ultimo libro su citato), al fine di mettere in sesto certe catalogazioni sbrigative, quando non supponenti o, peggio, devianti. Almeno per i popoli mediterranei, non è accettabile a priori l’invenzione di un pantheon che è tutto da rimeditare. Lo stesso concetto di pantheon, abusato da chi si è lasciato trascinare dalla vis ermeneutica vaticana, ha spesso indotto a grossolane riduzioni della visuale critica. E persino gli analisti più radicali, dai quali ci attenderemmo un supplemento di rigore a rinforzo delle proprie tesi, immiseriscono talvolta la loro prosa e le loro sistemazioni accreditando un pantheon anche dove ci sono tutti gli elementi per negarlo.

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