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Ancas de cane. Tradurre alla lettera ‘gambe di cane’ un pane che a Thiesi è impastato con noci e uvette al fine di commemorare i Defunti, sarebbe assurdo. A Sìligo peraltro lo stesso pane-dolce è noto come pabassínu isladolzádu, dove sa ladòlza è interpretata come «la farina che resta sopra il pane» (Pani 162). Ma premesso che ladòlza non esiste in nessun dizionario, siamo certamente di fronte a una etimologia popolare. In Sardegna succede spesso. Base etimologica di ladòlza (aggettivale con suffisso –lza, antico -ria) sembra l’akk. lādu(m) ‘curvare a gomito, piegare verso il basso’. Il termine corrisponde esattamente alla forma de su pabassinu isladolzádu (che poi a sua volta è identica alla forma de sas ancas de cane), il quale figura come un filoncino lungo 30 cm, flesso in forma di S dalle curve piuttosto strette (appunto “a gomito”).
Tornando a sas ancas de cane, un pane ad S che non richiama gli arti del cane, il termine è antichissimo e suggerisce uno dei primi strumenti musicali creati da un artigiano specializzato. Ciò avvenne con la prima metallurgia, a meno che non vogliamo credere ad una maggiore arcaicità (tutto porta a crederlo), e pensare che i padri del Neolitico non solo avessero confezionato sas launèḍḍas dalle canne, ma che abbiano influito anche sulle canne, prelevate prima del rinsecchimento e sottoposte alla fiamma per curvarle delicatamente in forma di corno a doppia curva (appunto ad S).
Questo pane sottile, dalla sagoma simile ad una S, chiamato ancas de cane, ha base etimologica nell’akk. anḫu(m) ‘stanco’ (di uomini o animali), ‘dilapidata’ (di casa) (da cui l’italiano angoscia) + qanû(m) ‘canna’. Dal che sembra di capire che lo strumento iniziale sia stata proprio una canna flessa, “fiaccata”, curvata. Il pane così modellato prese a sua volta quel nome per onorare l’importanza intrinseca dell’oggetto musicale (il quale non serviva al divertimento laico ma era uno strumento per onorare la divinità entro le mura del tempio). Quindi è chiaro che anche questo pane in origine avesse una propria autonoma sacralità.
Non è facile, adesso, risolvere un mistero: perché un pane che ricorda un possibile strumento musicale viene foggiato per la ricorrenza dei Defunti? Possiamo soltanto osservare che la morte di un individuo fu sempre, al pari della nascita, il momento cruciale della vita, quello che lo legava strettamente alla divinità. Forse l’importanza del momento fu più grande di quanto possiamo immaginare. Quindi lo strumento musicale (o la sua effige) dovette essere un accompagnamento degno per il trapasso.
Ánimas è un pane, ad esempio, di Orani, con forma di spianata confezionato per la Commemorazione dei Defunti. Vari pani di Bòrore chiamati Pane e ánimas, confezionati per la stessa ricorrenza, sono semi-pastadure foggiate con le più svariate sagome. A Dorgali il nome è simile a quello di Bòrore. Anche a Sìnnai esiste questa tradizione, e così in gran parte dei villaggi sardi.
Arenadèḍḍas sono dei tipi di pastadura confezionati a Quartucciu per la Commemorazione dei Defunti, per i quali c’è il sospetto di una paronomasia. Vedi l’akk. arru(m) ‘uccello di richiamo’ + nadû(m) ‘recitare, cantare’ formule incantatorie, col significato di ‘uccello che richiama con formule incantatorie’. Il richiamo prodotto da questo tipo di pane è rivolto ovviamente alle anime dei familiari.
Covàtza, cuàtza. Fatta con semola, fior di farina, farina o cruschello di grano, oltre al lievito naturale e sale. Per lo più di forma oblunga, è rigonfia, molle, infarinata, pressoché priva di crosta. Può essere anche rotonda. É mangiata quotidianamente, e confezionata anche per la ricorrenza dei Defunti e per Ognissanti. La sua forma, caso eccezionale, è pressoché identica in tutta la Sardegna.
Covàtza e rìa. La morte merita i suoi pani, a sottolineare la continuità della memoria, il dolore del distacco, il senso della solidarietà comunitaria, la speranza in un’altra vita. Questo pane, nelle tipologie usuali, rientra tra i doni inviati ai familiari del defunto da parenti, amici e vicini. In numerose località è la famiglia del morto a preparare dei pani cerimoniali da donare ai poveri “per l’anima del defunto” a varie scadenze (trigesimo, anniversario ecc.) e per tempi più o meno lunghi (ad es. un anno intero). Ambo gli usi sono tuttora vivi. A Tresnuraghes sa covatza e rìa è un pane da consumare al banchetto funebre, morbido, abbastanza spesso, talora lucidato, a forma di settore circolare, graffiato a bande regolari con una punta in modo che gonfiando presenti quasi dei cordoni sovrapposti tendenti a rastremarsi.
Rìa ha base etimologica nell’akk. rību ‘(dono di) sostituzione; compensazione’; probabilmente il termine si è incrociato con rigmu ‘grida’. L’uno e l’altro concetto riguardano il gruppo di donne, che partecipano al compianto funebre con le celebri grida delle préfiche, e poi ricevono dalla famiglia del morto una cena funebre (dono di sostituzione).
Cùccuru mortu è una tozza pastadura (quasi una pagnotta) di Sindìa, sforbiciata qua e là, confezionata per la Commemorazione dei Defunti. Letteralmente significa ‘testa morta’, ma l’interpretazione è fuorviante. È proprio la giornata dedicata ai Morti che fa comprendere l’antico significato. Per ricostruire l’etimo, vediamo anzitutto il sardo cùccuru che significa ‘sommità del cranio’; la più antica base è il sum. kur ‘monte’, con termine raddoppiato (ku-kur). Mortu ha base nell’ug. Motu ‘Dio dei morti, degl’Inferi’. L’antico significato fu pertanto ‘pagnotta dei Defunti’.
Gillántiri. Ha la stessa forma a pagnotta del maritzόsu; prodotto a Uta, prima dell’infornata viene separato in due lobi, producendo già in partenza un pane molto più piccolo del maritzósu. La base etimologica è la forma accadica, di origine sumera, giḫlû ‘cerimonia funebre’ + antu ‘spiga d’orzo’ + suffisso aggettivale sardiano –li, –ri. Gilántiri, gillántiri nella più alta antichità era quindi un pane d’orzo, piccolo, inizialmente prodotto dai Barbaricini o Jolaenses, che veniva distribuito a tutti coloro che andavano alla casa del morto per le condoglianze; praticamente era dato all’intero paese, in virtù della questua dei Defunti: di qui la forma piccola (vedi, per il confronto, covatza e rìa). Oggi l’antico significato e l’antica cerimonialità sono persi, ed a Teulada ritroviamo un gillántiri che è che una allegra panàda farcita con verdure. Nell’Ogliastra su gillántiri, con forma e contenuto di panàda, è chiamato a sua volta coccòi prena ‘pane ripieno’.
Giuále a Thiesi è così detta una pastadura a forma di basto d’asino. Per il significato e l’etimo, andiamo a giuále piccádu, che a Thiesi è una pastadura leggera alquanto rigonfia, arcuata, intagliata nella forma della collana apposta al cavallo da tiro per impedirne gli strozzamenti. È chiamata giuále, lo stesso nome del giogo dei buoi. L’etimo è dal lat. iugum, secondo Wagner; ma è più semplice supporre l’origine dal lat. iuba, che è la folta criniera di un leone, di un cavallo, di un uomo inselvatichito, etc. È detta piccàda, ossia ‘scolpita’, per i profondi solchi ed i cornetti che modellano il pane. L’uso di questo pane in origine dovette essere rituale. Basta ricordare l’importanza che su giuále (quello vero o una sua effige) ebbe nelle pratiche dell’eutanasia: esso veniva messo in genere sotto il cuscino del moribondo per affrettarne la morte.
Ippianàda. Italianismo per spianata, indica un pane spesso circa 5 mm, diametro di 30-40 cm. Il termine ne fa capire la confezione: sfoglia circolare, morbida, bianca, friabile, di fior di farina. L’uso è normalmente quotidiano, considerato il rapido indurimento. In ogni modo nel settentrione per la festa di Pasqua la forma si decora con intagli, incisioni, timbri e applicazioni di foglie, fiori, animali, ricavati dai ritagli di pasta. S’ispianàda di Bono, dal diametro di 31 cm, ha un intaglio centrale, forma quasi di ombrello schematico, e viene destinata alla commemorazione dei Defunti.
Paltzìda è una pastadura di Tramatza strozzata al centro (partzìda, dal lat. partǐor, ‘suddivido’). A Tresnuraghes è meglio evidenziata la forma suggerita dal nome. Ivi, delle forme minori (paltzighèḍḍas e s’anima e sos mortos) s’offrivano il giorno della commemorazione dei Defunti al campanaro e al suo aiutante che andavano di casa in casa sonando una campanella e pronunciando le parole “a sos ki tòccana” ‘a quelli che suonano le campane’. Ma è pur vero che sa paltzìda è talora una semplice pastadura d’uso giornaliero, magari lucidata, fatta con semola di frumento. Così è per esempio anche a Cùglieri, una pastadura arcuata, a melas, elaborata a sforbiciate. Altre partzìdas o pratzìdas si trovano un po’ in tutta la Sardegna, a Scano Montiferro come nel Campidano meridionale.
Pane e sos mortos è chiamato a Samughéo il pane confezionato per commemorare i Defunti.
Pane po s’ilgérru (o coccorròi). Lo Spano (Vocabulariu Sardu-Italianu) traduce il termine come ‘cruschello’, dalla materia impiegata anticamente nella confezione. Evidentemente si riferiva al modo di fare del proprio villaggio (Ploaghe). Oggi a Tresnuraghes su coccorròi è composto di fior di farina e viene lucidato: prodotto per le feste, le grandi occasioni, la Settimana Santa, a duas, tre, battor, kimbe concas. Talora è confezionato annettendoci l’uovo pasquale; a Cùglieri in questo caso è chiamato coccorréḍḍu e óu. Lo si fa anche, senz’uovo, per la ricorrenza dei Defunti, ed in tal caso è chiamato pane po s’ilgerru ‘pane d’inverno’. Guarda caso, questa denominazione richiama lo spirito più profondo della festa di Halloween, che era appunto la festa che inaugurava l’inizio dell’inverno (e dell’anno).
I pani detti coccorròi non sono soltanto quelli a palle lucide ed a pastadura. Può esserci pure un coccorroi ladu ‘piatto, schiacciato’, a forma circolare ed alquanto decorato nelle superfici interne ed ai bordi, usato per consumo giornaliero e tuttavia simile allo stesso che viene confezionato, ad esempio a Pattada, per i novelli sposi (po sos cojuádos nòos). L’etimo del primo membro di coccorròi è lo stesso di cocco, coccòi, cocòne. Il secondo membro –ròi ha base nel bab. rū’iš ‘per gli amici’. Questo pane in origine era fatto per la distribuzione a persone particolari.
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