Salvatore Dedola
Le origini del linguaggio
“La parola è come un melograno: grigiastro, ruvido e inespressivo all’esterno, mentre all’interno conserva una miniera di rubini gustosissimi”.
Sull’antichità dell’origine del linguaggio umano si fanno soltanto ipotesi. Alcuni lo fanno risalire al Paleolitico Superiore (160.000 anni), altri al Paleolitico Medio (200.000 anni fa), altri al Paleolitico Inferiore (500.000 anni fa). In ogni modo, c’è accordo per far risalire l’origine del linguaggio a prima che comparisse l’Homo Sapiens.
L’ultima parola spetta agli antropologi. Sono loro ad aver scoperto un Neanderthal con osso o cartilagine glottale anziano di 230.000 anni, ed ovviamente pensano che l’osso glottale favorì l’articolazione della lingua. Ma altri archeo-antropologi del Sud-Africa accampano la scoperta di una Dea-Madre vecchia di 700.000 anni: chiaramente, gli scultori di quella Dea-Madre parlavano.
Comunque la mettiamo, l’Homo cominciò ad articolare parole e pensieri molto presto. Osso della glottide o meno, io sono convinto che l’Homo riuscisse a comunicare suoni alquanto articolati anche senza quell’osso ritenuto indispensabile.
Secondo me, l’origine del linguaggio può retrodatarsi ad oltre 1 milione di anni. Ma non è il caso di competere verso traguardi molto arcaici. Tutto dipende dal tipo di organizzazione che gli antropologi hanno saputo individuare, o sapranno individuare, nei clans umani che via via si moltiplicarono in Africa e in Eurasia.
Gli antropologi sono d’accordo sul fatto che le manifestazioni religiose ed i manufatti necessari al lavoro quotidiano siano i due pilastri utili per affermare come sicura l’organizzazione dei clans e poi delle tribù. Quindi la Madonna del Sud-Africa ha un senso, conferma che a quei tempi c’era già il fenomeno religioso. A maggior ragione l’Homo parlava. Probabilmente parlava da oltre 300.000 anni, ossia da un milione di anni fa.
Una volta che le forme societarie furono costituite, è del tutto ovvio che i loro componenti dialogassero tra loro, poiché una società non può esistere senza il legante della comunicazione.
Poiché la presenza dell’Homo è stato scoperta, oltre che in Africa, anche in Eurasia, a questo punto qualcuno potrebbe chiedersi quale fu il focus, la scaturigine del primo fenomeno del linguaggio. Ma qui si rischia di girare a vuoto, di sgangherare la questione, poiché, in qualsiasi parte i clans si siano spinti, in qualsiasi parte un gruppo di ominidi si sia evoluto più di altri, l’esigenza di comunicare fu sempre presente. Il linguaggio è l’essenza della sopravvivenza di un gruppo organizzato: senza linguaggio, ripeto, non può esserci organizzazione. Tale esigenza si scopre identica nelle balene, nelle orche, nei delfini, nelle scimmie, etc., ossia in tutti i gruppi gregari. Tutto ciò rende questa discussione ampia e complessa, ed occorre essere vigili e corretti da qualunque specola vogliamo gestirla.
A noi ovviamente interessa il linguaggio umano, quello articolato in suoni differenti capaci di essere tra di loro oppositivi; infatti soltanto l’opposizione di un suono con l’altro può essere la base per distinguere a sua volta un concetto da un altro.
È del tutto intuitivo che ai primordi l’opposizione tra i suoni fu del tutto elementare; quindi /a/ (ad esempio il sumerico a ‘acqua’) si oppose ad /e/ (ad esempio il sumerico e ‘parlare’); parimenti si oppose anche ad /i/ (ad esempio il sumerico i ‘vestito’), e si oppose anche ad /u/ (ad esempio il sumerico u ‘terra’).
Quanto alle consonanti, è intuitivo che qualsiasi consonante non si può pronunciare se non appoggiandola ad una vocale. Quindi le consonanti si presentarono nella storia del linguaggio già vocalizzate. Pertanto avemmo ba, be, bi, bu; ab, eb, ib, ub, cui corrispondono in sumerico le seguenti parole: ba ‘coltello, strumento per tagliare’; be ‘misurare’, bi (particella avverbiale), bu ‘perfezione’; ab ‘vacca’, eb ‘forma ovale’, ib ‘arrabbiarsi’, ub ‘grotta’. E così via per ogni altra lettera dell’alfabeto e per ogni altro gemellaggio di questa con le vocali.
Già questi primi semplicissimi e cortissimi monosillabi, composti da una semplice consonante vocalizzata, consentirono ai loro inventori-formulatori di creare in pochissimo tempo circa 300 parole. Ciò è strabiliante! Infatti chiunque sa che ancora oggi presso qualsiasi popolo, anche in Europa, anche in Italia, anche in Sardegna, nella comunicazione si usano non più di 300 parole (nonostante che ogni vocabolario ne contenga oltre 100.000, oltre 200.000). Ciò significa che ancora oggi, dopo un milione di anni, il genere umano usa lo stesso numero di parole che vennero usate dai primi formulatori del linguaggio. Strabiliante!
È del tutto ovvio che quelle 300 parole furono la base per il formarsi dei clans, i quali nacquero per la naturale esigenza dell’Homo di fortificare le proprie azioni economiche con delle pratiche capaci di assicurasse la sopravvivenza propria e dell’intero gruppo.
A questo punto occorre chiarire un aspetto importantissimo. Qualunque sia stato in genere di Homo che gli antropologi hanno rinvenuto anche nel paesi nordici dell’Europa e dell’Asia, è del tutto ovvio che la razza umana è nata nel Sud del mondo. Soltanto in seguito si è spinta a nord. L’Homo tentò di risalire sempre da sud a nord (verso l’enorme calotta glaciale che occupava l’Eurasia dal Polo sino al livello delle Alpi, dei Carpazi, dei bassi-Urali, della Mongolia). Tutto ciò è persino intuitivo, poiché nelle zone nordiche c’era un ghiaccio profondo sino a tre chilometri, e nessuno è mai vissuto in tali ambienti, essendo di gran lunga più vivibili gli ambienti senza gelo.
La controprova di quanto ho detto sta proprio nella lingua che noi oggi – per comodità – chiamiamo Sumerica ma che fu la Lingua del primo Homo. Infatti è soltanto essa che ci offre un linguaggio monosillabico, un vocabolario formatosi interamente dalla “vocalizzazione” di tutte le consonanti.
L’idea di un idioma “indo-germanico” sortito sulle pianure ghiacciate a nord dell’Ucraina e del Kazakistan, con improbabili rincalzi dal Pamir e dintorni, non tiene conto che l’Homo provenne sempre dalle zone non soggette a glaciazione. Quindi è forza immaginare soltanto pressioni da Sud, risalenti i vari corsi dei fiumi, lungo le antiche valli glaciali del Rodano, del Danubio, del Dnepr, del Don, del Volga, dell’Ural e – al dilà dell’Hindukush-Karakorum – del Brahmaputra, del Mekong.
Furono le genti che risalirono le valli glaciali a costituire poi – millennio dopo millennio – il fenomeno dei Popoli delle Steppe. E furono questi ultimi, a loro modo, che rifluirono a ondate verso Ovest nelle pianure centrali dell’Asia, nella Pianura Sarmatica, facendo capolino nella storia mediterranea col nome di Popoli Barbarici.
Nuovo dizionario della Lingua Sarda
ISTÉRRIDA METODOLÒGICA A SU “NOU FAEḌḌARZU ETIMOLÒGICU DESSA LIMBA SARDA” de Barore Dedola
I venticinquemila lemmi di quest’opera analizzano mediante la tecnica etimologica l’origine di altrettante parole. L’elenco arriva abbondantenente a un quarto dei 90.000 vocaboli inseriti nel più completo dizionario della lingua sarda, quello di Mario Puddu. Il mio scopo, evidentemente, non era di eguagliare i numeri del Puddu; invece ha inteso ricalcare uno per uno, e riesaminare ab imo, i lemmi trattati da Max Leopold Wagner nel “Dizionario Etimologico Sardo”, aggiungendone altri la cui analisi è già stata resa nota nella mia “Collana Semitica”. Un’opera linguistica non si misura a numeri ma a contenuti. Peraltro l’opera del Puddu è diversa: egli ha ottimamente raggiunto lo scopo di ogni completo e buon “dizionario dell’uso” ed ovviamente non ha affrontato la questione etimologica; mentre il mio lavoro non solo dichiara nel titolo lo scopo etimologico ma lo assume a pivot dell’intera opera. Sinora nessuno al mondo aveva studiato massivamente le etimologie del vocabolario sardo, salvo Max Leopold Wagner (stando almeno alle sue dichiarazioni). A parte sta l’impegno “classicista” di Giulio Paulis sulle voci pertinenti alla flora, al quale ha fatto seguire altri sporadici tentativi. Non metterebbe conto citare altri studiosi che ci hanno tentato, poiché i risultati sono stati assai discutibili (Massimo Pittau), o addirittura pessimi (Eduardo Blasco Ferrer); ovviamente non menziono certi altri appassionati, totalmente privi di formazione glottologica e pure di talento. leggi altro
Prefazione Dizionario Etimologico della Lingua Gotica
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